Ricordi di viaggi di un italiano nascosto

di Enrico Proietti



silenzi@live.it

Cuba

18.11.2013 15:40

“Aprendimos a quererte,
desde la histórica altura,
donde el sol de tu bravura
le puso cerco a la muerte.
Aquí se queda la clara,
la entrañable transparencia
de tu querida presencia,
Comandante Ché Guevara.”

Era imbarazzante.
Scesi dal cargo bimotore trasporto truppe sovietico riadattato a usi civili, con la toilette spartana dove il serbatoio dello sciacquone era una tanica militare appesa alla lamiera della carlinga e con tutte le indicazioni scritte in caratteri cirillici (nessuno le aveva cancellate), i turisti venivano portati in un grande capanno in legno dove veniva offerto loro un cocktail di benvenuto. Il nostro gruppo era atterrato alle nove del mattino, alle nove e trenta il cocktail che si trovò davanti era di gamberetti surgelati (a Cuba!): arduo gradirlo.
Tutti i turisti erano occidentali: per fortuna, visto che si trattava di Cuba, nessuno statunitense. Già una consolazione. Ciò nonostante, il tasso di imbecillità, tanto pura che vacanziera, era elevato. Il tipo dell’animazione ci convinse che non era possibile bypassare la cerimonia d’accoglienza e si lanciò nel suo lavoro. Lo ammirai almeno per la capacità di essere così allegro e di buon umore a quell’ora, sul posto di lavoro. Era un bianco, biondo, forse erede, come l’Antonov, dell’ormai passata amicizia sovietico-cubana. Seppe far ululare i turisti semplicemente chiedendo: “¿Quién es español? ...francés, alemán, venezolano?” Finché arrivò alla nazionalità che, ritengo, la sua e la mia esperienza avrebbero lasciato supporre far scattare l’urlo più caciarone: “¿Quién es italiano?”.
Per una volta, gli rispose il silenzio pungente di decine d’occhi che cercavano gli italiani, misteriosamente – appariva – non presenti massicciamente come al solito. Non lo erano, infatti, e per una volta prevalse la vergüenza.
Il complessino era in effetti già schierato là dove quella specie di palco litigava con la parete di fondo. Ma sembrava che stessero lì come a pulire gli strumenti. Invece, in fretta si riassemblarono e si accesero. E di colpo il tenue filo del sentimento si avvolse intorno a chi volle farsene avvolgere.
Attorno alla cara presenza del comandante Guevara riviveva il mito doloroso di giorni che furono. Ancora una volta.
Alla fatua voluttà consumatrice che divorava gamberetti surgelati (a Cuba...) alle nove e trenta del mattino, all’imperialismo turistico occidentale, quei cinque-sei sgangherati opposero la struggenza e la dolcezza, la nostalgia e la fierezza, il dolore e la gioia: sentimenti, mister! Le note della cara presenza del comandante Che Guevara venivano eseguite in un arrangiamento che non avrei mai più ascoltato. La canzone più scontata diveniva un triste, lento, seducente canto di battaglia: ma di una battaglia di cui si ha la consapevolezza tangibile di averla persa e che, però, si canta ugualmente con la medesima fierezza di un vincitore, unita alla sconsolata tristezza di chi sa di aver iniziato una battaglia giusta e finito una sbagliata. E sembrava un lancinante rimprovero.
L’imbarazzo in me cresceva smodatamente: per cercare di vincerlo, fra tanta entrañable trasparencia e di fronte a tanta querida presencia, mi buttai su quei gamberetti assurdamente surgelati, a Cuba, sull’isola immensamente magnifica di Cayo Largo, Mar dei Caraibi.
Di Hemingway nessuna traccia.

Certo, Cuba è anche la folle bellezza de L’Avana. Certe strade pavimentate in legno, le piazzette e i vicoli, i colori delle case più modeste, lo splendore decadente e decaduto dei villini. Cuba è la sua gente, aggrappata fuori degli autobus puzzolenti, appesa agli angoli delle strade, con la faccia stampata dietro due ritti d’inferriata, appollaiata sopra una bicicletta dalle gomme sgonfie, protesa fuori di balaustre delle quali ignora il senso e la funzione ma che le vive ugualmente con la fierezza di una famiglia nobile decaduta. Ecco cos’è Cuba: una nobile decaduta. Ha perso una guerra che già aveva vinto, è ridotta alla miseria, ma il lignaggio resiste e affiora, forse anche inconsapevole, in ogni gesto del quotidiano.
Cuba è Teo, ingeniero agrario che mi abbordò poco fuori l’inospitale hôtel Riviera dicendo di scambiarmi per un suo professore: e sì che non c’era una gran differenza d’età, fra noi due. Era chiaro che lui e il suo amico volevano turlupinarmi, ma vissi un’esperienza bella che mi costò una ventina di dollari soltanto. Secondo lui, credo, il costo fu maggiore, almeno di altri venti: ma non è così. Era commovente l’impegno e la profusione di mezzi che quei ragazzi e le loro famiglie mettevano per incassare 40 dollari. In fondo, avrebbero potuto benissimo scipparmi, rapinarmi, entrare in camera e far razzia. Invece no, noblesse oblige; il piano doveva essere elegante e perfetto.
Mi si avvicinarono appena rallentai incuriosito dall’andamento di un incontro di baseball tra ragazzini, nel campetto accanto l’albergo. Mi accompagnarono per un po’ parlando del più e del meno, poi pian piano, subdolamente, introdussero la possibilità di effettuare un cambio in nero, a tasso migliore di quello ufficiale, ovviamente.
Una proposta simile, a Cuba, non ha semplicemente senso. Il turista straniero può spendere solo in dollari, con la moneta locale può magari accenderci il fuoco. Stavo per mandarli a quel paese, ma improvvisamente si accese la folle idea. Mi dichiarai possibilista, ma non convinto appieno. Iniziò il corteggiamento, e fu un’avventura formidabile. Mi portarono con loro nella loro La Habana, quella “che il turista non vede”. E allora, trascinato appresso da questi due ragazzi, coperti da indumenti trasandati ma che parlavano con alta proprietà di linguaggio e notevole apertura mentale, vidi gli scaffali vuoti di uno spaccio, dove qualche donna si affacciava con la tessera in mano, dava uno sguardo a quelle rare merci che sembravano dimenticate da qualcuno e se ne usciva rassegnata. Mangiai un panino che mi offrirono loro a una specie di chiosco all’angolo di una strada, tra ragazzini che mi chiedevano come al solito gomme da masticare, e Teo che li allontanava. Entrammo in una biblioteca, e lì Teo non riuscì a nascondere l’orgoglio per l’alto livello culturale del suo Paese (istituzioni culturali, scuole, università, campi sportivi e ospedali sono tantissimi nell’isola). Fu qui che gli chiesi che titolo avesse. Mi rispose, pronunciando “ingeniero agrario” con sussiego e distacco. Mi diede l’impressione di declamare non quello di studio, ma il titolo nobiliare. Attaccò a illustrarmi l’importanza di un’agricoltura moderna per lo sviluppo della gente cubana. Alla fine, gli dissi che potevamo provare a cambiare venti dollari.
¿Sólo?”
“Bueno, empecemos asì.” Sì, cominciamo così, con venti dollari: più o meno quanto mi sarebbe costato un tour in una città occidentale un giro su un autobus scoperto.
Mi condussero nella piazza antistante il Capitolio Nacional: ci acquattammo sotto un portico, si fecero dare i venti dollari e l’altro ragazzo andò via. Teo mi spiegava tutti i passaggi, mi dava consigli su che fare per assumere un aria indifferente, mi descriveva cosa stesse avvenendo nel frattempo. Dopo poco, l’altro tornò e bisbigliò qualcosa a Teo che, invitandomi con la testa a muovermi, mi disse: “Está hecho. Sí, tranquilo.”
Dopo qualche centinaio di metri, mi fu consegnato un mucchietto di carta colorata tutta strapazzata. Le banconote cubane, ¡ay, qué dolor!
Era evidente a tutti, sebbene ciascuna parte fingesse da par suo, che con quella carta già intrinsecamente straccia non ci avrei fatto nulla (e fu infatti alla fine regalata a Silvia, una interprete bruttina ma simpatica che, dovendo tradurre in italiano, iniziava appena possibile a parlare in tedesco, perché le piaceva tanto quella lingua).
Pure evidente apparve subito che il guadagno consentito da quell’operazione illegale (nella quale comunque erano usciti soldi veri, quindi...) non era sufficiente a coprire l’impegno profuso. Iniziò la seconda parte del piano, per me altrettanto interessante della prima.
Mi chiesero in quale albergo alloggiassi. Lo sapevano benissimo, stavano appostati là fuori. Finsero il giusto: “¡Oh, el Riviera!
En el Hotel Riviera, está un torcedor, ¿verdad?
¿Un torcedor?” Non sapevo cosa fosse un torcedor.
Los puros. Hay un hombre que hace los puros en el Riviera.”
Ah, sí.”
Es mi padre.”, dichiarò trionfante Teo.
Dunque il placido tizio che nel sotterraneo dell’albergone ex-americano arrotolava sigari davanti agli incuriositi occidentali era un torcedor de puros. L’avevo osservato nel suo lavoro; avevo avuto l’impressione che potesse trattarsi di un ingegnere o di un avvocato che, perduto o costretto a perdere interesse nella propria professione, avesse scelto quell’occupazione filosofica per potere continuare delle meditazioni. Si aiutava con la ripetitività dei gesti, mai però meccanica, bensì amorevolmente competente, e con l’osservazione di chi l’osservava. Eh sì, si vedeva che era lui chi scrutava con maggiore attenzione, nella assorta lentezza dei movimenti culminanti in una repentina accelerazione al momento del taglio. Nell’istante in cui mozzava uno dei capi dell’involto, celebrando con il retaggio di un piccolo sacrificio la nascita di una sua nuova creatura, si consacrava deità che afferma la superiorità della sua sapienza sulla vacua frenesia dei turisti. Ora, Teo dichiarava che quell’uomo era suo padre. Poteva addirittura essere vero, ma non era questo il punto. Era chiaro che voleva arrivare da qualche parte.
Da quella rivelazione in avanti, tutta l’attenzione dei miei accompagnatori fu incentrata sui sigari. Mi chiesero se intendessi fumarmene uno.
No sé, puede ser...”
Mi condussero allora alla scoperta di uno dei posti più incredibili che abbia visto in quell’avventura. Andammo a casa di un loro amico, in un edificio ovviamente fatiscente. Era una grande occasione, poter entrare in una vera casa habanera. Ma non era soltanto un’abitazione: anzi, lo scopo principale era un altro. Si trattava di un bar “segreto”, dove in un frigorifero erano contenute birre e – addirittura – Coca-Cola e il ragazzo padrone (di casa) mise a girare un disco su un vecchio impianto del tipo di quelli venduti per corrispondenza da Selezione dal Reader’s Digest. Era organizzatissimo: c’era tanto di listino prezzi. Una vecchia un po’ discinta si affacciò sulla porta del camerone-bar e fu allontanata: non ci si presenta così davanti ai clienti. Le pareti erano completamente coperte dalle suppellettili del bar, con bottiglie di ron dovunque, candele e bicchieri, stampe a soggetto religioso con tanto di lucetta accesa davanti, fotografie, bandiere, file di libri, pile di dischi, oggetti vari. Consumammo qualcosa, e alla fine scappò fuori un puro. Mi insegnarono a scaldarlo nei punti giusti per far sciogliere quel po’ di colla che serve a tenere la foglia arrotolata, risero del mio modo iper-preoccupato di accenderlo (sembrava che dovessi aspirare tutto lo smog de La Habana, tanto sforzo feci con guance e polmoni).
Mi sentivo appagato: fumavo un sigaro eccezionale attorno a un tavolo con una tovaglietta di plastica a fiori dentro un bar segreto in compagnia di ragazzi cubani decisamente simpatici. Chissà se le milanesi a tette di fuori in cerca di maschi giovani che avevo incontrato a Cayo Largo erano mai riuscite in un impresa del genere. Ma tanto non le interessava. Mi offrii di pagare e lo feci. Il ragazzo “del bar” strabuzzò non solo gli occhi, ma prontamente Teo intervenne portandomi fuori prima che io potessi notarlo (ma l’avevo già notato) e attaccandomi una spiegazione posticcia sull’opportunità di non uscire tutti insieme per non attirare l’attenzione. Nel frattempo l’altro accompagnatore spiegava al barista cosa stesse accadendo.
Avevo infatti pagato in gloriosi pesos.
C’è una cosa sulla quale tutta la gente di Cuba e il governo sono sempre d’accordo: il turista ha da pagare in dólares americanos. Non si scappa. Ma in quel momento, era in atto un piano.
Guarda caso, si riprese a parlare di puros. Teo ebbe un’idea eccezionale. Mi chiese se mi interessava vedere un negozio dove vendevano sigari. Mi interessava.
Il posto era lontano, proposero di prendere un taxi. I taxi erano tra le pochissime automobili circolanti a Cuba, cui l’embargo negava alimenti, tinte murali (tutte le belle ville coloniali dei quartieri residenziali de La Habana erano infatti gravemente scrostate), mille altre cose e – forse soprattutto – petrolio. Si girava in biciclette dalle ruote sgonfie, che vanamente si cercava di mettere in pressione presso certi surrogati di pompe di benzina agli angoli delle strade; ma dai tubi di gomma usciva appena l’alito di un moribondo. Stavo per offrirmi di pagare la corsa, ma Teo ne fece una questione e mi tirò giù dalla vettura, mentre l’altro, senza alcuna generosità, o comunque non per quella, pagava al conducente. In pesos, ovviamente. Con qualsiasi moneta avessi pagato io, sarebbe stata una falla nel piano: pesos, io non potevo averne, dunque avrei implicitamente denunciato i miei accompagnatori; e i miei dólares americanos (sui quali il taxista avrebbe applicato un cambio da rapina) erano comunque un bene troppo prezioso da lasciarlo dissipare. Però, per i due fu un’altra uscita.
Non c’era dubbio, a questo punto. Il piano era attivo, rappresentava senza dubbio lo scopo principale di Teo e del suo amico: ma c’era dell’altro, doveva esserci. Forse la curiosità di passare qualche ora con un capitalista e capire se odiarlo davvero o invidiarlo (o compatirlo...), forse il volersi sentire per un giorno fuori dalla chiusura cubana, forse il confronto: magari solo la stessa simpatia che anch’io provavo per loro. Riuscii a parlare di certe timide manifestazioni anti-regime, ma non anti-Fidel, che gli universitari avevano inscenato qualche settimana prima e mi parve di capire che Teo non ne fosse completamente estraneo. Già, lo sviluppo dell’agricoltura per il riscatto della gente cubana doveva passare necessariamente attraverso una ridiscussione di certi principi che la pratica, nel tempo, aveva travisato rispetto ai valori iniziali.
Ma eravamo ormai davanti al negozio.
Ovviamente, quando a Cuba si parla di negozio, si intende un qualcosa per stranieri dove i locali non possono avere accesso. Infatti – e qui rivelarono la meticolosità del piano – il posto, guarda caso, in quel momento era chiuso. Le vetrine però si potevano guardare. Mi fecero osservare tutte le confezioni della marca “Montecristo”: in particolare una scatola da 25. Mi decantarono tutte le virtù del tabacco cubano, mi descrissero le piantagioni intorno Pinar del Río, l’unica zona dove sopravvive una parvenza di proprietà privata legata proprio alla produzione tradizionale, si soffermarono a illustrare la fama dei loro sigari, si distesero a ricordare che Fidel ne fumava, o ne aveva fumati, tanti; infine mi chiesero se avessi visto quanto costavano. L’avevo visto sì: la scatola da 25, 175 U.S. dollars. 7 dollari l’uno, mica male.
Son los mismos que mi padre hace en el Hotel Riviera...”
Il cerchio si stava chiudendo.
Oye, Teo, si tu compañero quiere, quizá haya puros en tu casa, ¿verdad?” aggiunse lesto l’altro ragazzo. Il compañero di Teo ero io, ovviamente, che se ne avessi chiesto, forse Teo aveva dei sigari in casa. Quindi, continuando la battuta prevista dal copione, si rivolse direttamente a me: “¿Quieres, compañero? Puros. ¿Quieres puros?
Notai come fosse la prima volta che lui mi dava del tu: eravamo ormai intimi, cioè alla stretta finale. Ma ancora una volta, finsi di non capire. Teo fu costretto a scoprirsi.
Si tú quieres puros, Montecristo como éstos, mi padre y yo tenemos.” “En nuestra casa”, aggiunse circospetto.
¡Ah!, pero tu padre hace puros en el Riviera. No son Montecristo.”
Sí, claro que no. Los que él hace en Hotel Riviera no son Montecristo. Pero mi padre trabajó, hasta hace un año, en la fábrica Montecristo.”
C’era sempre una risposta per tutto, con estrema naturalezza e nobile nonchalance. Non potendo sostenere che i sigari che teneva in casa fossero contemporaneamente della rinomata marca Montecristo e fatti dal tipo che li rollava a mano nei sotterranei del Riviera, aveva dichiarato che fino all’anno prima suo padre lavorava nella fabbrica.
¿Y cuánto cuestan?
Mucho menos.”
¿Cuánto menos?
Eh, no sé.”
Una como ésta”, dissi indicando la scatola da 25.
Tenemos que preguntar a mi padre.”
Mostrai i pesos stropicciati, domandando quanti di quelli mi sarebbero serviti. Risero.
¡No, compañero, mi padre quiere dólares!
Ecco: prima avevano fatto tanto per farmi cambiare i dollari in pesi, ora però che dovevo pagare loro, chiedevano i dollari. Da buono straniero a Cuba, d’altronde, avevo da pagare in dollari.
No tengo otros dólares aquí”, dissi.
In breve, ci accordammo per rivederci alla sera, prima di cena. Mi sarebbero venuti a prendere fuori dell’albergo. Specificarono che sarebbero restati dall’altra parte della strada, vicino al chioschetto di una specie di bibitaio. Lo sapevo già. Davanti l’entrata dell’albergo stazionavano auto ‘civili’ della polizia.
Casa di Teo non era lontana dal Riviera. Era un’abitazione di un semplicissimo stile coloniale, divisa con un’altra famiglia. La vita si svolgeva al piano terra, al primo dovevano solo dormirci. La madre, una zia e una pletora di fratelli/cugini/amici/vicini/nipotini occupavano casualmente la veranda piastrellata dalle stesse piccole mattonelle d’argilla rossa che hanno riempito i nostri terrazzini negli anni ’60 e ’70. A parte le due adulte, anzianotte, non c’erano donne a ricevere lo straniero.
Dopo pochi convenevoli, ebbi chiare due cose: che Teo era molto considerato, per aver studiato a fondo, essere diventato un ingeniero agrario; ma che però la trattativa non l’avrebbe più condotta lui. Sarebbe stato un fratello grande, o forse giovane zio, dalla faccia assai più malandrina, a farlo. Del fantomatico padre torcedor, nemmeno l’ombra.
Propose quantitativi industriali, ma capì presto che non avrei comprato che la scatola da 25. Diede uno sguardo alla madre che, seduta su una poltrona in legno, dominava su tutto, questa batté gli occhi e Teo andò a prenderla.
Si ripresentò con una scatola originale da 25 Montecristo, fatta in legno e guarnita su tutte le fasce laterali e sugli spigoli con carta dorata. Al centro del coperchio, il marchio composto da tre coppie di lunghe spade che si incrociano a due a due in prossimità delle else: ogni coppia si contrappone alle altre dai vertici di un triangolo equilatero in modo che le sei lame generano due triangoli, l’uno inscritto nell’altro. Le fasce risultanti tra i due sono campite in rosso, lo stesso colore di un giglio araldico che riempie il triangolo centrale. Sul fondo della scatola, l’impressione “Hecho en Cuba”.
Una larga fascia dall’aspetto e dal colore di una banconota americana avrebbe dovuto chiudere la confezione: era il “Sello de garantía nacional de procedencia para Tabacos torcidos y picadura” previsto dalla “Ley de Julio 16 / 1912”! Non ho mai appurato se la Rivoluzione avesse mantenuto una legge sull’esportazione del ’12 o se l’incantevole truffa avesse riciclato un bollo dei nonni. Fatto sta che era spudoratamente aperta.
Para saber que se trata de puros...”, si giustificarono.
All’interno, i sigari erano ben disposti su due file sovrapposte separate da un’anima di legno rossiccio, tutti perfettamente fascettati “Montecristo • Habana”. Sul retro del coperchio, ancora il marchio e la scritta “Cabinet Selection No. 1”.
Nemmeno ho mai appurato se fossero sigari artigianali spacciati per Montecristo o veri puros della Casa habanera rubati, fatti uscire di nascosto dalla fabbrica, chissà.
La contrattazione previse lunghe, piacevoli chiacchierate dalle quali credetti di capire più su Cuba che non leggendo tutti i saggi scritti al proposito e si fermò a 20 dollari. Salutai tutta l’assemblea gongolante e me ne andai. Gongolante anch’io. Per 40 dólares americanos avevo visto l’interno del calzino cubano, dopo averlo rigirato, e portavo a casa 25 ottimi sigari. Quando la sera mi accesi il primo, anche la sporca camera del Riviera, dai vetri talmente non puliti da far sembrare perennemente che piovesse sebbene fuori il sole fosse abbacinante, si permeò di bontà. Il sapore di quelle foglie, dolce e acre, la trasformò in un ambiente familiare e piacevole da vivere.
Adesso quella scatola troneggia in casa mia. Fumo un sigaro in qualche occasione, una media di uno l’anno. Anche ora che il tabacco si è un po’ rinsecchito, il sapore di quel fumo mi seduce come sempre e mi fa voler bene a Cuba e alla sua gente. E a Teo, ingeniero agrario, truffatore e idealista.