Ricordi di viaggi di un italiano nascosto

di Enrico Proietti



silenzi@live.it

Gerusalemme

04.05.2014 21:56

Sarà stato alto sui cinque metri. Grigio.
Ci comparve davanti all’improvviso mentre avevamo smarrito la strada per Gerico. Sporco.
Impediva di proseguire con improvvisa tracotanza. Zitto.

Dicono che ci siano due città, ma ne individuai almeno cinque. Tre sono unite e in qualche caso un po’ mischiate, se non mescolate. Una ancora è virtuale, vera quando la consideri. Un’altra è separata da tutto, incredibilmente anche da sua sorella.

La culla delle tre grandi religioni monoteiste è arroccata sullo spartiacque di una catena interna parallela alla costa. A ovest le pinete di aromi mediterranei, le vallette coltivabili, le case in pietra di sapore latino, la terra, i fiori e i frutti. A est il deserto.
Gli arabi stanno a est.

Si arriva, come arrivammo noi, salendo. Respirando: odori reali e arie fittizie, come ce ne riempimmo. Poi non vedendo finché non si vuole vedere ciò che era in sé e aspettava d’esser visto. Come facemmo noi.
Forse già pieni di deserto, oppure solo sporchi di sabbia e di vento.
Certo impropri a quelle strade e quelle mura, avulsi dal mistero e dallo scontato, lontani da ogni recondita mistica così come da tutte le palesi mercificazioni. Con una preparazione minima, distante nel tempo, carichi di raffazzonati concetti mai sviscerati, da soli; con rischi di perdite e perdizioni.
D’altronde già perso, io, nella luce bambina di occhi che piansero.
Così, insanamente inconsapevoli approcciammo la città, le città; immergendoci incoscienti però senza bombole, respirando l’aria vera del posto, con tutti i rischi del caso.
Che è il modo migliore di vivere Gerusalemme.

Se si sta bene. Se non è Rosh haShanà[1] e si ha la febbre. Una febbre stupida, che una coperta troppo corta, efficace metafora delle proprie ambizioni e contraddizioni, ha fatto venire in albergo. Complice lo spiffero sotto la porta.
Allora si scende e si chiede in reception se hanno un’aspirina. E non ce l’hanno. Possono vedere su internet se per ipotesi ci fosse una farmacia aperta, però è Capodanno e in città è tutto chiuso. Proviamo. L’addetto cerca, cerca, poi telefona ma nessuno risponde. Ritelefona e nessuno risponde. Ancora, e ancora niente. Ripete che è tutto chiuso, e pare dispiacersi della rabbia che provoca. Poi le sopracciglia si ridistendono un secondo appena. Al millesimo squillo qualcuno ha risposto. Dice alcune parole, poi passa il telefono: ci si spieghi direttamente col farmacista. Per fortuna quello parla un inglese non perfetto ma comprensibile. Serve un po’ di paracetamolo e un sedativo della tosse, eventualmente un mucolitico. Ovviamente ce l’ha. Bene, ecco indietro il telefono al receptionist., che parla ancora un poco sottovoce ma assumendo un’espressione di nuovo accigliata, anche vagamente sgomenta. Infine, scrive. Conferma con un cenno e un’occhiata: l’indirizzo. Poi lo passa. È scritto in ebraico e lui si stringe nelle spalle: non sa dove sia, da qualche parte abbastanza fuori città, ma non la conosce; dovrebbe stare vicino a un posto che nomina e che forse al momento venne anche compreso, ma non ha idea di come ci si arrivi. Conviene prendere un taxi e chiedere al conducente, suggerisce.
Fuori dell’hotel i tassisti sono molto più scarsi dei giorni feriali: solo un paio, probabilmente in attesa di qualcuno dei rabbini che la sera prima festeggiarono nel ristorante dell’albergo. Leggono il foglietto ma scuotono la testa, si consultano tra loro e lo ridanno indietro dicendo, o piuttosto biascicando frasi incomprensibili. Non conoscono quell’indirizzo? Lo reputano non conveniente?

Al diavolo! Tutto questo sta succedendo a me, e io ora ho un’idea. O meglio: non ho solo un’idea, ho anche una macchina. Ora la prendo e vado in cerca di una farmacia. Non c’è solo la macchina nella mia idea: c’è anche il ragionamento che Rosh haShanà è una festa ebraica e che dunque gli arabi dovrebbero stare al lavoro. E ci sarà pure una farmacia araba! Ho visto proprio il giorno prima come andare nella città araba, e così lo faccio. Mi incammino con ostentata sicurezza nelle strade dal sapore californiano e scendo nella spaccatura della storia lasciandomi le mura medievali alle spalle. Il paesaggio cambia, i volti pure. Soprattutto gli sguardi.
Pure la conoscenza e l’accento dell’inglese cambiano: in peggio.
Innumerevoli tentativi, quelli dicono cose, indicano, ma seguendo o ritenendo di seguire le indicazioni fornite non arrivo da nessuna parte, non scorgo alcuna farmacia. Tipi panciuti si consultano con tipi ossuti, poi i panciuti mi sorridono e con determinazione mi spiegano di proseguire alcune centinaia di metri e domandare ancora perché la farmacia è là ma devo domandare. Forse sarà su una stradina interna, penso io e mi fido. La cosa più strana è che ora ricordo che l’indicazione definitiva me la diedero in una salumeria. L’ovvia impossibilità della circostanza rende l’idea della febbre che montava. Oppure no, chissà, forse in quel pre-delirio di Capodanno ebraico per me potevano essere arabi cristiani. Ne avevamo conosciuti già. Uno in particolare, un signore attempato dagli occhiali quadrati, lo avevamo conosciuto spiando la vita appena fuori dai percorsi dei gruppi di pellegrini ed era stata una piacevole conversazione; poi ci aveva condotto a un ristorante cristiano prossimo alle sede del Patriarcato cattolico; infine si era offerto di farci da guida per l’indomani. Avevamo disatteso l’appuntamento per perderci da soli e per la febbre sopravvenuta. Cristiano era pure il giovane pingue che ci aveva venduto una memory card a prezzi inenarrabili ma anche spiegato molte cose su come regolarsi da quelle parti. Insomma: arabi con il crocefisso sotto al Golgota ce n’erano. Ma no, non credo che entrai in alcuna salumeria.

Fatto sta che ad un certo punto del mio cercare un signore parla un inglese migliore e mi dice con fare convincente:
“Vedi là dove sta uscendo quell’automobile? Entri lì, sali per la strada a sinistra e dopo 500 metri sulla destra c’è la farmacia.”
Preciso, sicuro, affidabile: vado. Forse mi ricordo anche di ringraziarlo.
Non penso a sparargli. Nemmeno con un colpo finto di una delle mille armi in vendita su ogni bancarella araba d’Israele, copie perfette di quelle che da qualche parte dovevano pure essere in commercio. In mano a tutti i bambini e gli adolescenti arabi d’Israele sembravano armi vere, usate con padronanza e verosimiglianza di contesto. Dovrei?
Seguo le indicazioni, impossibile errare. Imbocco dov’era uscita quella macchina, prendo a sinistra, inizio a salire. Il paesaggio non è né come presso l’albergo né come lungo la Via Crucis. Sembra vagamente un film neorealista nell’Italia del sud dell’immediato dopoguerra rovinata dalla risalita americana. Questa strada in salita, stretta, sfasciata, con un’arlecchinata di asfalti e cementi e buche mi sembra di averla vissuta in televisione, una di quelle pellicole con i ragazzini arruffati, i muli, le case bucate, i visi cotti dal sole e dalla povertà. Pellicole in bianco e nero, anzi con quella dominante giallognola dell’invecchiamento. Qui la stessa dominante la dà la voce del deserto.
È ripida la strada, e s’inerpica tra case lamierate dalle finestre piccole, quando ci sono; senza ordine, un medioevo mediorientale dei nostri giorni. Nostri! I giorni palestinesi non ci appartengono tanto quanto ne abbiamo notizia a ogni telegiornale. All’inizio questo selvaggio paesaggio urbano mantiene una qualche ariosità, che si rarefa salendo oltre. Già: oltre. Oltre i 500 metri predetti dal gentile signore che parlava un inglese migliore. Avrà calcolato male. Al doppio della distanza, sono perduto.
Se si riesce a vivere un dopo, spesso ci si interroga sull’imprevedibilità degli eventi, sugli attimi che cambiano la vita, su quanto improvviso sia il fato. Non fu il mio caso.
Incosciente di aver bisogno di coscienza, ebbi il mio dopo. Tuttavia nulla di quell’avventura fu istantaneo. Avrei avuto modo di accorgermi dei gironi dove stavo gradualmente salendo. Capovolgimento d’immagine e di mondi, in una terra dai dolori che nulla insegnano. Invece andai. La febbre montante? L’idiozia permanente?

Insomma, salgo. Con la mia macchina della Hertz porto il cuore un po’ più in là di quanto avrei pensato prima di stare in questo regno di bilico. Giudea benedetta e maledetta. Non i prati, le dolci colline della Galilea, la terra dove forse la primavera è più verde; calcare fino al Sion, poi la sabbia. Ottimo posto per morire. Salgo credendo ancora di trovare. E trovo, già! La strada è ora davvero stretta, non dà possibilità di manovra per voltarsi e ridiscendere. Voglio fermarmi e cedere, però decido o mi lascio decidere a percorrere quaranta metri ancora. Quanti bastano perché all’interno dei vetri, nell’aria climatizzata di una macchina ebrea, entri la disperazione di un nugolo di bambini palestinesi, appena sedata dalla voglia di gioco. Una trentina di piccoli fedayn apparsi dal nulla circondano l’automobile brandendo pistole e kalashnikov. Il mio arrivo è perfetto per la loro simulazione, è una variabile imprevista che farà rifulgere le tecniche di guerriglia dei più bravi. Sono perfetti. Sembra un film, uno di quelli fatti bene. Solo l’età dei protagonisti è differente. Spero non quelle armi e che siano invece finte entrambe. Ma sì, sono quelle delle bancarelle. Mi auguro. Fatto è che ho due tipetti sui 9-10 anni attaccati alla gialla targa israeliana, cioè ebrea, quattro-cinque tra gli 8 e i 12 per ciascun lato della vettura, altri mille, diecimila, tutto un esercito irregolare mi turbina intorno. Ho paura. Spengo l’aria condizionata. Ufficialmente tutti mi ignorano: quelli appiccicati all’auto, quelli che impazzano in giro, quelli con le armi vere dentro le case. Capisco che una sola partenza sbagliata in salita può fregarmi. Non aspettano altro. Se ne tocco uno, non so se ne esco.
Uno dei più grandi sta ritto un paio di metri davanti. Dev’essere un capo. Di quelli che stanno vincendo. Ero bravino anch’io al gioco della guerra; per come può esserlo un vitaminizzato figlio del boom economico, ma riesco a capire l’andamento della battaglia. E chi comanda.
Avrà dodici anni. I capelli nerissimi e morbidi nonostante l’ambiente. Indossa una maglietta dello stesso colore della pelle. Guarda i movimenti dei suoi verso la mia sinistra ma contemporaneamente sorveglia i miei. Decido che deve vedermi. L’unico modo di uscirne senza danni. So di non dover aprire la portiera, né agitarmi. Se è già un animale, sentirà i miei occhi sui suoi. Mi faccio un po’ in avanti dallo schienale, così da attenuare, per lui, i riflessi del parabrezza. Lo guardo, intensamente. È già un animale.
Ha occhi neri e induriti dalla vita. A dodici anni. Non è un cliché. Le circostanze ti chiamano a giochi che non sempre decidi (io non decidevo di fare il regista). Stavolta il gioco che si è presentato è: decidere la sorte di uno straniero. Lo svolge bene. La durezza e la fierezza del suo sguardo sono notevoli, quasi lo invidio. Non so che intenda comunicargli e tanto meno cosa riceve lui. Apprezzo la palese, quasi ostentata capacità di analizzare ed elaborare a velocità elevatissima. Non mi fa né cenni né espressioni. Solo a un certo punto si volta e grida un ordine ai suoi, ma anche quello ben chiaramente non relativo a me o alla mia situazione. Riprende il gioco precedente. Era quest’altro un po’ troppo rischioso, troppo prematuro? Nel giro di un ritorno della mia schiena a contatto della poltrona il nugolo è scomparso verso il basso.
Torno indietro.

Ma la febbre rimane.
Ora sono anche pieno di adrenalina. O di cosa, chissà! Per fortuna mio padre a quattordici anni mi insegnò a guidare in retromarcia, erano occasioni in cui andava in retromarcia anche il tempo. Ridiscendo cauto la stradina, trovo uno spiazzetto dove nessuno possa rivendicare l’intrusione in proprietà privata, mi giro e senza strappi vado via. Ma dove? Mi viene in mente il cristiano con gli occhiali quadrati. Con lui ci eravamo capiti, vorrà dire che accetteremo la sua guida. Per non esserci fatti vedere, la febbre è pure un’ottima scusa. Nemmeno lo sembra. Devo tornare su e andare alla città vecchia. Lo faccio. Risalgo dalla fenditura della storia verso il sole pieno delle alte colline giudee.
Devo entrare da Jaffa Gate, la Porta di Giaffa, la stessa che abbiamo fatto camminando tranquilli per dieci minuti dall’albergo e subito dopo la quale, buttandosi nei calmi vicoli a sinistra, lui starà come l’altra volta seduto in strada a fumare una sigaretta, la camicia aperta sulla canotta, la croce al collo bene in mostra, a parlare con suoi amici. Dove posteggerò? La circonvallazione alle mura non è esattamente un posto comodo per cercare parcheggio, ma ho fretta e mi sento anche un po’ debole, non ho voglia di camminare a lungo. Troppo preoccupato, mi ficco nel tunnel che passa oltre la porta. Per fortuna dura poco, appena riemergo mi butto a destra e ricorro ancora alla retromarcia, ficcandomi di culo in un minuscolo parcheggio. C’è persino un posto. Jaffa Gate è a pochi passi, tutto sommato. Da pedone, passo ovviamente proprio per l’antica porta e non dal buco automobilistico praticato accanto. Dentro, a una parete rivedo il contenitore metallico, un po’ arrugginito, della mezuzah, la pergamena arrotolata da sinistra a destra che reca scritta a mano dagli scribi la doppia citazione della Torah “E iscriverai queste parole sopra gli stipiti della tua casa e sulle tue Porte”. Di chi saranno queste Porte arabe?
Appena varco questo mistero, all’angolo della prima a sinistra, una inequivocabile freccia invita a superare il Money Exchange ed entrare nella stradina: Jaffa Gate Pharmacy - open daily 9am-8pm. Con lo sguardo speranzoso e disilluso insieme alliscio lo spigolo opposto, più vicino a me, per sbirciare il prima possibile se le serrande sono alzate. Sono quegli attimi dove impari a conoscere il tuo punto di rottura. Non conta la banalità della circostanza. Capisci se sei un bimbo che vorrebbe la mamma a proteggerlo oppure un duro che non si arrende.
È aperta.
Entro, un dottore chiaramente palestinese parla un inglese universitario. Attendo pochi istanti la cliente prima di me, poi lui mi da le medicine, anche consigliandomi. Esco, in quattro minuti ritorno alla macchina, in altri tre arrivo all’hotel. Sette minuti in tutto. Il numero della perfezione. Forse l’internet ebreo è calibrato su un passo più veloce. Ne deve aver calcolati sei, il numero dell’imperfezione. È probabilmente per questo che non gli risultava la Jaffa Gate Pharmacy. Una farmacia araba. A due passi dall’albergo. Avevo girato tutta la mattina e rischiato una brutta avventura. Araba o ebrea?

Davanti all’albergo non c’è nessun tassista. Entro nello Shabbat elevator, l’ascensore dei giorni consacrati dove non devi premere i pulsanti: entri, sali all’ultimo, poi riscendi piano per piano, le porte scorrevoli si aprono e scendi. Non prima di aver dovuto spingere una porta. Contestai vivamente questo fatto. Se pigiare il bottone è lavoro, spingere una porta metallica non lo è? In tutti gli alberghi ci sono anche gli ascensori non shabbat; c’erano anche in quello, però arrivavano solo al 4° piano. Noi eravamo al 7°. Noi che ebrei non siamo. Lo è invece il rabbino che ci incontro dentro. Lo conosco già. Lo detesto. Con il tuo cappello nero e la tua barba imprecisa, non puoi permetterti di fare un pesante complimento a una donna davanti al suo uomo. E pensare di essere spiritoso. Non ti ho trovato spiritoso, rabbino. E ora te lo dimostro. Nonostante la febbre. Pure se sei di Praga. Pure se ci avevi invitato ad ascoltare i canti preliminari al banchetto della sera di Capodanno. Tanto lo so che se non ci fossi stato io saresti stato più contento, invece c’ero. E se non c’ero era lo stesso.
Perché uno, finché può, le donne se le sceglie.
Rabbino di Praga pieno di sé. Forse era già ubriaco, la sera prima. Gli arabi sono i più sfigati. Non solo si perdono anche loro la salsiccia di Monte San Biagio o genericamente il culatello, il jamon serrano o il pâté de tête de porc, ma nemmeno possono o potrebbero gioire d’un Brunello di Montalcino, di una stout irlandese o d’una šljivovica artigianale. Tutte cose, queste seconde, che il barbuto rabbino doveva conoscere adeguatamente ma che non giustificavano la sua tronfiezza e la sua volgarità. Scendi, idiota! E non in senso dostoijevskiano.

Scese.
Mi chiesi quante Gerusalemme avesse visto. Pensai: meno di me. Lui vide di certo la Gerusalemme vecchia e la nuova: ovvero l’antica città di impianto arabo circondata dalle mura e la nuova, ariosa estensione ebraica, due città invero poco comunicanti. Sicuramente sapeva e forse aveva cercato di comprendere anche quella virtuale, cioè quella realtà di sentimenti che è la Gerusalemme dei cristiani, trascurata dagli uffici del turismo israeliani ma prepotentemente viva. Emozionante: a noi aveva addirittura commosso. È probabile che il volgare rabbino di Praga non avesse affatto voluto considerare la città araba, nella cui parte più drammatica invece io mi ero spinto.

La città dell’unione è stata ridotta a città delle divisioni. È un luogo che divide, oggi, Gerusalemme. La basilica del Santo Sepolcro; anch’essa divisa. E nel nome e nel luogo della morte e resurrezione del Figlio dell’Uomo i fratelli cristiani litigano e si percuotono. Un emblema alieno. Icona delle tante Gerusalemme dentro una sola.

E ne mancava a tutti una. Un’altra. Non più visibile. Non araba, bensì degli arabi. Palestinese. Occultata. Lo capimmo smarrendo la strada per Gerico.

Improvvisamente ci si parò davanti. Zitto.
Ci annichilì con la sua assenza di sentimenti. Sporco.
Rimanemmo disorientati per il dolore di quel lungo muro. Grigio


[1] “Tre libri sono aperti davanti a D-o nel giorno di Rosh haShanà: uno per i giusti (Tzaddìkim) completi, uno per i malvagi (Reshaìm) completi e uno per quelli che stanno a metà strada, che non sono, cioè, né totalmente giusti, né totalmente malvagi (Benonìm). I giusti vengono iscritti immediatamente nel libro della vita, mentre i malvagi vengono iscritti immediatamente nel libro della morte. Per coloro, invece, che sono Benonim D-o attende a dare il giudizio fino al giorno di Yom Kippùr e se avranno fatto teshuvà (penitenza) nei giorni che vanno da Rosh haShanà a Yom Kippùr, allora verranno iscritti nel libro della vita; altrimenti verranno iscritti nel libro della morte” (https://www.nostreradici.it/Rosh-haShana.htm#teshuva#teshuva).