Ricordi di viaggi di un italiano nascosto

di Enrico Proietti



silenzi@live.it

Honolulu, HI

17.01.2014 13:46

Esisteva o no un misterioso disegno sulle pareti del gigante di fuoco Mauna Loa sull’isola di Hawaii, la più meridionale e orientale dell’omonimo arcipelago? O soltanto credevo di averlo scoperto io dall’aereo? Il mondo è pieno di strani disegni di popoli scomparsi: l’Inghilterra ne è piena (ma quanti sono autentici?); famosi anche quelli della valle di Nazca, in Perù, che sembrano affiancarsi a vere piste di atterraggio per velivoli. Ce n’è o no uno anche qua in mezzo al Pacifico?
Non riuscivo a discernere tra realtà e fantasia. Qui, in questa parte di mondo polinesiana ma americana, succedevano altre cose che stordivano la mia (talora scarsa) capacità raziocinante.

La sera del 17 gennaio 1991, Kalakaua Avenue, la main street di Waikiki Beach, risuonava delle marcette allegre delle bande scolastiche, al cui ritmo incedevano ballando centinaia di ragazzine vestite da “majorettes”. Ogni scuola con i propri colori e i propri abiti luminescenti di paillettes. Tra una scuola e l’altra, qualche banda di marines a riposo o altre con le immancabili cornamuse: e figurarsi l’effetto che potevano fare ai 30 gradi delle Hawaii, tra palme e ficus alti 40 metri. Sfilavano anche automobili scoperte da dove il sindaco o l’equivalente del provveditore agli studi benedicevano la folla fumando il sigaro. Passò anche, con un sottofondo sonoro magniloquente, la vettura di Miss Honolulu, sponsorizzata da un concessionario d’auto. La ragazza agitava le braccia salutando i supposti fans e rischiava l’artrosi per le posizioni innaturali che assumeva, tese a mettere in mostra il sedere e, più che le tette in se, la scollatura. Ogni tanto, come ricordandosi improvvisamente di un dovere, mandava baci cinematografici a destra e a manca, sponsored by Ross Norton Waikiki Car Service, Your Favourite Car Dealer!
O.K., cosa c’è di strano? Solo un piccolo particolare.
Quel pomeriggio, sulla spiaggia di Waikiki, questo finto sobborgo di Honolulu dove tanti mezzi grattacieli hanno soffocato una costa e un arenile probabilmente in un altro tempo fantastici e infinite ville e villette hanno deturpato orrendamente i fianchi verdi delle colline all’interno, dove la cosa più “naturale” che c’è è un golf club, su quella spiaggia, dunque, tra decine di giapponesi che l’abbronzatura aveva reso color merda e una coppia di danesi in luna di miele che giocava a racchettoni, su quella cavolo di spiaggia dove la plastica buttata in acqua si mischiava alle alghe morte, stavo ascoltando la musica dalla radio di uno accanto a me.
“Interrompiamo la programmazione per annunciare che circa mezz’ora fa le nostre truppe hanno iniziato l’attacco all’Iraq...”
No, non poteva essere, dovevo aver capito male: infatti, nessuno s’era mosso. Il proprietario della radio insisteva nel tentare di morire sotto il sole per prendere l’abbronzatura, i surfisti continuavano a lisciare le loro tavole vivaci, le varie donne con prole a ripetere i loro “Don’t” ai figli, i ragazzi a scherzare tra loro. La radio trasmetteva di nuovo musica. La palla dei danesi sbatteva avanti e indietro rilasciando schizzi di sabbia e salsedine. Così, rimasi almeno altri cinque minuti in relativa pace, finché lo speaker non ripeté l’annuncio. E no, avevo capito bene. La guerra era iniziata.
Quello che volevo fare era urlare, urlare a più non posso, far capire al mondo che io no!, io non consideravo inevitabile quella guerra, o per lo meno non più inevitabile di tante altre che erano state evitate. Io non volevo che dall’altra parte della Terra si rischiasse l’ecatombe.
Insomma, nel primo pomeriggio (ora del Pacifico centrale) di quel 17 gennaio 1991 era iniziata la guerra del Golfo, quella maledetta – da ogni lato – Desert Storm Operation che avrebbe scosso qualche coscienza e appagato chi, adulto, non vuole smettere di giocare con i soldatini.
Già la mattina seguente, i giornali nei distributori agli angoli delle strade avrebbero riportato dei primi aerei abbattuti. Chiamando casa, sarebbe arrivata la notizia che anche un Tornado italiano (anzi, sul primo momento sembrava due) era stato abbattuto e i piloti erano missing in action: geniale locuzione per dire “forse morti”.
Ebbene, in quella sera turbata da sensazioni che non si pensava più di dover provare, loro, gli Americani, non avevano nulla di meglio da fare che quella spensierata parata. Era questa l’idea della guerra che avevano? Una parata di paillettes?
Non riesco a descrivere lo stato d’animo di quella sera, di quei giorni. Per carità, avevo già vissuto il Vietnam, El Salvador, il Nicaragua, l’Irlanda del Nord, Grenada, l’Afghanistan, le Falklands - Malvinas, le varie guerre d’Israele, quella Iran-Iraq, ogni fottuta guerra in ogni parte del pianeta raccontata dai giornali. Ma erano altri. Da noi la guerra, dopo l’esperienza totale dell’Ultima, era ormai una situazione da libri di storia, nella quale non ci saremmo mai più trovati coinvolti. A casa mia si diceva proprio così, parlando della Seconda Mondiale: “L’Ultima Guerra”, e si avvertiva che non era ultima prima di un’altra successiva, ma proprio l’Ultima, dopo di che non ce ne sarebbe più stata una.
Invece adesso, mentre mi trovavo nel suo Stato federale nel quale il Paese più guerrafondaio del pianeta si era lasciato attirare (o era stato Churchill?) in quell’Ultimo Conflitto (non per loro) proprio qui, ebbene, dall’altra parte della Terra, in una guerra ideata da questo Paese, persino degli italiani uccidevano ed erano stati abbattutti; “forse morti”. Però qui quel Paese se ne fregava.
Potevo godermi le Hawaii?
Quando capitai in un ristorante italiano dove una bottiglia di Soave costava 28 dollari, conobbi Tony. Era un canadese che lavorava all’aeroporto di Vancouver, era di origine italiana e parlava un po’ la lingua. Della guerra se ne fregava anche lui o, per meglio dire, la considerava all’incirca come gli altri in giro: una cosa che accadeva dentro la TV, di cui interessarsi tra un boccone e l’altro, tra una telefonata e un lavoretto. Fuori di casa, senza televisore, business as usual. Mi consigliò di andare a Hanauma Bay, dove avrei potuto nuotare in un acquario.
Così era. E Tony aveva avuto ragione a darmi quel suggerimento. La natura contrastante di quel posto a poche miglia da Waikiki mi svuotò un po’ la testa dallo sconforto. Era un cratere vulcanico spento o quiescente dove, ora, si celebrava l’incontro tra il mare e la roccia, tra la vita dai mille colori nascosti nel blu e un’antica morte magmatica che prometteva di rinascere; ma bella anch’essa! Questa cintura di rocce effusive era crollata da un lato e il Pacifico l’aveva penetrata. In quei bassi fondali disegnati di spigoli taglienti e di scogli funerei, l’acqua poteva scaldarsi più del normale, come dentro un atollo: presso l’unica spiaggetta, contrapposta all’apertura sull’oceano, una popolazione numerosa di pesci multicolori si offriva su un fondale molto basso, talvolta quasi affiorante, alla contemplazione di chi avesse affittato l’occorrente per lo snorkeling in certi casotti di legno seminascosti dalla vegetazione. Lungo la discesa dalla strada all’arenile, sul fianco interno del cratere, era tutto un fiore di bouganvilles. Anch’io affittai pinne e maschera e sguazzai nell’acquario. Bravo Tony.
Ripresa la jeep, proseguii verso la punta meridionale dell’isola di Ohau. L’oceano era di un azzurro intenso e, ossequiante verso il proprio nome, ispirava pace. Già. Ma dall’altra parte della Terra figli di queste isole erano anch’essi missing in action. L’avevo letto su USA Today: C’erano anche le foto e le interviste ai familiari. Lo show-business, o per meglio dire il news-business, si era messo in moto all’istante.
Doppiata la Makapuu Point, la strada sovrastava Waimanalo Beach. Lo spettacolo era mozzafiato: la costa fiorita, la spiaggia, il mare, due isolotti a rompere la fuga turchese verso l’orizzonte aperto. Solo verso destra, quindi in direzione della punta appena superata, la corsa sopra il blu era interrotta dalla massa dell’isola di Molokai, distante meno di trenta miglia. Molto più dietro, dopo Maui, sapevo ribollire Hawaii con i suoi Mauna, il Kea, estinto, e il Loa, gonfio di magma, pronto a bruciare tutto e incendiare persino il mare; e i miei dubbi da risveglio.
Improvvisamente, l’emozione di scorgere, nitido e solenne, lo spruzzo di una balena. Vai, vai in pace, gigante buono! I sentimenti di quelle ore mi lasciavano preda delle parole retoriche.
Più oltre, la strada si scansa a poco a poco dalla costa, cominciando a salire. Ad un certo punto la 72 cede il passo alla 61, che punta trasversalmente verso l’interno dell’isola. Poco dopo il paese di Mauwawili, c’è una biforcazione, da dove la 83 prosegue verso nord riguadagnando la costa e la 61, piegando a sinistra, taglia la dorsale per rientrare a Honolulu. Arrivandoci, davanti mi ritrovai di colpo una collinetta, che con il pendio ricoperto di erba lussureggiante incombeva e costringeva al trivio. E lì, come su un enorme schermo gigante apparso per magia, a contrasto sul verde, una gigantesca scritta bianca fatta – credo – di sassi: “Peggy don’t go”.
Inchiodai.
A questo non ero pronto. La jeep sobbalzò, eccessivamente sollecitata dai freni. “Peggy don’t go”.
Qualcuno non la pensava con le paillettes e implorava ‘Peggy non andare’, che è come dire: Margherituccia, non andare. Non attraversare due oceani per fare la guerra, non rischiare di morire nel deserto, piccola Margherita.
Questo sì, che era un disegno misterioso ricamato su un pendio. Dovetti abbandonare le mie fantasie. Misterioso rispetto all’aspetto dominante delle cose che vedevo in giro: ma vero, reale, lì davanti a me all’improvviso.
Esisteva dunque una coscienza dentro quella strana America giapponesizzata, qualcuno pensava, qualcuno dissentiva, anche solo per umile paura personale dettata dall’amore per una persona cara. E faceva appello a questa, che pure era una militare, dunque usa a obbedire senza domande; proprio a lei s’appellava, ché disobbedisse e non andasse. Don’t go, piccola dolce Peg. Scegli l’amore e non la guerra.
Strano popolo ancora una volta, ‘sti americani. Mentre ripartivo, realizzai che molte cose negative sull’America le avevo apprese dai films americani.
Ma un conto è un film, per quanto “indipendente”, un altro è raccogliere dei sassi bianchi e scrivere sul fianco verde di una collina hawaiana “Peggy don’t go”.
Rientrai nell’assurdità di Waikiki, tra la pallosissima musica turistica delle chitarre hawaiane diffusa in ogni dove da invisibili altoparlanti. Lo straniamento culturale s’assommava allo straniamento dell’anima. La sera ci fu una piccola manifestazione pacifista. Più poliziotti che dimostranti. Ci partecipai, misi sù una maglietta con tante bandiere, il planisfero disegnato in azzurro e sotto la scritta: “peace, n., quiet, freedom from war.”
Dei ragazzi in mutande con la tavola da surf al braccio mi guardarono senza capire.