Ricordi di viaggi di un italiano nascosto

di Enrico Proietti



silenzi@live.it

Johannesburg

04.07.2014 23:10

Finora non ho mai perso un aereo. Ma ci sono andato vicino. A Gatwick mi salvò uno sciopero dei pompieri di Fiumicino, e gli altoparlanti lo rimarcavano, che la causa della partenza ritardata fosse italiana; a Papeete non fu colpa mia e comunque qualcosa, tipo un guasto dell’aereo, ci fece salire tra le maledizioni di chi era a bordo da ore.
A Johannesburg mi salvai da solo, appena in tempo, dopo che fino a un attimo prima che chiudessero il gate stavo facendo la fila a quello accanto. Stessa compagnia, dunque stessa sigla: e numero di volo anagrammato, ma con prima cifra uguale! Il tutto in un camerone confuso ingombro di viaggiatori vocianti e assembrati in un modo che da casuale si faceva più ordinato solo al di là di una muraglia di armadi biondi con la pelle eritematosa. Il sospetto mi venne osservando le attitudini dei rispettivi passeggeri in attesa dell’imbarco, mi tolsi finalmente le croste dagli occhi e con quattro balzi mi presentai al cancello giusto per Parigi, via Francoforte. Dentro al worm non c’era più neppure il minimo assembramento. Le hostess ebbero occhi materni, gli steward di rimprovero.
Una ragione per la mia disattenzione però c’era.
Avevo lasciato gli occhi su un tamburo formidabile. L’intenzione non era di suonarlo, essendovi negato, ma di usarlo come comodino. Come comodino. Allora? E non si può utilizzare da comodino un tamburo? Un bel tamburo con la pelle morbida ma ben tesa, il cuoio caldo, dai bei toni di colore e non troppi fronzoli fintamente tribali? Bè, comunque a vincere fu lo scrupolo di pagarlo un prezzo turistico, intuendo, anzi sapendo, che la paga di chi l’aveva costruito aveva i parametri africani. O cinesi, chissà. E poi la difficoltà d’imbarcarlo, avendo già passato il check-in. Che avrei dovuto fare, uscire di nuovo (e come?), ripresentarmi al banco? Magari avrei dovuto anche pagare un extra. OK, niente tamburo. Per il comodino ho comunque risolto.
Tuttavia non era questa la ragione che aveva causato la disattenzione. Diciamo che ne era stato l’antefatto.

Lo Johannesburg International Airport, sigla JNB, sta nella città di Kempton Park ma non ne porta il nome. Quella volta lì, non aveva nemmeno ancora preso il nome di Oliver Tambo, dopo che il governo aveva deciso di non intitolare gli aeroporti a politici e prima che cambiasse idea. Forse tutto è servito a togliere i nomi degli esponenti del regime razzista e sostituirli, dopo un debito lasso di tempo che non urtasse troppe sensibilità residue, con quelli dell’ANC, di cui Tambo fu presidente dall’esilio di Lusaka. Così ora il suo nome è dato all’aeroporto che fino al 1994 recava quello di Jan Smuts, antico primo ministro, un tipo davvero strano e ambivalente: eroe per i coloni olandesi nella guerra anglo-boera e per gli inglesi nella prima mondiale, estensore dello statuto della Società delle Nazioni nonché fautore della nascita dell’ONU e teorico della segregazione razziale. Non tutti riuscirebbero. Forse qualche politico del nostro Paese.
Questo aeroporto che in quel momento non aveva un nome, dopo la fine dell’apartheid ha notevolmente intensificato il movimento viaggiatori e si è dato molto da fare per apparire moderno, democratico, paritario. Così, quella sera già pullulava di esercizi commerciali di ogni tipo e, a pochi metri dal negozio di prodotti tradizionali dove i miei occhi restavano incollati al tamburo, c’era un bel pub british-style.
Se dico che era una specie di chiosco in mezzo a un crocevia di corridoi suona assai riduttivo. Diciamo che si collocava all’interno di uno snodo tra ampi corridoi, in una posizione strategica. E in realtà aveva dimensioni abbastanza grandi e serviva una discreta varietà di birre così come piatti da mangiare che si sceglievano, ahi ahi, da una carta delle ordinazioni tipo fast-food dove ad ognuno corrispondeva un codice numerico. Indice di serialità, difficilmente conciliabile con la qualità. Efficiente, ma snaturato. Nonostante ciò, la discendenza dalle public houses era netta, evidente. I legni scuri abbondavano e sul bancone la corona di spine era tutt’altro che da calvario. Un giovane inserviente dai capelli ordinatamente un po’ lunghi s’aggirava nel mezzo. Biondo d’ordinanza, riceveva le ordinazioni con lo sguardo attento ma sempre, sempre, basso. Un altro tipo, lugubre e pallido, con occhiali dalla montatura un po’ antica, scura, sembrava essere lì più per altri motivi professionali che non per mandare avanti la baracca.
La rinuncia al tamburo mi aveva lasciato, stava proprio per essere il caso di dirlo, l’amaro in bocca e nell’incrociare quell’incrocio di culture birraie lo sguardo incrociò le leve che, abbassandosi, facevano salire i liquidi biondi o ambrati o neri per lasciarli scendere in contenitori vitrei dalle forme diverse, ciascuna adatta al tipo e alla marca. I liquidi luppolati montavano schiumosi con maggiore o minore veemenza dentro detti contenitori i quali, innalzati da braccia perfino eccessivamente vigorose, cadevano poi dentro bocche, gole, esofagi e stomachi avvezzi al loro passaggio. Di fronte a tanta metafora antirazzista, immediatamente si formò nelle mie bocca e gola e nei miei esofago e stomaco il desiderio di cancellare la delusione irrorando le loro mucose, o cosa l’anatomia dica siano, di un fermentato di malto d’orzo.
Nell’immaginare un sapore nella propria bocca, i più lo collocheranno in zona palato. L’accostamento sapore-palato è automatico. Io no. Io, almeno per i liquidi alcolici, lo colloco sopra i denti, nella metà alta del cosiddetto vestibolo, quella profonda cavità a ferro di cavallo compresa tra la superficie mediale delle guance e quella posteriore del labbro superiore, da una parte, e il versante esterno dell’arcata gengivo-dentaria superiore, dall’altra. Lì. Perché, non posso? Vampire inside.
OK, potevo spiegarlo in termini più banali, ma ero reduce dall’aver assistito a dissertazioni odontoiatriche. Provenivo da posti dove un ascesso a un dente può farti perdere un occhio e mantenere la dentatura intatta oltre i sedici anni è un grosso successo: dunque mi sentivo molto immedesimato nell’aspetto medico, e nel suo vocabolario. Tornando a quella sera, avevo infatti rinunciato al tamburo anche per il leggero soffiare della coscienza. Ma una birretta…! Per una birra al volo avevo ancora tempo. Eh! Farla scendere in gola improvvisa e abbondante, quasi ad anestetizzarla, sentirla gorgogliare giù per l’esofago, superare di slancio il cardias ed entrare nello stomaco, costeggiarne le pareti, rotolare sul fondo alzando un’onda che si rifrange su se stessa. Dopo la precisione otoiatrica, mi invento sensazioni gastriche? Io non lo credo, ma se pure fosse?
Cosa prendere, una lager non troppo secca ma ancora dissetante, una ale meno fredda e più pervasiva o magari la mia preferita, una stout pastosa e appagante? Questo, tanto per restare a macro-distinzioni. Prima di avventurarsi a pregustare specialità particolari, bisognava vedere cos’avessero. Certamente, in quell’aria International dell’aeroporto senza nome, non avrei trovato la Umqombothi zulu di sorgo e mais, ma ero curioso di vedere se l’offerta fosse più di tipo anglosassone o di tipo germanico. In realtà era proprio genericamente International, quindi le mie macrocategorie non erano poi così sbagliate.
E dunque, cosa presi?
Non ha importanza.
Ma come, dirà la mia unica lettrice, dopo tutta queste noiose dissertazioni, non ha importanza quel che prendesti?
No, non l’ha, perché del tutto ininfluente. Non lo rammento neppure. Quel che invece ho ben presente in mente sono le fughe che rilucevano sopra il lavandino, riflettendo le luci diffuse e le ombre passeggere di quella parte di terminal, e quelle pastose e ruffiane del pub.
Bicchieri appesi a testa in giù a rastrelliere in tondini cromati, bicchieri del tipo adatto a ognuna delle birre spillate, ognuno di forma diversa e recante il marchio del prodotto cui si abbinava. Gambi corti e gambi lunghi, niente gambi, manici o senza manici, da pinta e da mezza pinta, tante forme atte a far risaltare l’aroma di ciascuna. Fra tutti, uno. Lo notai con l’emozione uguale a quando incroci due pupille parlanti. Era bellissimo, la scritta CASTLE in diagonale compresa tra due doppie righe, di cui una bianca e l’altra, sempre la più interna, dorata, con quella inferiore che si interrompeva al centro per ospitare la dicitura “lager”. A entrambe le due righe superiori, invece, si sovrapponeva lo stemma col castello, non rosso come di solito bensì bianco su sfondo dorato (“d’oro al castello di bianco, merlato” credo si direbbe in araldica). Le scritte bianche ombrate di nero. Un bicchiere da pinta tronco-conico. Un bel pezzo.
Mi ero appena ripreso un po’ da quell’emozione, che ebbi un secondo tuffo. Come se da due perle nocciola fossi passato a due specchi verde-azzurri. Empíto di tutti.
Non so nemmeno descriverlo, un calice col gambo slanciato eppure possente sopra un piede ben proporzionato né troppo largo né troppo stretto, il logo fantastico incorniciato da eleganti ghirigori che davano all’insieme fattezze nobili. E infatti era coronato da un perfetto cerchio dorato che avvolgeva l’orlo, a impreziosirne la bocca. E a invogliarne altre a baciarla, regina dichiarata.
Li volli.
Si dà il caso, in effetti, che collezioni bicchieri da birra. Oh, una piccola raccolta, e nessuno rubato. Una regola che m’imposi da subito, per non cadere nel gorgo della tentazione. Certo, rimane. La tentazione, dico. Resta. Anche lì, all’aeroporto di Jo’burg. “Me lo frego”. Lo pensai. E però li volevo entrambi.

– Due sono troppi. E poi non ho comprato il tamburo anche per scrupoli etici, adesso non posso mica rubarmi due bicchieri da birra; due splendidi, meravigliosi, neanche troppo ingombranti - nel bagaglio a mano entrano! Li riempio uno con la maglia di ricambio, l’altro con gli slip e cosa? Ah, sì i calzini pesanti per l’aereo! - due imperdibili, bellissimi bicchieri da birra. No, non li rubo. Oddio, il biondino è troppo intento a rimettersi i capelli dietro l’orecchio per accorgersene - ecco, di nuovo, e quando lo fa si guarda ancora di più i piedi. Basterebbe un attimo. Controllo facilmente il movimento alle mie spalle. Ma, insomma, no.
Mi si avvicina, come alla chetichella. Cheto le voci delinquenziali e gli chiedo se, che so, sia magari possibile comprare un bicchiere. Forse la mia pessima pronuncia è distantissima da quella boera oppure l’hanno distratto le sue estremità, fatto è che non capisce. La seconda volta, quando capisce, fa una faccia che nemmeno le dita dei suoi piedi intrecciate! Mi scoraggio un po’, ma non demordo e sottolineo la mia intenzione di pagare. Non vorrei avesse capito che lo voglio in regalo. Ma forse non è sintonizzato su “capire”. Mi mitraglia una frase che non comprendo, dunque non rispondo. Anziché incattivirsi, si sente in difetto. Stavolta capisco che mi dice che se ne sta andando. Faccio una faccia da cocker affacciato al finestrino, lasciando intuire che prenderò l’otite… Per la prima volta solleva gli occhi abbastanza perché possa notarne il verde slavato, tendente al giallo melma.
Just wait!”, mi intima e si allontana. Per darmi fiducia, rimiro i vetri onusti di gloria birraia.
Seguo con lo sguardo il biondino sbiadito e lo vedo che confabula col luguberrimo. Il primo indica con lo sguardo una linea sul pavimento che il funereo segue arrivando a me. Sculetta un po’ in giro per la sala, poi mi guarda di sottecchi. Finalmente si decide e viene.
Hi, I’m Name Surname. I’m the restaurant manager. How can I help you?”
Io sorvolo sulla sua richiesta di come potessi aiutarmi e rimango frastornato dal suo essersi definito gestore del ristorante. Non è un ristorante, è un pub! C’è una differenza, c’è! Poi mi ripunto sull’obiettivo, e gli dico che vorrei comprare i bicchieri. Dalla reazione, è chiaro che Sua Slavità non s’era spiegato.
I would buy the glasses.
What glasses?
Li indico. Poi aggiungo che anche uno solo mi basta. Non è vero, però lo vedo troppo spaventato. Lugubre già è, figurarsi lugubre spaventato!
Nell’articolata risposta, le parole “not” e “possible”, sì, ci stanno.
Come spesso fanno le persone che non accettano il dialogo per paura, finge di dover fare mille cose oltre a sculettare avanti e indietro tra i tavoli come un prete stizzoso tra i banchi, cominciando a staccarsi dal bancone e volgendo altrove lo sguardo.
Why not possible?”, chiedo cercando di evitare la polemica. L’ho visto fare agli statunitensi, questo chiedersi retoricamente la ragione di una cosa che la loro personale Costituzione non contempla. “I pay for that”, aggiungo con tono di chi è stato lui a non spiegarsi.
Morticio attacca una lunga disquisizione nel suo inglese che non è il mio, costrettovi dal mio aver invocato la mia Costituzione e alluso alla sua, di commerciante.
Non capisco granché, se non che si mette male. Last chance: il pianto.
Well, you know, I wish them ‘cause me, I collect beer glasses.
You, you collect?
Beer glasses, ya.
Si ravviva. Poco, ma si ravviva. Mi fa segno di aspettare e si allontana. E’ il secondo. Scompare, senza più nemmeno sculettare. Gli ho chiesto di confessarmi, forse l’ho già fatto?

(“Lufthansa, flight LH7342 to Frankfurt boarding now!”)

Ma lui torna. Il viso non è però illuminato.
And so…?” azzardo.
Ratto come un gatto che sgattaiola da un’aiola per catturare un ratto, s’acquatta sotto il sediolo e raccatta un’orribile carta plastificata. Fa’ per parlarmi, poi di scatto si divincola dall’approccio e riparte, come se dovesse controllare un’ultima cosa.
Si ripresenta dopo poco, sempre col menu a prova di schizzi e riattacca un’altra tiritera. Anche stavolta, decifrare la sua lingua forse morta non è facile. Gli faccio ripetere alcune parole più volte, le ripeto io per esserne sicuro, indico “questa” sulla carta delle ordinazioni.
Anyway, I pay”, concludo io la sua dissertazione.
Yes, but…”, e riparte a mostrarmi le portate – non capisco perché – indicando specialmente un’insalata. Parla uniforme, guardandomi da sopra gli occhiali antichi che ha un po’ calato sul naso. Percepisco che sta ripetendomi cose già dette, in attesa della mia comprensione. Che stenta ad arrivare. Dico una frase un po’ a caso.
I just had a beer, I don’t ask any dinner
Qui si stranisce un po’.
Ma riacquista pazienza e mi spiega, finalmente in un inglese aperto, che avrebbe trovato il modo di vendermi i bicchieri, soltanto che è un metodo ellittico, cosa di cui è mortificato, e dunque chiede, anzi ormai implora, la mia approvazione.
‘Sta cosa è vagamente italiana, i canali di ricezione del messaggio si aprono. Anche i suoi occhiali appaiono ora alla moda.
OK, no problem”, dico sorridendo. “What do I have to do?
Da scocciato si fa costernato.
Niente, devo fare, solo essere così gentile da accettare questa sua proposta ai limiti dell’illegale.
Because we need to issue a receipt for each payment” ma nel computer della cassa non è prevista la voce “beer glasses”. Così lui ha pensato che potrebbe far finta di avermi venduta quella famosa insalata che indicava, la cosa più congrua come prezzo per i due bicchieri fra quelle presenti sulla carta. Però è imbarazzatissimo dall’aver escogitato questo sotterfugio – dovrà andare a confessarsi almeno dal vescovo – e spera nella mia benevolenza. Interessata, d’altro canto.
Prima che continui e si inginocchi, gli allungo l’equivalente di 19 dollari (cara, l’insalata, e cari i bicchieri, ma chissenimporta) e gli urlo: “It’s OK, thank you!”.
E’ combattuto tra il condannare tanta mia esultanza e il gioire per aver esaudito la richiesta mia. Di peccatore, ma collezionista! –

E così, i bicchieri erano miei! Dentro a uno misi il complicatissimo e obbligatorio scontrino e, avvolti in carta assorbente, li ficcai nella borsa che portavo quale bagaglio a mano, poi mi avviai nel corridoio che conduceva al gate. Che ora fosse, non sapevo. Sentivo la birra tra i denti e un po’ anche dentro i canini (ero forse io la causa dell’aspetto mortifero del manager?), tutto il parodonto godeva del piacere presente e di quelli futuri che sarebbero stati apportati tramite i miei nuovi acquisti.
Improvvisamente mi assalì una stanchezza improvvisa. Il tamburo con la pelle ben tesa, rinunciarvi o no; e quindi tutta la storia dei bicchieri e delle carte plastificate, il biondo smorto e il moro semimorto. Forse m’era insorto un problema a carico degli elettroliti nel corpo, magari un basso livello di potassio o di sodio; oppure un qualche problema metabolico che questa birra senza pasto poteva aver evidenziato. O no, era semplicemente una caduta di tensione dopo uno stress emotivo.

(“Lufthansa, flight LH7342 to Frankfurt. Last call. Passengers are requested to go to the gate for immediately boarding.”)

Così, stancamente, appunto, attraversai lo Johannesburg International Airport, sigla JNB, che sta nella città di Kempton Park ma non ne porta il nome, né ancora aveva preso quello di Oliver Tambo né recava già più quello di Jan Smuts, e mi affacciai dall’alto sul grande camerone ingombro di eritematosi. Mentre mi accinsi a scendere le scale, un nuovo annuncio.
Lufthansa, flight LH7342 to Frankfurt. Please go to the gate for immediately boarding.”. Guardai i tabelloni preoccupato, il visus annebbiato come per ipoglicemia. Vidi il primo gate a destra che recava la scritta del mio volo, LH7432 e mi misi in fila, senza che la miastenia avanzante mi facesse ragionare sul perché ci fosse tanta gente in fila, né leggere la destinazione.
Poi mi salvai.

In cabina, mi sedetti sulla poltroncina in pelle e… Dopo un po’ fracassai il calice della Amstel e col vetro rotto, minacciando prima la hostess e poi il comandante, dirottai l’aereo su Bazaruto, obbligandolo a un ammaraggio nella laguna durante la bassa marea, quando si tinge di smeraldo e topazio. Era la stessa laguna dove una volta, a diverse miglia dalla costa ed altrettante da Benguerra, sono sceso a spingere la barca… Mi svegliai che sorvolavamo la Costa Azzurra.