Ricordi di viaggi di un italiano nascosto

di Enrico Proietti



silenzi@live.it

Little Ferry, NJ

30.11.2013 19:12

Concimano quei prati verdi a spanne di chimica e l’erba compatta rivela splendori di tonalità sintetiche. Steccati gentili alla vista e duri al tatto si chiudono, cloisonnés di smeraldi artificiali, oasi o fortini: a scelta. Stradine linde e ovattate serpeggiano in mezzo. Piccole, o grandi, esperienze di vita si richiudono insieme ai sorrisi che accompagnano i cancelli, non appena serrati.
Una bambina sui dieci anni corre su un prato di quelli, eletto orizzonte di gioco. Appare senza pensieri, come l’età illude. Si dimena, ride: fa il cucciolo nella tana. Fuori, oltre la recinzione, sono lasciati gli altri.
Perché è dolore ogni entrare. Dentro piccole storie di esistenza, grandi negli attimi eterni in cui arricchiscono di vita i sentimenti di chi dovesse per una volta vivere dall’interno l’irrigidirsi subitaneo delle labbra all’unisono col clack dei battenti…

La signora Iolanda fu dolcemente perentoria: all’indomani, l’invito a cena era un obbligo da cui non si poteva scappare. “Venite, che vi preparo uno pranzo bello, u know. Facciammo – come si dice? – barbecchiù, come si dice? Eh, dovete venire, stiamo insieme, voi, noi due e ‘a ragazzina, u know, ‘a figlia de Micheal.” Restammo d’accordo che ci saremmo sentiti la mattina, per accordarci sui dettagli.
Così, verso le dieci, con già tutta la giornata programmata, le telefonammo. Non io, che udii la conversazione da una parte sola, quindi.
“...alle cinque...”
Gulp! Lasciai cadere tutto quello che stavo facendo e balzai verso l’apparecchio telefonico: “Noo, più tardi, più tardi!”
Sapevo che negli States mangiano presto: a Orlando, dentro Epcot Center, c’è la ricostruzione disneyana di un pezzo d’Italia, con tanto di bravo ristorante San Marco. Una volta, alle 9 di sera, un cameriere – italianissimo, parlava con accento lombardo, ma dipendente del parco – non fece entrare perché stavano chiudendo; e a nulla valsero le mie osservazioni che, se il ristorante, come tutto il contesto, voleva riprodurre l’Italia, allora, pur servendo cibi plastificati alla Disney, avrebbero dovuto osservare abitudini e orari italiani. Lo sapevo, dunque, ma pensavo che le 7:00 p.m. fossero già un compromesso a loro totale favore. In fondo, anch’io ho preso abitudini poco italiche; mangio poco a mezzogiorno, dunque la sera mi viene fame presto. Ma alle cinque, no.
“...O.K., allora alle cinque e mezza...”
“No, alle sette, alle sette!”
Niente da fare, la signora Iolanda era tanto brava – veramente – ma, sebbene fosse italiana nata in Italia e sposata con un italiano nato in Italia, avendo i figli americani doveva essere ed era, ormai, più americana degli americani. Invito a cena strappato alle cinque e trenta: caspita!
Gli aspetti del problema erano due: primo, fare tutto quello che c’era da fare a Manhattan in tempo per essere a casa della signora Iolanda per le cinque e trenta; secondo, farsi venire fame a quell’ora da thè. Ragionando, questo secondo lato era meno preoccupante e rientrava, come detto, abbastanza nelle mie abitudini: si trattava di forzarle un po’. Avendo consumato una buona prima colazione, si poteva resistere con un panino; in fin dei conti loro, gli americani, fanno così. E poi, era evidente, l’invito alle cinque e trenta era stato fatto per dare tempo di scambiare due chiacchiere, visitare la casa, bere un aperitivo: le solite cose.
Il panino, a Manhattan, non avevo ancora trovato il tempo di spararmelo in vena. Ci eravamo dati appuntamento in albergo, che stava già a Secaucus, cioè dall’altra parte del budello del Lincoln Tunnel, oltre l’Hudson, nel New Jersey. Da lì, con la macchina, Little Ferry distava pochi minuti.
Feci tardi, ovviamente. Per fortuna non ero lontano dal Port Authority Bus Terminal, sull’8th avenue, tra 40th e 42nd street, da dove partiva l’autobus da prendere.
Mi misi a correre, ma all’angolo del Bryant Park, davanti l’uscita della metro, c’era il carretto degli hot dogs: era già pomeriggio, la fame non tiene conto né della fretta né dei programmi né, tantomeno, degli appuntamenti o degli autobus che partono. Ancora correndo, raccattai gli spicci in tasca e stavo per chiedere lo hot dog, quando decisi, con una botta di genio, di prendere qualcosa che mi avrebbe impedito di perdere tempo tra le solite richieste, se volevo senape, ketch up or what else. Chiesi un frankfurter che, con buona pace della città assiana, era veramente schifoso.
Sarà che lo buttai giù in fretta camminando velocemente, ma mi rimase sullo stomaco, senza muoversi. Forse agghiacciato, anche lui, dalla vista del P.A.B.T., l’enorme palazzone-capolinea dove gli autobus salgono ai vari piani. A seconda di quale bus devi prendere, devi salire a un certo piano; per ogni piano partiranno una decina di linee. Ogni cosa si svolge al coperto. Un ventre degli States, una viscera efficente ma dura: dura come le sue porte. Dentro questo mastodonte, dove le proporzioni sono inusuali, tutto è pensato in grande; rampe e scale mobili giocano a intersecarsi, in spregio all’estetica ma in perfetto servigio alla funzionalità; ci sono negozi, bar (qualcosa di simile), chioschi di fiorai, riparatori di scarpe, venditori di hot dogs e di cookies; c’è persino uno che, mentre aspetti che il bus parta, ti ricama il nome o quello che vuoi sul tuo berretto yankee. Tutto è enorme: tutto, tranne le porte che dalle sale d’attesa portano ai marciapiedi dove gli autobus si accostano sbuffando veleno. Sono piccole e pesantissime. Ho visto la tipica donna americana, bianca o nera che fosse, ma cicciona, combattere un corpo a corpo con la porta per riuscire ad aprirla: ché ha pure la molla – durissima – per la richiusura automatica, ed era una lotta strenua, in quanto nemmeno si apre a spingere, ma a tirare; e poi per passare, con le chiappone, le borse, i pacchi e i pacchetti. E nessuno che la aiutasse. La lasciavano lì – pazienti sulla pelle ma irritati negli organi – in attesa che terminasse la sua quotidiana angoscia personale. Scena emblematica.
Insomma, arrivai all’albergo in tempo, riuscii a farmi anche una parvenza di doccia, e via, verso i verdi giardini dei suburbs! Perché Little Ferry, NJ, è un vero, autentico, suburb. Uno dei famigerati suburbs, essenza profonda dell’America di fine millennio. Dove una signora Iolanda, italiana nata in Italia e sposata con un italiano nato in Italia, ti invitava a casa per cena alle cinque e mezza...
...alle cinque e trentacinque, pronto in tavola!
Il marito, Michele, ma ormai Micheal, manco a dirlo aveva una camicia floreale sbottonata e il cap in testa, i bermuda, i calzini bianchi! e le scarpe di tela. Però, apparendo sornione dietro gli occhiali fumés antiestetici ma pratici, risultava simpatico pure lui. Nulla salvò la compagnia dalla gongolante soddisfazione con la quale mostrò il nuovo barbecue. Non si pensi a un accrocco, pur grande, ma mobile, atto a essere portato in campagna la domenica. No: si trattava di un sistema saldamente ancorato a una base di cemento affogata nel terreno, alla quale tramite condotti sotterranei affluiva il gas che andava ad alimentare le fiammelle ad accensione elettronica, poste immediatamente sotto il braciere vero e proprio, dove un po’ di carbonella bistrattata non serviva, a quel punto, che a diffondere l’odore-barbecue tipico dei giardini dei suburbs.
Fu in quell’occasione, peraltro, che scoprii una cosa che magari avrei dovuto scoprire prima. Quelle belle casettine di legno, tutte allineate al centro dei loro giardinetti, che abbiamo visto in tantissimi films di Hollywood, dove vivono o famigliole felici o truculenti psicopatici (anzi, tutti e due; se no, con chi si divertono gli psicopatici?); ecco, quelle casettine con la porticina per il gatto e, talvolta, con le stars & stripes piantate nel giardino, ebbene, non sono di legno! Sono in alluminio, sagomato da sembrare legno. Durano assai più a lungo e si salvano molti alberi: ma addio poesia.
Dunque, alle cinque e trentacinque post meridiem la signora Iolanda ci servì, ancora tra le patatine e altre impacchettate gentilezze hors-d’-œuvre variés, belle lasagnone tratte dalla scatola “Italian food specialities: today Lasagnie” (proprio così, con la i). In verità erano anche mangiabili, perché ci aveva aggiunto, in un sussulto di amor proprio italico-cuciniero dettato dalla italianità dei suoi ospiti, un ragou (all’americana: né ragù né ragout) che non era malaccio; comprato anch’esso all’ipermercato.
Intanto Michele-Micheal si scatenava sul B-B-Q. Generò la bisteccona che ti aspetti in America: eccezionale, in Europa non abbiamo proprio idea, con buona pace della fiorentina. Riesce sempre a scatenare appetiti atavici: la si mangia con soddisfazione, rigorosamente – se i commensali lo permettono (se non lo permettono sono infami) – con le mani, lasciando scorrere rigagnoli di succo e olio cotto ai lati della bocca, facendo tornare ad antiche attitudini canini e incisivi, esercitandoli a mordere, strappare, rosicchiare l’osso.
Prima di far figuracce, espressi questi concetti, nel convincimento che sarebbe seguito un generale impugnare le bistecche per l’osso. Eravamo in giardino, su tavoli di plastica coperti di plastica, senza tovaglia (che c’è raramente in America: lo apprezzo), con piatti e bicchieri di plastica, tovaglioli di carta, con vestiti non casual, bensì appositamente studiati per offendere il buon gusto. Nothing. La padrona di casa annuì leggermente svagata, ma proseguì con coltello e forchetta.
Apprezzo molto la forma e la compostezza, e se insistetti tanto sul fatto di mangiare quelle bistecche con le mani era per un coacervo di motivi, tra cui la voglia di rompere uno schema rigido che mi costringeva a cenare alle cinque e trentacinque; forse il riaffiorare, lontano da casa e dagli ambienti noti, di uno spirito fanciullesco che veniva aiutato dagli usi diversi; e, effettivamente, il desiderio primitivo di gustare selvaggiamente quel magnifico pezzo di carne.
Mi rivolsi verso Michele-Micheal, cercando complicità negli spicci modi dei maschi americani, che hanno aperto passaggi a nord-ovest, hanno attraversato deserti, hanno incallito il sedere cavalcando selle per giorni e giorni.
Ebbi l’impressione che stesse con la testa in qualche torrente a pescare. Gli avevo agganciato contro uno sguardo di colla, per esortarlo a scoprirsi. Farfugliò qualcosa, con la sua voce pacata e lenta. Era nato a Roma, ma come la moglie parlava l’italiano di America, che ha sempre l’accento napoletano.
Uscii allo scoperto: “Eh, queste bistecche andrebbero mangiate con le mani...”
“Co’ ‘e mmane? Mia moglie cosa dicere?” replicò pilatescamente a bassa voce, masticando con determinazione e fingendo un sorrisino. Ma non aveva intenzione di coinvolgere la moglie, quel “dicere” va tradotto con “direbbe”.
Ormai m’ero lanciato: “Non vi capita mai di farlo? Eh, magari quando siete con i nipotini, tutti a prendere dal barbecue con le mani...”
Lo dissi guardando entrambi i coniugi. La signora Iolanda stava per rispondere quando lui le fece un gesto impercettibile e, dopo un tempo interminabile (circa un secondo e mezzo) fece piombare sulla scena un sonoro, profondo, definitivo: “No!”
Era impressionante questo no. La voce era cambiata, da torbida e tenue era divenuta baritonale e potente, e però sembrava venire come da molto indietro. Più avanti nella conversazione, ebbi modo di ascoltare altri ‘no’ di Michele-Micheal. Era sempre lo stesso schema che si ripeteva. Non interveniva quasi mai nella discussione, anche se interrogato se la cavava con monosillabi e quando te l’eri ormai dimenticato, ecco che su un argomento focale bruciava sul tempo la moglie, facendo giungere quel suo ‘no’ possente ma non urlato, perentorio seppure non arrogante.
Bene: la bistecca, con coltello e forchetta. Tagliai anche il piatto di plastica, ovviamente.
Intanto, Michele-Micheal s’era riapprossimato al monumento a gas e ben presto giunse altro odore di roba carnosa che lasciava cadere grasso sciolto sugli sterili discendenti dei carboni di fuochi all’addiaccio nelle grandi praterie dell’Ovest. Alla fine, il nostro si girò con un carico di cosce di super-tacchino. Erano gigantesche, mai visto niente di simile.
Chiesi: “Cosa sono?”
“Gallina.” rispose la signora Iolanda.
“Gallina? Così grande? Ma... forse, tacchino?”
“Gallina. Chicken, u know.”
“Ah! Ma allora... Da dove viene? È una gallina particolare, di una zona specifica?”
“Comme?”
“No, dico: è una qualità speciale di gallina? Così grande!”
“No speciale: gallina, u know. Chicken.”
“Pensavo fosse una razza particolare, è tanto grande...”
“No.”, tonitruò Michele-Micheal; punto, e il discorso fu chiuso.
Un aspetto che sto tralasciando è quello delle bevande. Avevamo portato del vino – italiano, ma acquistato due miglia prima. Fu esaminato con cura, poi: “Lo beviamo”, sentenziò il capo del B-B-Q. A tavola, scoprimmo che loro due il vino, chi per astemia chi perché reduce da svariati by-pass, non lo prendevano: così fummo noi ospiti a scolarcelo, e loro ci chiedevano: “Comm’è? È buono?”. Però, manco a dirlo, insistevano perché bevessimo la birra.
“Micheal, vai e piglia ‘a birra.”
“Uh!”
Micheal, they wanna have beer, u know... Va’ a piglia’ ‘a birra!”
Andò. Tornò con la birra. In lattina.
Io ritengo che la birra in lattina sia da distruggere. Prende d’alluminio. Assume un sapore sintetico. Si esacerba e viene fuori contratta, spigolosa, abbacinata. Gli americani bevono birre schifose, va detto. E il berle, spesso, in lattina accentua la loro schifosità. Forse solo alcune birre italiane e molte spagnole sono peggiori (il Sud America è colonia statunitense anche nella birra). Ormai stritolato dalla italo-americanità, soccombetti. Raggiungendo lo stomaco, il surrogato della birra penetrò nei resti del frankfurter di Bryant Park e li espanse mostruosamente, provocando un blocco terribile che, in breve, sembrò andare dalla gola al colon.
Ero in pieno panico. Proprio in quel momento erano arrivate due bacinelle d’insalata. Una stava per essere posta davanti a me. Posi con gentilezza la mano davanti per fermare e poi la volsi come a dire “No grazie, io non ne prendo, inizi pure a servirla da qui accanto.”
“Questa è tua”, precisò la signora Iolanda.
Dio mio!
Fui fortunato con la frutta, che peraltro stimai di dimensioni e quantità uguali come da noi. Riuscii a non toccarne. A quel punto, avrei gradito non il caffè, che infatti fui capace di evitare, essendo peraltro diversi il concetto e l’uso del caffé, laggiù, ma un bel bicchierino di amaro digestivo. Non osavo però chiederne.
Ma il discorso fu introdotto dai nostri anfitrioni. Mi resi pronto ad accettare senza apparire sfacciato (standard educazionale), quando la signora Iolanda andò a terminare il discorso: “...però no, Mike, hanno già bevuto ‘o vino, e poi so’ stanche, u know, domani si devono alzare presto...”
Questo, alle 07:55 p.m., ora dell’Atlantico. (Quella sera, poi, andammo al China...!)

Ma il dramma deflagrò nel dopo cena. E, in effetti, fu dramma vero: o almeno, ne discesero le ultime pieghe del sipario nero che si era chiuso alcuni anni prima. Questa immagine così pesante e retorica si attaglia bene, purtroppo, a quanto era avvenuto in quella famiglia. Lo sapevo già, ne ero stato informato per evitare parole fuori posto.
Avevano perduto un figlio. Si chiamava Micheal, quasi come il padre. Aveva a sua volta una figlia piccola; il tumore non gli aveva dato tempo di vederla crescere.
Fatto sta che, nella conversazione distaccata che seguì l’abbuffata, a un certo punto mi ritrovai in piedi, allontanato dal resto della combriccola. La signora Iolanda, unica, mi stava accanto. Come a voler entrare un po’ in confidenza, mi chiese: “Quanti anni tu hai?”. Lo dissi. E capii all’istante di aver fatto una cazzata.
“Come Micheal!”
Gli occhi affaticati da troppo lavoro e troppo pianto trattenuto, dietro le lenti degli occhiali, sfavillavano. ‘Nu guaglione comme a Maikel suio. Capiva che non ero Micheal, certo, ma percepiva anche che un’occasione così non le sarebbe capitata più per chissà quanto tempo; forse mai. Giocare il gioco tragico della simulazione. Era game, in quanto pervaso di grottesco senso di divertimento, ed era play, perché davvero prevedeva regole, ruoli, copioni e scene.
Si girò a circuire lo sguardo del marito. Quando l’ebbe conquistato, gli annunciò: “Tiene gli stessi anni che Micheal.”
Michele-Micheal operò un limitato rinsaccare del collo, lestissimo, quasi come un tic, e parve soprassedere, troppo impegnato dalla calma della sera, epigona della monotonia perenne delle sue giornate. Eppure, gli angoli della bocca si torsero verso il basso.
Non divenni Micheal, no, ma fui costretto a giocare recitando il suo ruolo silente, facilmente potendo immedesimarmici grazie alla comunanza anagrafica.
Credo che, a parte gli anni, non avessi nulla in comune a Micheal. Ero solo il primo attore adatto alla parte che fosse venuto a giocare in quella casa dopo la sua morte. Cosa avevo a che fare io con quella bambina ormai sui dieci anni che giocava a softball nel giardino dall’erba ingozzata di chimica? Con quella donna che veniva a riprendersela ogni sera?
Perché questa anziana italiana d’America rimaneva tanto colpita dal fatto che io avessi la stessa età che avrebbe avuto il figlio morto?
Non lo capivo appieno. Fatto fu che l’atmosfera, da grottesca qual’era, virò in surreale.
Mi portò a riconoscere le cose di Micheal, i suoi libri, le sue foto. Una a scuola, una con la moglie: e con moglie e figlia e figlia da sola. Poi, all’ennesima: “Qui già era malato.” A questo non ero pronto. La faccia di un uomo – della stessa mia età – che sa già, così in anticipo, che dovrà morire tra poco. Cristo, dove sarò stato a sprecare il mio tempo in quel momento, nel momento di quella foto? Guardai fuori della finestra per trovare conforto all’angoscia che stava vincendomi e mi imbattei nella ragazzina che, in un esubero di vitalità, lanciava e batteva palle sopra l’erba concimata di chimica. Colsi nei tratti del suo viso quelli del padre.
Intanto, la signora Iolanda mi raccontava tutta la carriera scolastica del figlio, poi i lavori che aveva fatto. Era un torrente – d’amore – in piena. I pianti che doveva non aver fatto, asciugata dalle traversie della vita (la guerra, l’emigrazione, l’affrontare un Paese nuovo, impararne lingua e abitudini, combattere per il lavoro, ecc...) e dalle troppe dure porte da spingere ogni giorno, si scioglievano finalmente in parole: delle quali, purtroppo, non ero in grado di viverne il completo significato. E mi soverchiavano. Dopo poco, per quanto fossi colpito, però non riuscivo più nemmeno a fare la faccia di circostanza; ero veramente stufo, eppure non sapevo interrompere la commedia. Avevo fissi dentro i miei quegli occhi che visibilmente avevano trattenuto troppe lacrime, rivivevo la profondità assoluta (assoluta come la morte) dei “no” di Michele-Micheal: finalmente, compresi la bramosia divoratrice di un popolo who plays with death, che gioca/recita con la morte.
La vita, in America, non ha lo stesso valore che in Europa. Gli States sono la più forte nazione del globo, però ogni anno attendono con fatalismo che l’uragano di turno provochi decine di vittime. Amen. Uno dei maggiori sports nazionali è sparare al presidente. Amen. Usano la guerra addirittura per scopi elettorali, dopo che economici: santificano i militari che hanno ammazzato più nazisti, comunisti, arabi, terroristi; e poi, su impeccabili prati ingozzati di chimica rappresentano impeccabili funerali ai ragazzi che hanno mandato a uccidere e morire, con bandiere ripiegate con solennità e salve di moschetti. Amen.
Ogni tanto friggono qualche negro sulla sedia elettrica. Amen.
Poi a Hollywood girano “Il Paradiso può attendere”, “Ghost” e altri tremila films dove la morte è sublimata, recitata, giocata: rimandata. Amen.
Ma individualmente, quel popolo non può sopprimere l’angoscia che alla morte è legata: la fine, la grande incognita, il definitivo, il non ritorno, la sconfitta dell’Uomo: il redde rationem, se non a un Dio, alla propria coscienza, che pure in quell’oceano di cipolla, patatine e ali di pollo fritte, da qualche recondita parte, si ostina a gridare. Inascoltata fino all’ultimo, soffocata da troppo cibo.
Per cercare di non confrontarsi con il Mistero, tentano di rendere la morte un elemento ‘civile’. Per questo i poliziotti sparano prima di pensare, per questo nei films, spesso, la soluzione del caso è l’uccisione del colpevole (presunto), per questo amano la pena di morte, per questo chi riveste una carica pubblica può essere assassinato, per questo i loro scriteriati uso e gestione della guerra, che è sempre ‘giusta’, perché ‘civile’; nel senso di prevista dalla società. La loro società non ha previsto che ci si possa schiantare contro un albero con la macchina, per cui impone limiti di velocità inverosimili: però trova corretta la libera vendita di armi, che sono ormai in mano anche ai bambini. Non vogliono che almeno la morte sia al di fuori del dominio umano.
E per illudersi di sconfiggerla, consumano, divorano brandelli di vita.
Non c’è nulla che li faccia sentire parte della storia, nessuna testimonianza della cultura delle generazioni passate. Non ereditano un passato, il loro unico riferimento è un futuro: ma la morte lo nega. Dunque mangiano, mangiano: almeno azzannano il presente. Secondo regole e ruoli precisi previsti dal play.
Ma la morte propria si vive solo fino a un attimo prima: quella di un figlio si vive soprattutto dopo e rende peggiore l’attesa della propria. Un figlio è una parte del genitore ed è il suo continuare a vivere, è l’aver lasciato qualcosa che non rende inutile aver vissuto: il figlio, morendo prima del genitore, rende a questi ancora più definitiva la morte.
Il giorno dopo, guidando su una highway di Long Island, mentre gli aerei atterravano sulla mia destra al John Fitzgerald Kennedy International Airport, mi accorsi che da noi in Europa abbiamo come la sensazione che tutto il mondo piangerà sconsolato la nostra morte. In America, invece, così proiettata al futuro, una persona che muore è una cosa del passato che non c’è più. E si percepisce.
Ma lì, nell’aspra campagna di Long Island, pregna di salsedine e di vento, mi accorsi anche che se fossi morto io non avrei lasciato nulla di me, non avevo un figlio cui affidare l’utilità della mia vita. Io piansi.
Questo il giorno dopo. Quel pomeriggio, andai a giocare a softball con la figlia di Micheal. Mi sorrideva. Lanciò la palla. Battei con violenza e feci uno home run, un fuori campo. La palla rimbalzò sorda sulla strada. Un silenzio surreale gelava il suburb.