Ricordi di viaggi di un italiano nascosto

di Enrico Proietti



silenzi@live.it

New York

21.10.2013 13:23

“Now, in this hate-filled world,
we must break all the chains
that have bound us.

Now, the crusade has begun,
we shall make this
a land fit for heroes. Now.
Stand up and fight,
for you know we are right.
We must strike at the lies

that have spread like disease
through our minds.

Soon we’ll have power,
every soldier will rest,
and we’ll spread our true kindness
to all who our love now deserve.
Some of you are going to die,
Martyrs of course to the freedom
that I shall provide.”

[Genesis, “Knife”, 1970]

 

 

Sì, ci sono stato anch’io, lassù al 100 e quantesimo piano delle Twin Towers del World Trade Center. In un’altra occasione, sono stato anche sull’Empire State Building. Solo Miss Liberty me la sono risparmiata.
Ora le Torri Gemelle non ci sono più. Le fotografai dal basso con un obiettivo grandangolare da 28 millimetri: apparvero più smisurate ancora e ancora di più sembravano essere portate da quelle specie di strette arcate neo-neogotiche che le dipartivano dal terreno, unica variante eclettica, per i primi piani, alla monotonia razionale dei due grandi parallelepipedi. Adesso le foto sui giornali ci mostrano questi elementi architettonici dalla vaga reminiscenza antica come unghie graffianti il cielo puzzolente, ma impotenti davanti alle macerie ancora fumanti. Non artigli, ma secche mummificazioni pateticamente spuntanti dalla fossa.
Ne faranno un monumento.
Non vorrei sbagliare, ma nel filmino di 10 anni fa c’è l’inquadratura di un aereo che fende l’azzurro gelato di quell’inverno. Ricordo sicuramente l’accelerazione antigravitazionale sentita in ascensore. Quant’erano alte? 450 metri, forse? Ebbene, l’elevator capace di decine di persone alla volta impiegava 60 secondi. Velocità media: 27 km/h. Ascensore di casa mia, capienza 3 posti, velocità media: 2,16 km/h.
Dati che ormai appartengono alla storia, non alla scienza, essendo mai più ripetibili. Andati, come l’acciaio e il cemento dove si svolgevano continuamente.
Le immagini diffuse hanno un maledetto tragico fascino. Il potere della bellezza demoniaca della distruzione. Risvegliano istinti sopiti, o tacitati dalla morale, di un uomo che urla la propria violenza contro le creature sue, inutili a farlo diventare Dio. Dio ha creato una piccola quasi perfetta macchina: soltanto, mortale. La piccola creatura, vano homo faber, costruisce cose che gli sopravvivono. Ma ogni tanto cortocircuita e vuole appianare questa differenza distruggendo i suoi stessi figlioli. Li trova colpevoli di non aver vita e non soggiacere alle stesse sue leggi con termine, inespressivi Mosè di San Pietro in Vincoli, manifestando il suo fallimento come nuovo Dio. Sfoga la rabbia per la mal destinata immortalità a martellate sulle ginocchia, spaccandone i muti, impassibili testimoni: ed è proprio quel loro (in loro immortali) silente senso di superiorità, o di assenza, di non risposta, di mancata partecipazione al suo dramma, che provoca in lui l’esplosione.
E spesso l’individuo incapace del solo coraggio di uno scatto surroga con l’assistere eccitato a squassi provocati da altri. Quegli aerei penetravano le lamiere, frantumavano i vetri, una bolla di fuoco scoppiava inconcepibile e il livello morale inorridiva spaventato, mentre un altro, istintivo, ne godeva affascinato dall’immane terribilità dello spettacolo finale. Era come se le lingue rosse e il greve gorgoglio nero, per dare morte, dessero vita alle stolide torri. Niente più altezza né altezzosità di metri e metri verso il cielo. La struttura implodeva, il fuoco divampava furibondo: poi il crollo repentino e totale, l’annientamento, il ground zero. Mago della psicologia dell’inconscio, direi, colui che ha coniato questo termine.
Le spettacolari vittorie dell’uomo sul livellamento della crosta terrestre hanno avuto anche una morte sublime, enorme: spettacolare. I terribili impatti degli aerei rappresentano la violazione delle convenzioni, fragilissime, sulle quali si poggia il nostro fallibile mondo. Basta una piccola deviazione dalla linea per causare il disordine mortale. È così facile! Perché chi guida si tiene a destra? Sufficiente una piccola sterzata e pam!, un crash e l’ordine è vinto, spezzato: come una vita, come tante vite.
Altre in queste ore pompeiane si preparano a essere recise da falciatori impazziti.
La vendetta.
La guerra.
L’odio.
A odio non si risponde con odio. Non vuoi dar retta alla religione, che insegna come all’odio si risponda con l’amore? Dai retta alla storia, all’esperienza. Odio porta altro odio, e questo altro odio di ritorno e via nel baratro. Sempre è stato così.
L’hanno chiamata guerra, poi non più. Ma gente morirà, città saranno rovinate, veleni sparsi, trappole nascoste, miseria arrecata, disperazione seminata a profusione e conseguenze inimmaginabili peseranno sul futuro. Perché?
Perché ancora la vendetta è il primo fiore che buca il gelo del dolore.
Possibile?
È un fiore nero, ma piace sovente portarlo per lutto.
Mentre scrivo, France 2 informa che Karl Heinz Stockhausen ha definito “quello a cui tutti abbiamo assistito … la più grande opera d’arte” che esista. La citazione è forse imprecisa nelle parole (l’ho colta al volo, spalle allo schermo, mentre pensavo in italiano), assolutamente non nel contenuto. Non la rifiuto, prometto di approfondire il concetto. Troppo cinica per essere quello che appare. Però, intanto, rabbrividisco. Ecco, se due aerei radiocomandati avessero centrato in diretta TV due supergrattacieli alla vigilia dell’inaugurazione, assolutamente vuoti di persone, e la gran vampa e il gran crollo fossero stati solo un tremebondo spettacolo, allora sì. La distruzione di potenza, la violazione della verginità americana, il sovvertimento d’un ordine astratto, il fascino perverso già detto, la perfezione tecnica dell’azione avrebbero creato un’opera d’arte sconvolgente nella sua bellezza.
Ma la morte di un solo passero… E invece, più di seimila persone sono scomparse. Nel senso che proprio non c’è più niente di loro, non un misero osso né un brandello di vestito. Bruciate, evaporate. Uomini e donne, vite belle o sofferte, magari qualcuna criticabile: ma criticabile fin tanto che era vita.
Non basta il Tempo? Non bastano i mali?
No: qualche imbecille deve decidere al loro posto.
E di fronte a tanta iniquità, fino a quando, Signore, implorerò e non ascolti, a te alzerò il grido: “Violenza!” e non soccorri?[1]
Ecco, l’uomo inascoltato (se mai avesse davvero implorato) fa da sé. Di nuovo alla ricerca del proprio compimento a Dio, decide che la sua violenza sarà giustizia, mentendo sulla vendetta.
Violenza in risposta a violenza, odio a odio.
Quanto lontana la Giustizia!

La calcolata follia dell’egoismo ha provocato l’ecatombe a Lower Manhattan quando ero in procinto di licenziare questi “Ricordi”.
Tutto il mondo è diventato all’istante un termine rispetto a: americano.
Con o contro!
Bella idiozia. Cosciente di non aver lasciato occasione, nel mio ricordare, per attaccare gli U.S.A., ho avuto la consapevolezza che la nuova concezione del mondo e della storia che d’ora in avanti avremo necessitava la chiarezza profonda del mio pensiero. Presunzione: originario peccato di tutti i fallibili.
Ho pianto i morti dei quattro aerei, del Pentagono e delle Torri. L’immagine di un pompiere che risale le scale infinite, forse cosciente – come si è detto – forse no (io credo di no), di certo spaventatissimo, con gli occhi scuri che scoppiavano, è fissa in me. Il fotografo subito scese, lui continuò. Quel ragazzo è morto poco dopo, il suo elmetto FDNY non ha potuto riparare quegli occhi terrorizzati da 100 e quanti piani che gli sono crollati sopra, intorno, sotto. Retorica? No.
La gente morta bruciata: un attimo prima un impiegato inamidato, uno dopo una torcia in consunzione. Può un uomo diventare un qualsiasi combustile? La nostra pelle così curata, ricoperta da amorevoli cremine, massaggiata, baciata, può improvvisamente accartocciarsi e ardere? I nostri occhi liquidi, casseforti di emozioni, possono seccarsi e bruciare in un momento?
Può l’uomo che ami perdere istantaneamente il suo essere voce e gesti, sguardi, profumi, difetti, il suo presentarsi con un modo di vestire e di camminare, di guardarti, toccarti, accarezzarti, e scadere a una stecca di materiale che le fiamme consumano in pochi secondi?
Forse l’Uomo s’è fatto davvero Dio, il Dio del Male.
Il fatto è che l’esercito americano non è l’arcangelo Michele.
Ma pretende di esserlo.
È questo che non mi fa amare l’America come vorrei.
Confondono giustizia e vendetta, e questo si sa. Ma che lo fanno apposta, si sa? È evidente. Hanno costruito una società fondata sul benessere personale quando l’Europa stava dimostrando l’utilità del benessere collettivo.
Sono intervenuti in difesa dell’Europa minacciata almeno due volte. Ma fu unicamente altruismo? Dobbiamo essere comunisti, solo a riconoscere che lo fecero per salvaguardare e aprire i mercati? L’hanno combattuto, il comunismo, per spirito libertario o perché gli chiudeva l’espansionismo commerciale?
È storia che per occupare l’Italia si sono accordati con la Mafia. Quella, qualcosa in cambio deve averla avuta. Chissà quanti soldi di quella provenienza hanno determinato o ancora determinano le vicende politiche italiane.
Diciamo America. Ma in verità la responsabilità reale di quel popolo – che vota molto meno di noi – è quella di aquietarsi ciechi in quel benessere che, a ben guardare, non è nemmeno di tutti. Non che da noi non ci sia razzismo, ce n’è tanto: ma i posti per negri sui bus francesi non ci sono mai stati. Da loro, sino a quando ero ragazzino io.
Si considerano nemmeno il centro del mondo, ma l’unico mondo. Sei buono se pensi a loro modo, se no sei cattivo: e i cattivi si ammazzano. Good the indian, dead the indian.
Sono sinceri nel loro entusiasmo per l’America: ma perché si mettono i paraocchi e non vedono l’alto tasso di violenza che permea la loro società? È violenza fisica, è violenza economica, morale, intellettuale. Loro hanno diritto di entrare con le armi in casa altrui, ma spesso non riconoscono il diritto di mettere un loro cittadino sotto processo.
Diciamo America. Ma in verità esiste un gruppo mondiale che detiene l’economia e che, però, appare – appare? – guidato negli U.S.A., il quale orienta le scelte dei governi. Di quelli occidentali: figurarsi nel Terzo Mondo!
F.A.O., G8, W.T.O. sono alcune delle emanazioni evidenti di quel potere, che ne avrà però di recondite.
Sarà un caso che dietro l’amministrazione oggi al potere negli U.S.A. ci sono le stesse facce del Vietnam (oltre ovviamente del Golfo)?
La mia generazione è cresciuta leggendo “I Quindici” e vedendo miriadi di films hollywoodiani. Altre a seguire hanno cominciato a mangiare ketch up e cheeseburgers. Tutti a bere Coca-Cola.
Senza riflettere sul perché dentro la Coke ci fossero coca e caffeina.
Senza capire che danno assuefazione, per cui si diventa dipendenti, come i veri drogati.
Senza riflettere sul perché fosse leggermente dolciastra.
Senza capire che era fatto apposta, così che certe ghiandole “della sete” non si soddisfacessero (serve loro l’amaro, come sanno gli antichi tedeschi Amish della Pennsylvania, che campano a limonate) e ne chiedessero ancora consumo.
Ecco, il consumismo: questa è l’ideologia che impregna, consapevolmente o no, l’America e che essa è costretta a diffondere nel mondo per garantire la propria – stolida – sopravvivenza. Per questo, anche per questo, le mie critiche nei “Ricordi”, di fronte alla povertà o alle incongruenze del mondo. Ma quel mondo che noi ricchi affamiamo finirà di sostentarci. Gli operai vietnamiti smetteranno di farsi pagare due cents per fabbricare roba rivenduta a 40 dollari. O moriranno o si incazzeranno.
Qualcuno, per interesse, sta già soffiando odio all’orecchio dei disperati. La religione è spesso l’alibi perfetto.
Quante bugie!
Perché: o in decenni di quei films ci hanno dato a intendere di avere un livello tecnologico impensabile (ricordo la “pubblicità” vera di un satellite-spia che veniva vantato in grado di ascoltare la conversazione tra i due soldati di una pattuglia in Siberia) mentre invece era solo fantascienza; oppure non è possibile che dopo decine e decine di minuti che prima uno, poi un altro aereo si sono infranti sui più alti grattacieli della città più importante del mondo, loro si lasciano cadere addosso un aereo addirittura sul Pentagono. Ma come? Il centro nevralgico della difesa non era protetto dai Patriots, i missili anti-missile? Non c’era niente di niente? Bastava prendere un aeroplano e tirarglielo addosso?
I vecchi generali sovietici, allora, si stanno tagliando i testicoli: era così facile!
Ma via…
E le due Torri? Potrei denunciarli: mi hanno fatto salire là sopra dopo quarti d’ora d’attesa nell’androne, e tutto poteva cadermi facilmente addosso? Facilmente: perché non mi si dica che lo schiaffo degli aerei giustifica il collasso. Forse la mega tecnologia era stata mal progettata.
Oddio, le loro bombe abbatterono facilmente le guglie del Duomo di Colonia e migliaia d’altre, ma quelle erano fatte di povera pietra da capimastri che non avevano fatto l’università.
Sempre che emerga davvero che il responsabile è lui, quello sceicco è stato un loro agente. Spero che sia che l’hanno perso, il controllo su di lui. Comunque stiano le cose, l’idea è che si fronteggino due ordini di potere: la classica vecchia lotta di potere.
Mascherata.

Non è nemmeno questo che mi fa inalberare.
Non sono Emilio Fede e gli altri servi a libro paga (ora sì, dopo queste parole, che mi faranno komunista), sebbene mi si stringa la pelle addosso a vedere come siano utilizzate le immagini dei disperati che, non possiamo sapere con quale livello di coscienza, hanno preferito concedersi il gusto orrendo del volo suicida al raccapriccio di sentirsi ardere.
Non sono le evidenti bugie, non le patetiche preoccupazioni a cercare di contare quanti connazionali possono essere morti, come se la morte e la pietà esigessero i passaporti.
Non è la spirale d’odio di religione che fino a qualche anno fa credevo, per noi cosiddetti occidentali, confinata ai libri che ho studiato e cui invece già si sta dando libero, seppur velato, sfogo.
No, non è questo.
È perché il sospetto secca le lacrime.
Il razionale ed emotivo sospetto, che monta verso la certezza induttiva, mi impedisce di piangere. Questo non potrò perdonarglielo mai.
Io vorrei versare lacrime di ogni temperatura. Vorrei commuovermi fisicamente con gli occhi del giovane pompiere o con il pencolare del disperato che poi si butta.
Vorrei, non riesco.

E ci sarà la guerra. L’ho chiamata vendetta: ormai so che è parte delle cose.
Forse prima o poi riuscirò a piangere. Per qualche uomo o donna o bambino. Forse per il cadavere di un cane fra le macerie di un villaggio musulmano da qualche parte di una terra d’antica civiltà. Dimenticata.

Obnubilata è ogni civiltà.
Quante torri cercheremo di piangere scomparse?


[1] Abacuc, I, 2