Ricordi di viaggi di un italiano nascosto

di Enrico Proietti



silenzi@live.it

Praga

18.04.2014 06:11

O Fortuna,
velut luna

statu variabilis,…

Mein Gott, das ist...

…semper crescis
aut decrescis;...  [1]  

Queste sono... Sì, sono le inconfondibili note dei Carmina Burana di Carl Orff, le sempre confuse voci dei canti goliardici medievali musicate negli anni ’30 dal grande Orff, quelle che risuonano magiche nella magica Staromĕstské Námĕstí. Non è possibile. Venire nella città etichettata dal turismo come magica, stemperare le suggestioni nell’inquinata periferia, arrabbiarsi nella stazione pullulante di malviventi e poi banalmente, proprio nel cuore deputato alla seduzione, lasciarsi sopraffare così d’improvviso.

…In Fortune solio
sederam elatus,

prosperitatis vario
flore coronatus;
quicquid enim florui
felix et beatus,
nunc a summo corrui

gloria privatus…[2]

Non si può passeggiare per le vie del Hrad, il Castello, credendo che in quelle botteghe adesso lustrate e pettinate per i turisti davvero gli alchimisti inventassero l’oro. Non si può. No, me stesso tangente, non si può. Sotto, i tram doppi carichi di viaggiatori che stridono per le vie curvilinee riportano alla realtà empirica. Penetrare la fotografia del vecchio cimitero ebraico e immaginare, tra quelle steli esplose e accalcate, che il figlioccio imprevisto di Rabbi Löw, il Golem, vi si aggiri ancora? Lì accanto, memorie calligrafiche, i nomi dei 72.000 figli di Giuda deportati, pazientemente ricamati nell’intonaco, riconducono alla crudezza della storia e non alle leggende.
Il Dottor Faust abitava in una casa squallida, anche la tomba di Kafka è banale; non ci ho messo nessun sassolino e l’unica cosa che si possa ricordare di quel luogo è la keppah (o come diamine si scriva), il copricapo ebraico che all’ingresso t’impongono di indossare. All’esterno, lungo la larga strada che porta fuori città, gli autobus ammorbano con i loro scarichi pestiferi e le Trabant si lanciano in caute corse tra uno scossone e l’altro.
Sì, il centro sembra l’ambientazione di una fiaba, ma non sarà il fondale di un gioco per i bambini, piuttosto che la quinta di uno spettacolo transdimensionale? Già ci sono MacDonald’s, negozi di sport multipiani, qualche potente automobile tedesca, i tram dipinti di pubblicità. Torme di turisti di massa.
Ma c’è anche Týnský chrám, la Chiesa di Santa Maria di Týn, con le sue torri fiabesche, e sotto di esse ora, stasera, risuonano le voci dei Carmina. Allora qualcosa c’è!

...Floret silva nobilis
floribus et foliis.

            Ubi est antiquus
            meus amicus?
            Hinc equitavit,
            eia, quis me amabit?

Floret silva undique,
nah min gesellen ist mir we…
[3]

E no, me stesso andato, che fai?, torni proprio adesso?
Questa musica contemporanea sgorga dalle falde ancestralmente più antiche della nostra cultura occidentale. Proviene dal cuore profondo del pensiero e del sentire europeo e qui, nel cuore quiescente della Mitteleuropa, riaffiora stasera per catturare, inaspettata, un’anima incerta tra viscere e cervello, lesta a sfuggire alla forza centripeta e percorrere vie tangenti centrifughe alla razionalità.
Non è per cadere nel solito equivoco, cioè per usarla come accompagnamento o adito a visioni apocalittiche. Qui, peraltro, giorni finali ci sono già stati: fine rapida di un regime, disfacimento di un sistema ma, con esso, anche di valori; per meglio dire, scoperta che quelli si pensava fossero valori, esistenti ma soffocati dal totalitarismo, in realtà non c’erano proprio. Ecco il trionfo del consumismo, altrettanto totalitario ma in maniera subdola.
Fa male vedere gli sport apparels americani diffondersi a macchia d’olio, i ragazzini cechi comprare a 180 marchi – tedeschi – scarpe di gomma e plastica fatte in Malaysia o Vietnam da ragazzini pagati con una ciotola di riso (e magari fosse retorica); come faceva male vedere primeggiare velociste con la barba e le cosce a quarto di bue. Le Trabant still traballano, ma il nero di Mercedes super-classe si profila incredibilmente frequente sopra pneumatici ribassati.

…Chramer, gip die varwe mir,
die min wengel roete,
damit ich die jungen man
an ir dank der minnenliebe noete,
Seht mich an,
jungen man!

lat mich iu gevallen!…[4]

E sono ora seduto come un qualsiasi turista alla terrazza del café-restaurant davanti al monumento in onore di Jan Hus. Allora non ho invenuto alcuna pietra filosofale, non ho avuto alcuna visione se non quella di un pover’uomo costretto - come in una bettola per turisti di Trastevere - a impersonare il buon soldato Švejk, in una bettola per turisti in Na boÿšti.
Il Castello! Il castello è solo un luogo dove più tickets paghi, più vedi; puoi fare l’abbonamento come a Disneyworld. La finestra della stanza della defenestrazione, antico sport nazionale ripetuto in epoche differenti, non è poi così alta.
Piazza Venceslao è senza santi, stradone in salita malato di vita sbagliata: purtroppo l’unica giusta, quella di Jan, l’altro Jan, è bruciata come un fiore senz’acqua nella serra.
Così ora sono seduto come un qualsiasi turista alla terrazza del café-restaurant davanti al monumento in onore del protestante, e una masnada di ragazzine e ragazzini americani, evidentemente un coro giovanile in trasferta, si è seduta sui bassi gradini ai piedi di Hus ed ha attaccato l’incanto. Sono perfetti, cantano ad occhi chiusi, rapiti dalle intonazioni e dal luogo che non vedono, ma lo risognano a tempo di musica. Ecco Praga: una partitura incompiuta ma precisa, a levare dove te l’attendevi a battere e poi viceversa, dissonante anche però sublime. Questa è la sua magia.
È il suo esistere, è il suo essere calma e gaudente, il suo essere luminosa e segreta, gotica, rinascimentale, barocca, liberty; seducente e squallida, fetida e odorosa. Essere una città tedesca dove s’è deciso di parlare una lingua strana, ma specchiarsi di levante, al centro e a oriente di un mondo che l’ha riscoperta da poco, con le spalle alla Germania.
E ‘sti ragazzini, sia pur americani, devono aver colto la loro magia di Praga e, in questa sera di lungo crepuscolo, hanno sentito di celebrarla con le note evocative di Orff. Note equivocate, note mal adattate, note magiche.
Ma qualcosa c’è, c’è. Un dato che ancora mancava. Qui si va avanti a suggestioni. Si guardano facciate, pietre, ori e smalti davvero come in un parco giochi. Invece questa è una città, nata per vivere. E a Praga la vita ha dato gioie e dolori; al solito.
Tutta la gente vociante la interpreta nella gioia: ne avrà avuta! Io ne ho sentito enormi i dolori: del passato, certificati, e del presente, individuabili tra le pause di una ricchezza troppo veloce, esteriore, non conquistata.
Ma esiste un elemento che stempera la sofferenza: credo che funzionasse anche prima. Birra: pivo. Non tanto quell’eccezionale scura che si beve u Flecku, nel grazioso giardino-birreria floreale, splendido frutto di lettura episodica di guida, quanto i fiumi di pilsen serviti con allegria sulle lunghe tavolate di legno intaccate dall’uso, a fianco di chi capita. Litri e litri di liquido biondo, diuresi eccelsa del corpo e dell’anima.

…In taberna quando sumus
non curamus quid sit humus
sed ad ludum properamus,
cui semper insudamus.
Quid agatur in taberna
Ubi nummus est pincerna,
hoc est opus ut queratur,

si quid loquar, audiatur…[5]

Anime contente e drammatiche hanno i praghesi. Forti, rigorose: e ridenti e melanconiche. Ironiche. È forse proprio l’ironia la chiave per leggere quei pinnacoli fiabeschi, quei colori da fumetto. Poi, come il passaggio dal centro all’ultima periferia, svanisce incompresa: e resta lo strano coraggio di incendiarsi per protesta.
Ecco dolce Praga chi dovrà amarti. Non contro la sua volontà. Suadente Praga, scegli i colori, fa che le tue guance non siano imbellettate da puttana. Moderna Praga, non tradire la tua storia.
Praga, pràh, il tuo nome è soglia: di magia, di libertà.

Fortuna, Imperatrix Mundi, cresci la tua luna su questa Praga

Ma sono seduto ora come un qualsiasi turista alla terrazza del café-restaurant davanti al bronzo al capostipite del pazzo coraggio boemo. Ho molto pensato, ho capito poco.

Mangio
Jan Hus ci guarda
immemori
consumare il presente
restituito
a un popolo
che in silenzio
si è votato
a tragiche eternità
Scrivo
Jan Hus ci guarda
tronfi
appropriarsi delle lacrime
evaporate
a un popolo
che con tenacia
ha resistito
a peggiori follie

(Non ascoltai la Cour d'amours, ma

…Circa mea pectora
multa sunt suspiria

de tua pulchritudine,
que me ledunt misere…”)[6]



[1] O Fortuna
(sei) come la luna
di stato variabile,
sempre cresci
o decresci.

[2] Sul trono della Fortuna
ero solito assidermi,
della prosperità dal variegato
fiore coronato;
nonostante rifiorissi
felice e beato,
ora precipito dalla cima,
della gloria privato.

[3] “Rifiorisce il nobile legno
di fiori e di foglie.

         Dov’è l’antico
         mio amico?
         Se ne partì a cavallo,
         allora, chi mi amerà?

Rifiorisce il nobile legno
ed io mi struggo per il mio amico.

[4] Bottegaio, dammi i colori
per fare rosse le mie guance
così che i giovani uomini possano
amarmi contro la loro volontà.
Guardatemi,
giovani uomini,
lasciate che vi piaccia!

     [5]      Quando nella taverna stiamo
di cosa sia (umile) terra non ci curiamo,
ma al gioco di dedichiamo
per cui sempre noi sudiamo.
Che cosa accade nella taverna,
dov’è coppiere il denaro,
questa da chiedere sarebbe materia,
se qualcuno parlasse, sarebbe ascoltato.

 [6 ] Dentro il mio petto
sono tanti i sospiri
per la tua bellezza,
che miseramente mi feriscono.