Ricordi di viaggi di un italiano nascosto

di Enrico Proietti



silenzi@live.it

Venezuela *

07.01.2014 21:31

(* Le battute del personaggio di Iraima sono state scritte insieme a Claudia Valvo,
che ringrazio anche per il lavoro di revisione di alcune parti del testo)

 

Quella notte giocai a domino col ragazzetto della posada alla luce della lampada a gas e, incredibilmente, visto che io non praticavo mai quel gioco mentre per lui doveva essere compagno di più di una sera, vinsi.
S’era in un isolotto de Los Roques, un arcipelago vulcanico di circa 300 grumi nel Caribe meridionale, al largo delle coste venezuelane. Uno solo era abitato da una comunità di pescatori, su altri due o tre, forse quattro, c’era qualche casa di villeggiatura (d’appoggio per la pesca, credo) e rudimentali strutture di ospitalità e turistiche. Da lì, ragazzi di città che lavoravano per raggranellare due soldi per pagarsi l’università o semplicemente le uscite della sera ti portavano su barche alla scoperta delle spiagge migliori. E che spiagge!
I colori del mare sono i più intensi e corposi che abbia mai visto. Tutto l’arcipelago si sviluppa all’interno di un cordone corallino cresciuto, ritengo, sul bordo della caldera esplosa del vulcano, e che fa da barriera ai marosi. Sembra di entrare, anziché in acqua, in un fluido vitale capace di rigenerare. Il brodo primordiale non doveva essere troppo diverso. È un liquido magico e arcano, caldo, col quale ebbi un rapporto sessuale dolce e lento. Sì, proprio questo: sospinto dal ritmo discreto ma incessante della risacca minima della spiaggia bianca, incantato dalla melodia del silenzio timidamente ventoso, mi abbandonai rilassato all’elemento turchese dagli indefiniti riflessi smeraldo, diedi libertà al desiderio e fui corrisposto, provando la stessa emozione e lo stesso appagamento di un rapporto sessuale d’amore. Non volevo smettere più.
Il mare e le spiagge de Los Roques sono indescrivibili: non si può far altro che viverli. Ogni isolotto ha le sue caratteristiche. C’è quello con la barriera corallina a portata di mano, dove ti immergi in apnea e, stando attento a non toccare il temibile coral de fuego, simpatizzi con i pesci dai mille colori. Quell’altro dalla vegetazione particolare, con i fiorellini poco espansivi ma dalle intense tonalità. E uno dove puoi vedere l’innocuo squalo martello, l’unico che penetri nel recinto dell’arcipelago, un altro...
Su una spiaggia tra le più belle, si era posto il problema di mangiare. Fu immediatamente risolto dal ragazzo pilota della barca (un gommone azionato da due motori da 75 cavalli l’uno che gli facevano raggiungere velocità niente male, permettendo di visitare più isolotti in una sola giornata). Si cavò fuori dalla tasca un tre-quattro metri di filo di nylon, cui agganciò un amo che portava con se. Scavò un po’ dove la sabbia cominciava a diventare terra, infilò un vermetto all’amo e, così con la mano, gettò la rudimentale lenza in acqua. Nel giro di mezz’ora avevamo un bottino di cinque o sei grandi pargos.
Un’isola è l’aeroporto. No, non “c’è” l’aeroporto: “è” l’aeroporto, in quanto è tutta e unicamente occupata dalla pista per aerei da turismo, che inizia e finisce in mare. Scesi dall’aereo, anziché sul bus-shuttle si viene caricati in barca. Atterrando col piper 4 posti, mi era veramente sembrato di scendere sull’azzurro dell’acqua.
Ripensai a tutto questo, nell’effimero momento in cui assaporai il piacere di quella futile vittoria. Sì, effimero e futilità caratterizzano le cose umane in quel mondo fertile, in quella espressione di vita dai cicli lunghissimi, dal tempo primigenio.
Oh, il tempo! Quanto tempo c’è a Los Roques. Il posto ideale per nasconderti con la donna che ami, dove fare, dare e ricevere amore. Crogiolo di elementi vitali, tutti bellissimi. L’aria purissima e luminosa, l’acqua sessuata, la limpida terra incontaminata: il fuoco celato, ma origine eruttiva di tutto, e presente nella passione.
Il tempo! È incredibile come ci manchi nelle nostre pratiche quotidiane (sempre di corsa, sempre a dover rimandare qualcosa) e come non si sappia in che modo riempirlo quando, come in una lunga sera tropicale a Los Roques, non c’è altro che lui.
Così, dovendo passare una notte a Los Roques senza la tua donna, giochi a domino con il ragazzetto della posada. E vinci pure. Poi ti corichi nella branda e sei felice. Finché non pensi a lei che non c’è.

E dire che in Venezuela di donne belle ce ne sono: anzi, bellissime. Non a caso è spesso una di loro a vincere il becero, ma tuttavia indicativo, titolo di Miss Mondo. Girando per Caracas, andando nei bares de El Hatillo, il sobborgo coloniale incassato in una conca più elevata della città (che sta già a una bella quota anch’essa), se ne incontrano da impazzire. “Es la mezcla” dicono i locali, la mescolanza di razze diverse che affina e arricchisce i tratti.
– Iraima incarnava splendidamente la bellezza della mezcla.
Padre persiano, madre metà bianca e metà india: ottimo risultato. Non era di quelle che pensi di mettere in copertina, ma di quelle da portare a Los Roques sapendo che non ti annoierai. E la maniera eccitante che aveva lei, di dire questo nome de Los Roques... Affascinante e intelligente, era al tempo stesso fresca e gioiosa: la pelle ambrata, sembrava perennemente abbronzata; i lunghi capelli molto ondulati ma senza alcun segno di crespo o di secco, anzi ricchi e morbidi; le sinuosità giuste, sode e naturalmente femminili; il modo di muoversi che rivelava un fuoco interiore in grado di sciogliere un ghiacciaio della Patagonia o di far evaporare tutta l’acqua dell’Orinoco. Tutta l’energia le usciva fuori dai tizzoni che teneva per occhi: quando ti afferravano, ti sentivi passato da parte a parte, rivoltato, afferrato e sbattuto giù.
Sapeva essere dolce, Iraima. Sì. Quando voleva, diveniva sensuale. Però…

– La chiamai. Era ancora al lavoro. Mi chiese:
“¿Qué hiciste hoy?”
“Bueno, he ido a El Hatillo, y...”
Non mi lasciò finire. La mia risposta alla domanda “Cosa hai fatto oggi?” era sbagliata. Sbagliato dirle che ero stato a El Hatillo senza di lei.
Esplose. Pure dal telefono vedevo i suoi occhi sparare palle esplosive.
¡Vamos a vernos ahora mismo!”
L’ordine d’incontrarla subito lo eseguii, cercando di scongiurare ire maggiori. Vedendola, temetti di aver sbagliato.
“¿Como es qué me hiciste esto?”
“¿Eh?”
Non avevo capito, mitragliava le parole e mi perdevo qualcosa dello spagnolo. Aveva frequentato il Club Italiano, così riuscì a ripetere in italiano.
“Come è che mi hai fatto esto?”
Non seppi rispondere. Sì, aveva detto che mi voleva portare a El Hatillo, è vero, ma all’ora di pranzo non sapevo che fare e così intanto ero andato a fare un giro, ero entrato in un bare a dissetarmi con una Polar ed ero risceso in città, niente di male.
“¿Como que no hay nada malo con eso, chico?
C’era, qualcosa di male, c’era. Le sue labbra, che sapevo morbidissime, parevano lame pronte a uccidere. Non capii una parola, parlava a raffica, ma il senso era chiarissimo. El Hatillo era un luogo bello, umano, rilassato. Ma di più: lei di quel luogo doveva essere la regina e, nel suo regno di dolcezza, voleva essere lei a portarmici. Esserci andato da solo, da maschio elefante, le aveva impedito di fare questo per me.
Mentre faceva fuoco sulla mia insensibilità muoveva i fianchi e mi parve come se ballasse un merengue. Mi sentii un muchacho di un barrio, la loro versione delle favelas, solo sulla strada a vedere questa merenguera e a sentirmi più solo per non poter ballare con lei.
Ma poi si calmò, ridivenendo promessa di miele.

La pace mi costò la cena. Ordinai una canoa de mariscos.
Non sapevo cosa fosse esattamente, ma la presenza dei frutti di mare, i mariscos, mi invogliava. In fondo, avevo già sperimentato il mangiare creolo, alla fine me l’ero anche fatta piacere, quella comida criolla; cos’altro poteva capitarmi? Il cameriere si presentò dopo un debito tempo recando, in un trionfo culinario, sopra un vassoio, una mezza piña fumante. La canoa de mariscos era appunto una mezza ananas spaccata secondo la lunghezza, scavata e riempita di una zuppa ai frutti di mare. La sola vista mi estasiò. La superficie liquida era semi-solidificata, sembrava essere lievemente gratinata. Questo morbido velo manteneva parzialmente sommersi vari molluschi e altre delizie marine. Un vapore profumato di pesce, di spezie, di erbe e di frutta emanava da questo paesaggio culinario.
Con un riluttante colpo di cucchiaio, ruppi l’equilibrio e iniziai ad assaporare. Si rivelò una vera delizia! Il succo che ancora sprigionava dalla polpa rimasta si mescolava con il brodo, unendo il sapore del mare a quello della terra, il dolce al salato. La polpa stessa, via via che mangiavo, si scopriva e si rivelava intrisa del gusto della zuppa, già di suo eccellente. La asportai forsennatamente con il cucchiaio.
Ecco, mi chiedo ora perché attribuisca tanta importanza a questo piatto. Forse perché mi sorprese troppo. L’America Latina non mi era mai sembrata una terra da raffinatezze culinarie. Pensavo piuttosto alla carne, tanta e generosa: dal Messico all’Argentina manzi e mucche forniscono quanto di meglio si possa chiedere. Ristoranti di lusso, sì, quanti se ne vogliono: ma lusso yankee o europeo. Certa cucina messicana, intrigante, mi è sempre sembrata un’elaborazione d’oltre Rio Bravo: e comunque, ci va giù pesante, con i sapori decisi. Sicuramente dai sapori decisi è la cucina latino-americana esportata, sebbene, per quanto mi riguarda, l’abbia conosciuta prima sul posto e solo dopo in Europa: chorizos in ogni variante d’oltremare, feijoadas, asados, chili con carne, carne do sol, nachos, eccetera eccetera. Insomma, vuoi per la povertà, vuoi per il colonialismo perdurante, non l’avevo mai figurata capace di offrire una canoa de mariscos.
E in effetti, non è un po’ simbolica? L’accostamento brutale di sapori, che eppure si fondono ma lasciano intendere le proprie origini, l’ingegno a creare il bello partendo dalle cose più semplici; tutto molto emblematico dell’America Latina. O almeno di una sua metà. È vero: avrei dovuto ordinare anche l’altra metà della piña, conoscere l’altra realtà del continente. Avrei dovuto; ma probabilmente quella mezza ananas era già marcita.
Perché già il Venezuela è tante cose, non solo queste. È anche presentarsi in un locale giovanile alla moda - stile Hard Rock Café - e vedersi l’ingresso impedito perché si è in scarpe da ginnastica: no, niente da fare, devi andare... finché non mostri che risiedi all’Eurobuilding, ad esempio, e allora ti lasciano passare, valutando che, se puoi spendere un minimo di 180 dollari a notte, sei un tipo che spenderà abbastanza anche nel locale.
A Caracas c’è il Club Italiano. Per entrare devi mostrare il passaporto italiano: davvero. La ragazza di Gian Luigi, anfitrione italo-venezuelano, di famiglia asturiana, poteva entrare perché il suo nome era registrato come fidanzata di italiano. Naturalmente, per italiano e spagnolo si deve intendere la nazionalità di provenienza: metà Paese, o forse più, ha la doppia cittadinanza. All’interno, si svolgeva un torneo di calcio con le squadre che avevano le maglie del nostro campionato. C’era la gelateria, la pizzeria e ogni simbolo di italianità all’estero. Todos hablaban español. Claro.
In una elegante libreria della zona commerciale alcuni tipi brindavano davanti ai quotidiani che annunciavano il primo avviso di garanzia a Craxi. Non sembravano dei fans dell’onestà: piuttosto mi diedero l’impressione d’essere vecchi nostalgici convinti che quei socialisti fossero ancora parenti stretti dei comunisti. “Rossi”, tutt’e due.
La signora Dina Franchi, una manager d’azienda, fu molto gentile nell’invito a casa sua, in un condominio di un elegante quartiere sulle alture: purtroppo quello che stava fuori dell’appartamento non aveva nulla di gentile. Doppi cancelli, telecamere: e a questo ci si è pure abituati. Poi le scale, il pianerottolo: qui la sorpresa. La porta blindata con doppia serratura era preceduta da uno sgraziato ma efficace cancello. Non solo i ricchi, ma anche i benestanti di Caracas vivono barricati in casa, terrorizzati che la gente dei barrios tenti una ruspante ridistribuzione di ricchezza.
Tensione sociale ce n’era. Da pochi giorni era andato in scena l’ennesimo tentativo di golpe: ogni tanto, qualcuno ne riesce pure. Nelle strade, la polizia (ma sembravano militari) presidiava ogni dove tenendo il mitra o il fucile a pompa spianato. Aerei ricognitori militari sorvolavano costantemente la città, annoiando con il loro tuono sgarrato e prolungato. I danni di qualche bomba venivano riparati qua e là, ma era come se niente fosse mai successo. Il sabato e la domenica, gli aerei per l’Isla Margarita erano sempre pieni, con l’aeroporto di Maiquetia che diventava una specie di posteggio taxi: qual è il prossimo libero?
In città diventavano ancora più evidenti i poveri che non sapevano cosa aspettare: però l’aspettavano con silente tenacia.
Nemmeno un passo di merengue sapeva scrollarli via dalla loro mancanza di prospettiva. In Brasile o samba puoi ballarlo da solo, nella folla o a un angolo di strada: el merengue devi ballarlo in due. Così il dolce ritmo, anziché lenire i mali della solitudine, li intensifica. Vedere ballare una merenguera è certo uno spettacolo che non si scorda. Io non lo scordo.
A Caracas fui con sorpresa portato dentro un museo, un ambiente moderno e rarefatto, accogliente, poco frequentato. Vagavo nelle sale fingendo competenza - quella si attendeva da me - quando m’imbattei in una meravigliosa scultura di Lucio Fontana. Mi tolsi le scarpe e vi entrai dentro. Si poteva. Si doveva. Ne ebbi un appagamento tanto intenso quanto era stato inatteso. Accarezzavo quel concetto in forme spaziali e mi sintonizzai su quel Paese che si lascia penetrare ma non capire, rigido e asciutto ma pieno di squarci. Ma ci volle mezza ananas svuotata e riempita per ricevere il segnale giusto.

Tutto questo lo penso adesso, a migliaia di chilometri, a dieci ore di volo e a un tempo mentale infinito di distanza. Allora, ero soltanto, semplicemente, totalmente estasiato davanti a una mera pietanza. L’emozione, il calore che saliva dalla canoa, la temperatura ambientale anch’essa elevata, l’ammirazione e l’invidia degli altri commensali e clienti: mi sentivo al centro del mondo, soltanto per una squisita ricetta. E, sì, ne avrei chiesta volentieri l’altra metà: ma solo per golosità, se già la prima e il buonissimo pane caldo strofinato d’aglio che sempre in Venezuela portano in tavola non mi avessero saziato. Ma la gola avrebbe voluto ancora, ancora...
Il sapore irripetibile di quel piatto mi rimase, forse lo serbo ancora, piacevole compagno, sulle labbra.
Non smettevo di pensare a Iraima. E alla promessa delle labbra sue.