Ricordi di viaggi di un italiano nascosto

di Enrico Proietti



silenzi@live.it

Amsterdam

01.04.2014 06:53

Avevo una ventina d’anni quando andai, in due sulla moto, ad Amsterdam. Primo viaggio all’estero. Scoprii che della birra, in Italia, non avevamo mai capito nulla: e fu l’inizio di un lungo amore. Scoprii anche tante altre cose, pure di me, e più importanti della birra. Mi accorsi che un solo Paese era troppo poco per me.
Capii che le bellezze della mia amata città, seppure incomparabili, non giustificavano il degrado ambientale e morale in cui versava. E mi era difficile stabilire quale dei due degradi generasse l’altro.
Vidi che il grado di civiltà, in quelle Nazioni che attraversavo (Francia, Belgio, Paesi Bassi: e poi Germania e Svizzera) era più elevato che da noi. Da allora ebbi l’etichetta di esterofilo, che spesso ha intenzione infamante. Ma io credo che occorra confrontarsi con chi è più avanti (chi si ritiene lo sia), non consolarsi guardando chi sta peggio.
Vidi le aree di sosta delle autostrade francesi, la circonvallazione di Parigi (e la sua metro: figurarsi, venivo da Roma!), Champs Elysées perfettamente pulita, i rivoli d’acqua ai lati delle strade che portano via lo sporco; le autostrade belghe, gratuite e perfettamente illuminate, la segnaletica comprensibile; nel prato di un campeggio a 2 minuti dal centro della città, conigli e scoiattoli che nessuno disturbava; le piste ciclabili in Olanda; tante, tante altre cose...

Il primo impatto con Amsterdam fu all’imbrunire. La parte fiamminga del Belgio non aveva avuto il tempo di preparare adeguatamente alla difficoltà di comprensione della lingua neerlandese. Trovare la strada per il campeggio segnato sulla guida non era facile. Per fortuna, già all’epoca in Olanda (sic!: ma Amsterdam è comunque proprio in Olanda) l’inglese era diffusissimo: peccato che lo parlassi malino io! Comunque, riuscivo a disimpegnarmi. Stavo appunto chiedendo informazioni, quando una Fiat Ritmo grigia capitata lì vicino si interessò anch’essa. Guardai, c’era qualcosa di strano: la guida era a destra. Inglesi, un uomo e una donna. Chiesero se effettivamente il loro camping fosse lo stesso. Lo era. Perfetto, insieme ci saremmo orientati meglio. Ripartimmo. Dopo poco, persi di nuovo.
Trovammo un altro tipo cui domandare. Feci capire ai due che avrebbero fatto meglio a parlare loro, visto che erano inglesi e, evidentemente, padroneggiavano la lingua. Mi risposero, sorpresi, che non erano inglesi. Panico.
From Ireland.
Irlandesi! Bè, non erano inglesi, no. Il problema era che sembravano non padroneggiare la lingua degli invasori. Chiedevamo dove fosse ‘sto campeggio, il gentile olandese di turno ci rispondeva, io credevo di capire in un modo (es.: “Superate il ponte, poi girate a destra”), quelli andavano avanti, superavano il ponte e proseguivano dritto. Ora, siccome in inglese è facile confondersi con la parola right, che può significare tanto 'destra' quanto mille altre cose, pensavo fosse colpa mia. Ma non si trovava nulla. Altra richiesta, altre spiegazioni, altro errore. Finalmente mi imposi e, guarda caso, raggiungemmo il camping, di fronte allo Stadio Olimpico.
Tutto è bene quel che finisce bene?
Il pomeriggio successivo, proposero di uscire insieme alla sera. Avendo 2000 chilometri di moto piantati nelle natiche, s’accettò subito, con la prospettiva dei morbidi sedili della FIAT (ci si accontenta).
Giro turistico della periferia di Amsterdam, poi l’idea fulminante. Andare al Redlight District, il quartiere delle prostitute in vetrina. Il mio vecchio parroco d’allora, il caro padre Franco, me l’aveva detto divertito: ad Amsterdam ci si va per tre motivi; diamanti, droga, sesso! (E povero Rijksmuseum, aggiungo io ora...) Era vero. Adesso, esclusi i diamanti perché non avevo soldi, esclusa la droga perché in tutta una vita – prima di stupida paura d’osare, poi di coscienza – avrò fumato sì e no 6-7 canne collettive, rimaneva in effetti il sesso, sul quale a quell’epoca avevo ancora le idee confuse (sostanzialmente non prevedevano la considerazione delle aspettative dell’altra metà: e spero d’esser migliorato). La voglia di immergermi nella peccaminosa ed eccitante atmosfera del Distretto a Luci Rosse c’era.
Ci arrivammo perché alla fine di una peripezia incredibile dove il conducente sulla destra chiedeva, chiedeva e non trovava altro che splendide strade desolate, chissà come giungemmo in Leidsplein, avendo ormai abbandonato il piano iniziale. Lì, dietro un angolo, scorsi un sexy-shop. Non ne avevo mai visto uno, ma la mostra non lasciava possibilità d’errore. Arrossendo per l’emozione entrai, preparandomi a sfoderare il miglior inglese che mi fosse riuscito. Persi la concentrazione perché al bancone c’era uno scuro, ma non troppo. Ma come, in Olanda non erano tutti biondi? Vabbè, comunque chiesi scolasticamente: “Excuse me, can you tell me where is the Redlight District?
Redlight District?” urlò il molucchese (credo).
Vergogna. Rosso paonazzo, confermai. E quello me lo spiegò, ridendo di gusto. Che cavolo si rideva, mica lui faceva il profumiere! Tornai dalla compagnia e annunciai trionfante che sapevo dove fosse il Redlight District. Ci andammo di corsa.
Era in pieno centro, non lontano dalla Centraal-Station. Praticamente, c’erano tutti i turisti presenti in città. Coppie di poliziotti passeggiavano placide tra la folla, famiglie e comitive ridevano tra l’imbarazzato e il divertito, tranne alcuni che assumevano lo sguardo moralista: ecco, questi li detestai immediatamente. Vattene. Dico: se devi passeggiare lungo un canale di Amsterdam, puoi sceglierne altre centinaia. Se venite qui, tu e la tua signora moglie tutta sostenuta, con i gioielli in mostra, e mostrate i vostri volti severi, qui dove è talmente chiaro che merce si venda, è perché siete degli ipocriti pervertiti, che sareste pronti a nefandezze d’ogni genere, anzi, le avrete già commesse. Avrete la cameriera filippina che pagherete da fame in nero, la villa abusiva, evaderete le tasse a tutto spiano, avrete rubato ai vostri familiari l’eredità, lasciando morire vostro padre da solo in un ospizio – il più caro, certo –, il figlio che avete non saprà chi sia il vero padre, altri due li avrete abortiti illegalmente, tu marito possederai tua moglie con una bottiglia; però, Signore mio (già, la domenica a mezzogiorno andate a messa a braccetto, ma allontanate lo zingaro che chiede soldi!), Signore mio, ma come si fa, ma che schifo, ah, ma noi no... Ma andatevene a passeggio lungo Herengracht, anzi, andatevene a Parigi su Champs Elysées (per carità, non altrove!).
Molti di questi signori perbene erano italiani. Non lo capii direttamente, però, bensì grazie ai tipi che stavano davanti ai locali di real fucking e tentavano di convincere la gente a entrare ad assistere a quegli spettacoli (e devo ricambiare verso al mio moralismo e mettere un punto interrogativo: ?) di amplessi su un palco. Avevano un’abilità straordinaria: riconoscevano la nazionalità del turista già a dieci-quindici metri di distanza e gli si rivolgevano nella sua lingua. Fu eccezionale con il nostro gruppetto, dove agli irlandesi parlarono in inglese e a noialtri due, pochi passi dietro, in italiano!
Passeggiammo prima sul lato ovest del canale, poi su quello est. Le famose vetrine erano abbastanza deludenti. Si trattava in realtà di piccoli negozietti per lo più seminterrati, con questo vetro incorniciato in legno sulla strada e accanto la piccola porticina che, scesi pochi gradini, dava accesso alla stanzetta. Le ragazze stavano all’interno, succintamente vestite, com’era immaginabile, intente alle occupazioni più strane: chi sorrideva ai passanti, chi faceva le parole crociate, chi la maglia (sì!), chi parlava con qualche amico che era entrato. Nessuna provocava. Erano in maggioranza bruttine; tantissime non europee, molte asiatiche.
Eravamo un po’ delusi: sorpresi, poi, dell’atmosfera per niente peccaminosa, ma piuttosto da attrazione turistica, da parco dei divertimenti gratuito.
Ritornati verso su, verso la zona della stazione, in un vicolo laterale incontrammo un porno shop. Entrammo tutti quanti. Il negozio non manteneva le promesse, gli scaffali erano pieni per lo più di centinaia di “normali” riviste pornografiche. Niente che non avessi già visto, come qualsiasi ragazzo. L’irlandese, evidentemente, no. Si mise a vederne una, poi ne sfogliò un’altra, quindi un’altra ancora, e ancora, e ancora. Le esaminava con calma, essendosi isolato dalla nostra compagnia e dal mondo intero. Incrociai lo sguardo della moglie: era imbarazzata, ma lo eravamo tutti. Per scansare la tensione, ci fu – in italiano – una battuta, scontata, su cosa l’aspettasse quella notte, alla roscetta.
Di colpo, uscii dal locale, ripiombando nel lento andirivieni del Redlight District. Stavo lì, in mezzo al vicolo, come a fare da spartitraffico, quando improvvisamente, dal nulla, si materializzarono due gemme azzurre luminescenti.
Avevo a venti centimetri dal mio il viso di donna più bello che mi avesse mai emozionato. Come da copione, il cuore iniziò a battere velocemente. Sentii le gote infiammarsi, mi sentivo osservato ma non osavo girarmi verso l’ingresso del porno shop, dove immaginavo la roscetta irlandese che mi puntava. E poi, avevo un’immagine magnifica da ammirare. Una dolcezza rosea incorniciata da morbide ciocche dorate, con al centro un delicato antipasto per la fame d’amore, dritto e leggermente all’insù, ché veniva voglia di morderlo, e poco sotto una fessura rossa turgida che prometteva caldi contatti e dalla quale uscì una voce vellutata, con un fondo eccitantemente roco, che mi chiese: “Come with me?”.
“Vieni con me?” “Sì, amore mio, che vengo con te.” Lo pensai soltanto. Poi il super-ego, vigile censore, dalle nuvole mi ricondusse a quel vicolo del Redlight District con la roscetta irlandese sulla porta del porno shop al cui interno suo marito si stava facendo una cultura. Riuscii a riflettere, abbassando le pulsazioni cardiache, capendo, o piuttosto intuendo, che si trattava di una prostituta e: no, certe cose non si fanno.
Si fanno, eccome! Decisi immediatamente che sarei tornato a cercarla. Adesso, ipocritamente, davanti agli altri, via: ma l’indomani sarei tornato. Intanto l’irlandese aveva appagato la sua fame. Memorizzai fotograficamente il posto. Tornammo alla macchina, con quella al camping.
Quella notte non dormii. Ripensavo estasiato a quel volto magico, che mi si era mostrato come un’apparizione: alquanto profana. Possibile che fosse una puttana? Così dolce? Quelle che conoscevo io, quelle che popolavano la zona di Caracalla o di Tor di Quinto, a Roma, erano povere bagasce volgari, che già allora mi suscitavano soprattutto una gran pena. Questa no. Era giovane, bella, affascinante. Era valsa la pena essermi martoriato il sedere durante 2000 chilometri per venire ad Amsterdam, pensavo con la mia ventina d’anni.
Amsterdam, Amsterdam: me ne ripetevo il nome come se non credessi di esserci arrivato. In fin dei conti, quello era un mio blando surrogato del viaggio di iniziazione. A cosa? A una visuale meno obbligata.

Me la sarei girata, Amsterdam. Avrei incontrato ex hippies italiani mendicare due spiccioli davanti la stazione per potersi comprare un po’ di pakistano nero, avrei visto la coppia di poliziotti a Piazza Dam controllare l’orologio e, constatato che il servizio era finito, aprirsi la camicia, mettersi il cappello alla tranviere, sedersi su uno scalino e rollare una bella canna.
Mi sarei stupito della calma con la quale gli automobilisti ripartivano a semaforo verde (non prima di aver ulteriormente controllato che davvero nessuno venisse né da destra né da sinistra); incuriosito a vedere ragazzi neri che tornavano a casa sui pattini; esaltato nel frequentare una piscina pubblica, il Mirandabad, di eccezionale bellezza ed efficienza; meravigliato ed entusiasmato nel ritrovare le chiavi della moto, lasciate inserite nel quadro per più di sei ore, al chiosco di una venditrice di gelati presso cui indirizzava un cartello scritto in stentato italiano lasciato sulla moto stessa (che era nuova fiammante); divertito e sollecitato dai concerti estemporanei, ma di gran buona qualità, che tutte le sere animavano Leidsplein; sorpreso che sui puntuali autobus l’autista annunciasse nell’altoparlante la fermata successiva (e noi italiani a chiedere, appena saliti, quante fermate mancassero per lo Stadio Olimpico: salvo poi non capire in neerlandese “Olympisch Stadion” e scendere a quella dopo...).
Avrei compreso, insomma, che esistevano standards sociali e civili diversi da quelli cui ero uso. Questo fece nascere in me un malessere che mi sarei portato dentro per sempre: un malessere, però, tutto sommato piacevole, perché è uno sprone a impegnarsi per migliorare. Anche se si soffre ugualmente.
Ma tutto questo venne dopo.

La sera seguente – il giorno era passato inutile parentesi di routine – tornai al Redlight District. Trovai facilmente il luogo fatale. Non c’era.
Vagai un po’ tra la solita folla ambulante, le facce erano identiche a quelle della sera precedente, uniformate dal luogo mercantile, sporco, turistico, proibito solo per predefinizione mentale. Mancava solo lei, la mia visione. Stanco, feci il giro dell’isolato, evitando i “butta dentro” del real fucking e ritornai in postazione. Dall’altro lato del vicolo rispetto al porno shop c’era una donna magra, giovane di certo eppure stranamente come vecchia. Sembrava tremare lievemente, era non perfettamente stabile sulle gambe. Fumava con velocità, la sigaretta aveva un braciere vivo e lungo. Ogni tanto scambiava qualche parola con un passante, uno la urtò. Lo scossone le alzò il braccio e (nel frattempo mi ero fatto più vicino) ne rivelò vene martoriate. Osservai allora anche l’altro braccio mentre l’alzava per portarlo alla bocca: mostrò anch’esso la medesima sconfitta.
“Ecco, una fatta: dunque Amsterdam non è solo hashish”, pensai.
Uno dei commessi del porno shop si era affacciato sulla porta dell’esercizio. Temetti – chissà poi perché, in quell’ambiente – che potesse riconoscermi dalla sera prima. Chiamò invece la donna. Si voltò. Era lei!
Il viso era angelico, avrà avuto la mia età o poco più. Dio, quant’era bella. Bella, bella, bella. In viso. Il corpo era mortificato dalla droga, le ossa le spuntavano fuori dai jeans consumati, sussultava mentre incedeva trascinando le gambe. Questa icona appoggiata su un sostegno instabile stava per passarmi accanto. Improvvisamente, i suoi occhi arpionarono la mia persona, setacciandola con avidità per scoprire cosa potesse ricavarne, quale fosse la chiave che poteva usare perché io le fruttassi qualche soldo. In una frazione di secondo, esaminò diverse possibilità, dal chiedermi qualche spicciolo al vendermi il suo corpo.
Corpo che solo poco tempo prima doveva essere pari, quanto a bellezza, al volto stupendo che lo impreziosiva comunque: e se appariva stupendo adesso, figurarsi quando lei non si era ancora lasciata divorare. Mi scrutò nel profondo, dunque: io ebbi il voltastomaco. Vedere tanta bellezza degradata allo schifo mi fece star male.
Eppure, in quegli occhi c’era ancora una luce, ma era come il sole che vidi dietro le nuvole sull’Afsluitdijk: freddo in pieno agosto. Tutta lei era come quella lunga diga, cesura tra il mare aperto e il più basso chiuso stagno in corso di prosciugamento.
Fu forse in quell’attimo precipite che fiutai per la prima volta il puzzo di vomito di Leidsplein.
Amsterdam, Amsterdam. Ne ripetevo il nome, mentre scappavo verso il campeggio. Cominciavo a vedere le cose non più in visuali obbligate.

“Dans le port d’Amsterdam
Y a des marins qui chantent

Les rêves qui les hantent
Au large d’Amsterdam

...

Dans le port d'Amsterdam
Y a des marins qui boivent
Et qui boivent et reboivent
Et qui reboivent encore
Ils boivent à la santé
Des putains d'Amsterdam
De Hambourg ou d'ailleurs
Enfin ils boivent aux dames
Qui leur donnent leur joli corps
Qui leur donnent leur vertu
Pour une pièce en or
Et quand ils ont bien bu
Se plantent le nez au ciel
Se mouchent dans les étoiles
Et ils pissent comme je pleure

Sur les femmes infidèles
Dans le port d’Amsterdam
Dans le port d’Amsterdam”

[Jacques Brel, “Amsterdam”, 1964]