Ricordi di viaggi di un italiano nascosto

di Enrico Proietti



silenzi@live.it

I racconti sono qui sotto, in ordine inverso a quello di pubblicazione.

Blog

Schiaccianoci

05.03.2015 14:34

"Scusa per prima
tu non hai nessuna colpa
ma non avevo voglia
di parlare con nessuno.
Domani è un altro giorno?”

[sms, 2000]

 

Ma il viaggio più bello è quello che non ho ancora fatto con te, piccola mamma nascosta sotto la corazza del tempo. Piccola di più ogni volta che ti senti forte e grande.
Forse lo faremo quando sarò riuscito a penetrarla, codesta tua armatura di paura. Anche delle parole hai paura: per questo uso ‘codesta’, perché spero ti faccia male e che poi tu venga a piangere il dolore sulla mia spalla, abbandonandoti alle mie partenze continue. Viaggeremo insieme; e sarà bello. Sì, piccola grande mamma, niente di più che bello. Ti par poco?
Voglio portarti a visitare i confini della fantasia, darti quello di cui oggi ti privi e fingi di non desiderare nemmeno. Però le punture di dolore che provano i tuoi occhi mentre li distogli da me ti tradiscono, piccola mamma dei tuoi figli. Voglio conoscerti sempre meglio, come il viaggio sa rendere possibile; rischiare di non desiderarti più, salvo poi lasciare che il tuo sguardo d’abbandono liberi nuova brama di te.
Andare con te di meta in meta, senza lacci che ci incavezzino. Come purtroppo ora è. Ma dimenticheremo tutto, unici padroni del nostro arbitrio. Ti riscoprirai meravigliosa: capirai che è vero quando te lo dico; quanto lo è.
E forse finalmente pregherai, piccola mamma grande donna incompiuta.
Io lo faccio già, lo immagini, perché si avverino quelle tue parole che ogni tanto ripeti, sia pur mascherandole con lacrime d’ironia: che ci sia una seconda vita. Dove potremmo essere felici insieme. Dove potrei muovermi con te affianco e con la tua bellezza; quella che mostri e quella che riservi. Dove potrei avvicinare la tua pelle alla mia e provare la solita scarica, miracolo che si ripete intatto. Darei complemento alle tue intime aspettative: mi sto disponendo comunque a saperlo fare, piccola mamma di questa vita.
Lo meriti, ne ha bisogno il tuo essere piccola per ogni tenerezza che trattieni: come sei trattenuta tu a questo molo del quotidiano. E fai come se ti piacesse la tranquillità della darsena, ma percepisci che in quell’acqua immota stagna la tua capacità d’amore.
Piccola mamma timorosa, allora io voglio condurti nelle tempeste chiassose dell’oceano, tra i marosi che ti rubano il fiato, a combattere contro terrori reali. Non devi più confrontarti con le insidie di paure banali, implicite a questo sopravvivere ferma.
Voglio farti divenire protagonista di un’avventura di cui tu stessa disegnerai le scene e i luoghi, sapendo che piacerà anche a me. Sarò vicino a te come e quanto vorrai; affronteremo tutte le prove sapendo di vincerle, supereremo qualsiasi frontiera, vagheremo senza destino altro da quello che avremo stabilito per noi stessi.
Ti risveglierai in posti lontani e mi troverai accanto. Da fuori proverranno voci di un mondo diverso dove ti aiuterò a perderti o te ne guiderò fuori al sicuro: come tu vorrai. Come leggerò nel tuo sguardo, prima immagine di ogni nuovo giorno, ultimo specchio prima di ogni notte.
Piccola mamma dagli occhi zittiti, falli parlare. Andiamo via, partiamo, voliamo dove potrò dilatare quegli istanti fugaci di serenità che riesco a donarti già così: farli esplodere negli spazi più incredibili, che misurerai con la tua gioia di vivere senza fine.
Il tempo ci consegnerà ogni mattina sabbia nuova da passare nella clessidra della felicità; e se sarà poca la faremo scorrere lentamente, contando a uno a uno i granelli e affidando a ciascuno un messaggio di vita. Non li tratterremo, no, li soffieremo perché portino le nostre emozioni nei luoghi dove saremo già stati, perché vi permanga il ricordo di noi due, e in quelli che non avremo ancora visitato, affinché ci segnino le strade da percorrere e le rendano degne dei tuoi passi.
E la rena che fluirà attraverso la strozzatura eroderà le tracce postume della tua sofferenza, e della mia, spettatore impotente o costretto sotto il palco dove si recita la tua esistenza. La mia, sai, attende che tu, proprio tu, le riscriva il copione. Non potrà essere che magnifico.
Così finalmente ti capirò, potrò capirti: mi darai tu ragione di farlo. Tu che imparerai a partire senza aver niente da mettere a posto, bastandoti te stessa, la tua volontà di scoprire: pensando alla gioia del passo da compiere e non all’angoscia per un terreno sconosciuto. Nulla infatti ci procurerà infelicità, quando faremo questo viaggio insieme. Io e te, piccola mamma privata dello spazio e del tempo.
Riacquistali; e parti con me.


Io ero cane – montagna: forse sto divenendo cane – mare; forse. Andrà bene lo stesso?
E tu, cosa fai tu?

Florida

04.03.2015 19:38

Ancora una e sono a sette. Come i gatti! Per fortuna non sono un gatto. Almeno spero.
Parlo delle volte che ho rischiato di morire. Almeno potenzialmente.
Vaghe ma vere, per fortuna ne ho ancora. Almeno una.

La prima fu alla nascita. Tre giorni incastrato. Mia madre non poté avere altri figli e a me è rimasta una discreta fobia dei cunicoli troppo stretti, che mi impedisce la speleologia.
La seconda, non so quanti anni avessi ma pochi, molto pochi. Andavamo al mare e con un amichetto eravamo in un canotto: a quattro, a tre metri dalla riva; quando il fratello più grande di questo amichetto annunciò, tronfio delle capacità appena acquisite, che sarebbe passato in immersione sotto il canotto, ebbi un presentimento. Infatti, riemerse esattamente sotto al canotto, ribaltandolo con i suoi occupanti. Affogai. Ricordo i baluginii dell’acqua mentre scendevo giù e toccavo il fondo. Bevvi. Poi… l’acqua sarà stata alta sessanta centimetri, e il primo adulto che era nei dintorni mi afferrò e mi tirò fuori. Sarò stato sotto due secondi? Magari anche tre. Però, insomma, lo spavento lo presi.
Quindi, passati gli anni dell’immortalità, quelli intorno agli otto in cui si pensa di essere diversi dal resto dell’umanità, ne avrò avuti dodici, presi il motorino di nascosto. Ero a Roma, in via Baldo degli Ubaldi, in discesa. Non sapevo dove andare, mi accostai sulla destra: a un certo punto decisi di tornare indietro, facendo inversione a u. E la feci. Ovviamente sopraggiungeva un pullman. Non mi prese, non successe assolutamente nulla. Ma non mi prese per cinque-dieci centimetri. Se mi avesse preso, non so come sarebbe finita, però non mi prese.
E siamo a tre.
Ancora mare: 1985, Calabria, costa tirrenica, onde grosse. Per mettermi in mostra davanti alla bella, bagno. Non conoscevo quei mari e quelle correnti. Una risacca fortissima, non riuscivo a tornare a riva. Me la vidi brutta. Poi ci riuscii. Dopo, uno del posto mi spiegò che lì bisogna aspettare la terza onda, far passare le prime due, e la terza porta a riva. Averlo saputo prima!
Analoga fu in Mozambico, a Macaneta. Lì, rischiai quasi l’eroismo, perché mi buttai per salvare un adolescente. Stesso problema della risacca. Non c’era mare grosso, ma la risacca era oceanica, quindi forte, favorita da una qualche conformazione della costa e dei fondali. Questo ragazzetto, quattordicenne, si era un po’ allontanato, una quindicina di metri dalla riva e non sapeva nuotare. Un ragazzo sudafricano ed io ci buttammo, e meno male che eravamo in due. Ci volle uno sforzo enorme per portarlo dove si toccava. Il giovane boer arrivò prima di me, afferrò correttamente il ragazzetto e iniziò a trascinarlo verso riva. Dopo parecchie bracciate, avanzato solo qualche decina di centimetri, letteralmente me lo tirò, esausto. Mi arrivò addosso, fortunatamente guadagnando una metrata grazie all’impulso del lancio. Ma io lo presi male, anzi fu lui che prese me e per la paura, fatalmente, mi si aggrappò trascinandomi sotto. Alla fine ce la facemmo, ma uscendo avvertii un dolore in mezzo al petto molto forte. Chissà, rischiai?
La sesta, fu in Florida.

Tampa era stato un dedalo di incroci. Eravamo finiti in un quartiere povero. A prima vista sembrava quasi carino, con quelle casette di legno e il verde di prammatica davanti. Ma a guardare meglio, si capiva che non erano villette, piuttosto baracche ben fatte a imitazione delle villette. Il verde era ingrigito, nel ricordo lo vedo come unto di idrocarburi oppure malato di tumori che lo consumavano. Qualche anziano nero con evidenti segni di malattie non curate o anche di alcolismo sedeva nelle verande e scrutava con sospetto. Qualcun altro meno anziano osava farsi verso la strada con fare di domanda e pronto alla sfida. Intorno, il nulla: nel senso di un nulla di sentimento umano. I neri non facevano nulla e questo nulla incuteva timore. Un’incalzante sera invernale, e a Tampa col sole sembrava più inverno che a Key West con la pioggia, impediva tramonti romantici. Via, mostrando decisione, non importa la direzione. Finalmente riapparvero i segnali della Interstate 75, e ancora con la luce ci incamminammo in direzione sud. Di nuovo in cerca della Florida dei telefilm. Che però non c’era.
Il nuovo millennio ha regalato un’ennesima stagione di fama a Miami. Coatte arricchite di casa nostra ci “fanno un salto” appena possono. Ex calciatori e ignorantoni fuor di stereotipo vi hanno investito nell’immobiliare. In base al mio ricordo, mi sono fatto l’idea, tutta da verificare beninteso, che tanta fortuna derivi da una larga circolazione di cocaina a buon mercato. Oppure ho visto senza prenderne le distanze Miami Vice. Sì, però quando l’ho vista io, Miami Vice già c’era e lo stesso la città era tanto decantata quanto mi si rivelò deludente.
Già sull’aereo, in luogo di avvenenti bellezze, c’era un pienone di vecchi. Imparai all’istante che gli anziani americani si trasferiscono a passare la loro vecchiaia negli Stati più caldi e tra questi forse proprio la Florida vanta il primato. Ci mancava la presentazione delle pentole, poi sembrava davvero una di quelle gite in pullman al santuario, partenza alle 6:45 dal piazzale della stazione, visita alle reliquie e al convento, pranzo in ristorante tipico e al ritorno dimostrazione delle padelle antiaderenti. Simpatico omaggio a tutti i partecipanti.
Quando in auto si va da Miami alla Beach, c’è un ponte di tipo autostradale a una grande arcata. Imboccandolo, la vista è nascosta dalla salita, poi arrivati al culmine si apre lo sguardo sulla laguna e sulla corona di alberghi di Miami Beach che a quel punto si stendono ai piedi. Uno spettacolo che colpisce. Tanto da tornare indietro e ripeterlo.
Poi, però, arrivati sul lungomare dal quale il mare non si vede perché coperto da quella quinta di alberghi, superato lo stupore iniziale per qualche murale trompe-l’-œil e qualche macchina sportiva, la percezione cambia.
Forse mi istradò male il nome dell’albergo, Marc O’Polo, ma ben presto tutto mi parve posticcio, come la mozzarella sulla pizza.

Questa è una breve storia che merita un inciso. A Fort Lauderdale, Guido, un romano che aveva sposato un americana, aveva aperto la pizzeria “Solo Pizza”. Perché “Solo” e non “Only” o “Just”? Perché le ultime quattro cifre del numero di telefono, successive a quelle, ricordabili facilmente, di una specie di numero verde che infatti si aggirava sull’800, erano 7656. Ma, pare, gli Americani sono abituati a ricordare i telefoni con le lettere già da prima dell’invenzione degli sms, com’era al tempo del mio soggiorno in Florida. E dunque, ecco la scusa per un ulteriore omaggio all’italianità. O forse l’omaggio era al corelliano Han Solo?
Comunque sia, aveva questa pizzeria dove ci lavorava con un marocchino, altra cosa tipicamente italiana. Quando andammo a trovarlo, Roberto ed io, ci decantò l’Ammerica e ci illustrò il suo lavoro. Ma non era uno di quegli oscuri immigrati che abbiamo visto nei filmati Luce, era un bel giovanotto che aveva messo su il suo business dopo una ricerca di mercato. Era andato lì perché dopo aver sposato l’ammericana aveva deciso di seguirla e si stava dando da fare. Se la prendi bene, l’America può essere ancora il Paese dei sogni. Il suo lavorante marocchino si era appena comprato una spider decappottabile rossa che faceva un gran figurone: l’aveva pagata, usata, una cifra molto ragionevole. Un gallone di benzina costava come una bottiglia d’acqua minerale, dunque con una macchina simile potevi davvero fare il ganzo sul lungomare. Aveva gli occhi fiammeggianti. Il marocchino.
Guido era un bravo ragazzo, però un po’ troppo rapidamente fattosi americano. Col suo entusiasmo da neofita dell’etica del guadagno vedeva tutto positivo, ogni cosa bella. Già da italiano, doveva essere di quei fortunati perennemente ottimisti e incuranti dell’impressione di anime semplici che potevano ingenerare. Tra le varie cose che raccontava decantandole, ci fu la cosa della mozzarella.
Ci mostrò tutto contento un secchio di roba bianchiccia. Poteva essere colla vinilica rappresa o sudore di foca del Maine emulsionato. Per come si rapprendeva in piccoli grumi mollicosi ispirava un senso di sintetico.
E infatti: “Questa è mozzarella; cioè, la fanno a Chicago, è industriale.” E la parola ‘industriale’ riempiva la bocca di Guido del sapore della piana del Sele; ossia, del suo preteso ricordo.
“È buona!” magnificò staccandone un pezzo che non si sfilacciò neanche un po’. “Assaggiala”, e mi mise tra i denti quel mega-grumo.
Sorpreso, non potei ritrarmi e dunque mangiai. Non è il caso di descrivere. E Guido, infervorato: “Allora, com’è?”
Che dirgli? Mi sentii Sergio nel negozio del padre di Rossella[1] e come Sergio me la cavai.
“È industriale…”, risposi cercando di copiare il ricordo dei bufali dalle parti di Pæstum.

Il regno del posticcio era a Orlando. Posticcio dichiarato, e per questo forse accettabile. Orlando è Disney World ed Epcot Center ed è anche moltissimi altri parchi tematici, da quelli marini agli Studios Universal. Finte pagode, finte venezie, finti decolli con un astronave, finti terremoti a San Francisco; cibo finto, vergini finte, peccati finti. Ma la cosa più finta di tutte era stata la Root Beer. Nella mia ignoranza e nella ingenuità che i nomi delle cose e dei posti hanno nell’inglese, soprattutto del Nuovo Mondo, per me che una marca o una tipologia di birra si chiamasse “Radice” ci stava tutta. Peccato che stessi dentro il Regno di Disney.
Le cameriere e in generale tutte le inservienti portavano pesanti gonne marroni lunghe fino alle caviglie, nel senso di sotto le caviglie. Non gira alcool nel Regno. Disney è quello che Paperino ha tre paperottoli per casa ma non sono figli, bensì nipoti; e lo stesso è per Paperina. Insomma, qualcuno copula, ma in altre storie. Nel Regno di Disney tutto è, oltre che finto, platonico. Anche l’alcool. Finto e platonico. Perché chiamare beer una delle più cattive bevande gassate che esistano sulla faccia della terra? Perché farla di un colore che vagamente potrebbe essere di una birra? Chi ha copulato al posto di Paperino? Chi si è ubriacato al posto mio? Ma almeno fosse buona: solo la Cherry Coke la trovai peggio, che non riuscii a berla e la sputai.
Il parcheggio di Disney World è talmente sconfinato (tutto a raso, lo spazio non manca nella piattissima Florida) che per arrivare all’ingresso c’era uno di quei trenini su gomma col locomotore tipo trattore e i vagoncini aperti. Su ognuno di questi, un altoparlante diffondeva musica stucchevole e annunciava le fermate nei vari settori del parking. Dopo alcuni minuti, arrivò inequivocabilmente di fronte alle biglietterie e si arrestò. Probabilmente esasperati dalla musichetta, Roberto ed io ci demmo uno sguardo d’intesa mentre ancora frenava e, non appena fermo, balzammo giù. Ci bloccammo, forse rimanendo sospesi nelle rispettive pose assunte dopo il salto, nell’accorgerci che nessuno degli Americani si era mosso. Proprio mentre cominciavamo a pensare di dover risalire, dagli altoparlanti giunse l’annuncio: “Siamo arrivati, potete scendere”. Fummo sommersi da una marea di ciccioni mangianti, di nonni e nonne con le brache corte e i caps in testa, di ipertrofici fisici dall’insano ottimismo, di inevitabili asiatici meravigliati come per un dovere di educazione. Da primi che eravamo diventammo gli ultimi.

E così, eravamo sulla Interstate 75 e il crepuscolo iniziava. La strada era divisa praticamente in tre carreggiate. Le due esterne, a doppia corsia, per i rispettivi sensi di marcia e quella centrale, di eguale ampiezza, era invece in erba, con una leggera concavità al centro. Pochissime autovetture in entrambi i sensi di marcia. Pochissime, nel senso che si potevano percorrere anche cinque miglia senza affiancare nessun’altra macchina.
C’è forse un ancestrale impulso a rientrare nella caverna prima del buio che spinge ad accelerare per arrivare a destinazione ancora con almeno un po’ di chiarore sopra la testa. O magari è quel cocktail tra prime tenebre (illusione di non esser visto) e visibilità ancora discreta (pretesa di sicurezza) a far aumentare la velocità. Oppure si corre per non pensare alla metafora della morte del giorno. Fatto sta che in quell’ora che volgeva il desio si navigava ben oltre l’iniquo limite delle 55 mph.
Acquattata come un animale da preda sul fondo della corsia erbosa, non vedemmo la pattuglia della polizia armata di radar. Dopo un po’, ce la ritrovammo dietro il culo con la sirena ululante e i lampeggianti blu e rossi eclatanti e tuttavia sornioni. Tramite un altoparlante incorporato nelle dotazioni esterne dell’auto, ci intimarono qualcosa difficile da capire in quella voce gracchiante; ma altro non poteva essere che di accostare. Fermammo con due ruote sull’erba a destra dell’asfalto.
Fu lì che mi giocai la sesta.
Dei due, ero quello che parlava meno peggio l’inglese e già avevo capito solo lo spirito dell’intimazione, ma non la lettera. Temendo che i due agenti avrebbero continuato i gargarismi nell’altoparlante e quindi di irritarli da subito per non capire cosa avrebbero detto, ebbi l’idea meravigliosa. Aprii la portiera, iniziai a scendere e urlai: “I don’t speak English!”. Avevo appena messo il primo piede a terra quando i due poliziotti in divisa grigia estrassero le loro pistole, si ripararono concitati e molto tesi dietro le portiere spalancate della loro auto e me le puntarono contro nervosissime. In un flash mi scorsero tutti i film che ci avevano sempre fatto vedere, rilessi mille articoli di giornale, non rividi gli infiniti video di YouTube semplicemente perché YouTube non l’avevano ancora inventato, sentii le pallottole fischiarmi incontro cercando di prevedere quale esito avrebbe avuto il piombo all’entrare nelle mie carni. Bè, per fortuna quest’ultima cosa fu solo parto della mia paura: i due cops si fermarono un attimo prima di premere i grilletti. Rientrai in macchina.
Stavo ormai dentro l’abitacolo e ancora mi aspettavo di sentire un colpo arrivare, spaccare il cristallo del lunotto, attraversare il poggiatesta e conficcarmisi nella nuca. Reso animale dalla paura, sentii la loro tensione scendere solo quando uscirono da dietro le portiere e vennero avvicinandosi alla nostra macchina.
Credo che mi salvò l’essere uscito con le mani ben in vista, in un istintivo segno di resa. La resa era di fronte al loro inglese, per fortuna essi dovettero valutarla come un messaggio di non belligeranza e ciò li fece riflettere quel tantino che bastò a non spararmi.
Ero a sei.

Ripresi dallo spavento, fatto il mea culpa, tornammo quel che eravamo e fummo abili a virare la storia da possibile tragedia a farsa. I due in divisa grigia con una banda gialla lungo i pantaloni erano il Sergente Lee e l’Agente Ramirez. Immediatamente, puntammo sul latino. Non sulla lingua, ovviamente, ma sull’agente dal cognome chicano. Non ci costò nessuna fatica attaccare discorso. Più o meno aveva la nostra età. Neanche Lee era molto più grande, però il taglio nazista dei biondi capelli, il cappello di foggia coloniale, ma grigio come la divisa, incorporato sulla calotta cranica a nascondergli le corna e lo sguardo duro di chi si spaventa a ragionare lo facevano apparire più maturo, anzi quasi marcito. Ramirez per prima cosa si tolse il cappello, che non c’era più un solo raggio di sole dal quale difendersi. Aveva fatto il militare in Marina ed era stato a Gaeta!
Fu la sua fine.
“Gaeta? Ma allora conosci Davide!”.
Ci seguì: “Davide chi?”
Non ci parve vero. “Davide, quello che ha la sorella bbona…” Probabilmente nel simil-inglese mischiato di simil-spagnolo e di italiano da film di mafia ci scappò proprio la parola in romanesco. I gesti furono più efficaci di ogni tentativo linguistico.
Ramirez si allargò in un bel sorriso e rifece i gesti descrittivi, annuendo. Intanto il Sergente Lee scriveva, sempre col cappello a ottundergli il cervello.
“Ah, sì, dici di sì: ma allora sei andato con la sorella di Davide”. La nostra voce si era fatta risentita. “Davide è nostro amico.”
L’Agente Ramirez, anzi, il Marinaio Ramirez qualche uscita con una donna, a Gaeta, doveva averla fatta. Stette al gioco e avrebbe potuto essere l’inizio di un’amicizia. Negò, noi insistemmo che forse non s’era comportato da galantuomo, ridemmo tutti insieme.
E poi arrivò Lee. Ramirez ci parlò un attimo, la faccia del sergente era schifata di tutta quella amicizia latina. Tirò fuori la multa, un fisso più un tanto per ogni miglio sopra al limite.
Pay your fine at Seven Eleven!”, abbaiò Lee. Dovevamo pagare l’ammenda al 7-11.
Seven Eleven of what?”, chiesi per capire al 711 di quale strada, edificio, uscita autostradale o altra diavoleria americana dovessimo andare per estinguere la sanzione.
Ramirez ci spiegò che il Seven Eleven era una catena di supermercati. La multa si pagava alla cassa del supermarket. All’epoca, a queste latitudini, non c’erano tabaccai o ricevitorie dove pagare le multe. Cassa comunale o bollettino postale, e stop. Probabilmente tale constatazione ci fece sorridere un po’. Lee dovette interpretarlo come il sorriso beffardo di due latini già nella culla del pensiero che mai e poi mai pagheranno una multa allo Stato della Florida, dovendo rientrare in Italia dopo poche settimane. Quindi s’inventò la minaccia. Ci ammonì che se non avessimo pagato, al momento di presentare il passaporto in dogana ci sarebbe stato sequestrato.
Volevo fargli “buu” quando Ramirez ci disse, col fare da vecchio amico saggio, che se invece che in Florida fossimo stati in Alabama, saremmo stati arrestati. Gli occhi del Sergente Lee rimpiansero di non trovarsi nello Stato confinante.

Prima che trovasse una scusa, ripartimmo incazzati, chiusi in un mutismo che il buio sopraggiunto non aiutò a sciogliere. Nemmeno le basse e monotone cortine di verde che ininterrottamente chiudevano la vista ai lati dell’autostrada predisponevano al buonumore. Tanto meno la solitudine e l’obbligo delle 55 mph. Provammo ad accendere la radio, ma la lingua del Sergente Lee la odiavamo. Spegnemmo. Altre decine di miglia. Ci avvicinavamo alle Everglades sempre neri. Poi Roberto portò la mano all’autoradio, accompagnando il gesto con una parolaccia. Ne uscirono degli accordi rotondi.
Háblame de ti bella señora,
háblame de ti y de lo que sientes
háblame de ti de tus silencios,
háblame de ti de tus amantes,
si de tus amantes.

háblame de ti bella señora,
de tu más secreto, de tu noche oscura...[2]
Quella canzone suggellava il patto latino tra la lingua di Ramirez e l’Italia. Ridemmo, e nella notte oscura intuimmo sereno il cielo sopra la Florida.



[1] Riferimento a una famosa scena del film “Borotalco”, di Carlo Verdone (1982): https://www.youtube.com/watch?v=JiF44RVoekA.

[2] Si tratta di “Bella señora”, dall’album “Vida” (1980), canta da Emmanuel (www.youtube.com/watch?v=FWrXDxNFykU); versione in lingua castigliana di “Bella signora”, cantata da Gianni Morandi (“Varietà”, 1989), scritta da Lucio Dalla e Mauro Malavasi (www.youtube.com/watch?v=Bfn5nzBdJwQ). La canzone in Italia è popolarmente ricordata nella discografia di Dalla, che l’ha spesso cantata insieme all’amico Morandi (https://vimeo.com/103508406)

 

Johannesburg

04.07.2014 23:10

Finora non ho mai perso un aereo. Ma ci sono andato vicino. A Gatwick mi salvò uno sciopero dei pompieri di Fiumicino, e gli altoparlanti lo rimarcavano, che la causa della partenza ritardata fosse italiana; a Papeete non fu colpa mia e comunque qualcosa, tipo un guasto dell’aereo, ci fece salire tra le maledizioni di chi era a bordo da ore.
A Johannesburg mi salvai da solo, appena in tempo, dopo che fino a un attimo prima che chiudessero il gate stavo facendo la fila a quello accanto. Stessa compagnia, dunque stessa sigla: e numero di volo anagrammato, ma con prima cifra uguale! Il tutto in un camerone confuso ingombro di viaggiatori vocianti e assembrati in un modo che da casuale si faceva più ordinato solo al di là di una muraglia di armadi biondi con la pelle eritematosa. Il sospetto mi venne osservando le attitudini dei rispettivi passeggeri in attesa dell’imbarco, mi tolsi finalmente le croste dagli occhi e con quattro balzi mi presentai al cancello giusto per Parigi, via Francoforte. Dentro al worm non c’era più neppure il minimo assembramento. Le hostess ebbero occhi materni, gli steward di rimprovero.
Una ragione per la mia disattenzione però c’era.
Avevo lasciato gli occhi su un tamburo formidabile. L’intenzione non era di suonarlo, essendovi negato, ma di usarlo come comodino. Come comodino. Allora? E non si può utilizzare da comodino un tamburo? Un bel tamburo con la pelle morbida ma ben tesa, il cuoio caldo, dai bei toni di colore e non troppi fronzoli fintamente tribali? Bè, comunque a vincere fu lo scrupolo di pagarlo un prezzo turistico, intuendo, anzi sapendo, che la paga di chi l’aveva costruito aveva i parametri africani. O cinesi, chissà. E poi la difficoltà d’imbarcarlo, avendo già passato il check-in. Che avrei dovuto fare, uscire di nuovo (e come?), ripresentarmi al banco? Magari avrei dovuto anche pagare un extra. OK, niente tamburo. Per il comodino ho comunque risolto.
Tuttavia non era questa la ragione che aveva causato la disattenzione. Diciamo che ne era stato l’antefatto.

Lo Johannesburg International Airport, sigla JNB, sta nella città di Kempton Park ma non ne porta il nome. Quella volta lì, non aveva nemmeno ancora preso il nome di Oliver Tambo, dopo che il governo aveva deciso di non intitolare gli aeroporti a politici e prima che cambiasse idea. Forse tutto è servito a togliere i nomi degli esponenti del regime razzista e sostituirli, dopo un debito lasso di tempo che non urtasse troppe sensibilità residue, con quelli dell’ANC, di cui Tambo fu presidente dall’esilio di Lusaka. Così ora il suo nome è dato all’aeroporto che fino al 1994 recava quello di Jan Smuts, antico primo ministro, un tipo davvero strano e ambivalente: eroe per i coloni olandesi nella guerra anglo-boera e per gli inglesi nella prima mondiale, estensore dello statuto della Società delle Nazioni nonché fautore della nascita dell’ONU e teorico della segregazione razziale. Non tutti riuscirebbero. Forse qualche politico del nostro Paese.
Questo aeroporto che in quel momento non aveva un nome, dopo la fine dell’apartheid ha notevolmente intensificato il movimento viaggiatori e si è dato molto da fare per apparire moderno, democratico, paritario. Così, quella sera già pullulava di esercizi commerciali di ogni tipo e, a pochi metri dal negozio di prodotti tradizionali dove i miei occhi restavano incollati al tamburo, c’era un bel pub british-style.
Se dico che era una specie di chiosco in mezzo a un crocevia di corridoi suona assai riduttivo. Diciamo che si collocava all’interno di uno snodo tra ampi corridoi, in una posizione strategica. E in realtà aveva dimensioni abbastanza grandi e serviva una discreta varietà di birre così come piatti da mangiare che si sceglievano, ahi ahi, da una carta delle ordinazioni tipo fast-food dove ad ognuno corrispondeva un codice numerico. Indice di serialità, difficilmente conciliabile con la qualità. Efficiente, ma snaturato. Nonostante ciò, la discendenza dalle public houses era netta, evidente. I legni scuri abbondavano e sul bancone la corona di spine era tutt’altro che da calvario. Un giovane inserviente dai capelli ordinatamente un po’ lunghi s’aggirava nel mezzo. Biondo d’ordinanza, riceveva le ordinazioni con lo sguardo attento ma sempre, sempre, basso. Un altro tipo, lugubre e pallido, con occhiali dalla montatura un po’ antica, scura, sembrava essere lì più per altri motivi professionali che non per mandare avanti la baracca.
La rinuncia al tamburo mi aveva lasciato, stava proprio per essere il caso di dirlo, l’amaro in bocca e nell’incrociare quell’incrocio di culture birraie lo sguardo incrociò le leve che, abbassandosi, facevano salire i liquidi biondi o ambrati o neri per lasciarli scendere in contenitori vitrei dalle forme diverse, ciascuna adatta al tipo e alla marca. I liquidi luppolati montavano schiumosi con maggiore o minore veemenza dentro detti contenitori i quali, innalzati da braccia perfino eccessivamente vigorose, cadevano poi dentro bocche, gole, esofagi e stomachi avvezzi al loro passaggio. Di fronte a tanta metafora antirazzista, immediatamente si formò nelle mie bocca e gola e nei miei esofago e stomaco il desiderio di cancellare la delusione irrorando le loro mucose, o cosa l’anatomia dica siano, di un fermentato di malto d’orzo.
Nell’immaginare un sapore nella propria bocca, i più lo collocheranno in zona palato. L’accostamento sapore-palato è automatico. Io no. Io, almeno per i liquidi alcolici, lo colloco sopra i denti, nella metà alta del cosiddetto vestibolo, quella profonda cavità a ferro di cavallo compresa tra la superficie mediale delle guance e quella posteriore del labbro superiore, da una parte, e il versante esterno dell’arcata gengivo-dentaria superiore, dall’altra. Lì. Perché, non posso? Vampire inside.
OK, potevo spiegarlo in termini più banali, ma ero reduce dall’aver assistito a dissertazioni odontoiatriche. Provenivo da posti dove un ascesso a un dente può farti perdere un occhio e mantenere la dentatura intatta oltre i sedici anni è un grosso successo: dunque mi sentivo molto immedesimato nell’aspetto medico, e nel suo vocabolario. Tornando a quella sera, avevo infatti rinunciato al tamburo anche per il leggero soffiare della coscienza. Ma una birretta…! Per una birra al volo avevo ancora tempo. Eh! Farla scendere in gola improvvisa e abbondante, quasi ad anestetizzarla, sentirla gorgogliare giù per l’esofago, superare di slancio il cardias ed entrare nello stomaco, costeggiarne le pareti, rotolare sul fondo alzando un’onda che si rifrange su se stessa. Dopo la precisione otoiatrica, mi invento sensazioni gastriche? Io non lo credo, ma se pure fosse?
Cosa prendere, una lager non troppo secca ma ancora dissetante, una ale meno fredda e più pervasiva o magari la mia preferita, una stout pastosa e appagante? Questo, tanto per restare a macro-distinzioni. Prima di avventurarsi a pregustare specialità particolari, bisognava vedere cos’avessero. Certamente, in quell’aria International dell’aeroporto senza nome, non avrei trovato la Umqombothi zulu di sorgo e mais, ma ero curioso di vedere se l’offerta fosse più di tipo anglosassone o di tipo germanico. In realtà era proprio genericamente International, quindi le mie macrocategorie non erano poi così sbagliate.
E dunque, cosa presi?
Non ha importanza.
Ma come, dirà la mia unica lettrice, dopo tutta queste noiose dissertazioni, non ha importanza quel che prendesti?
No, non l’ha, perché del tutto ininfluente. Non lo rammento neppure. Quel che invece ho ben presente in mente sono le fughe che rilucevano sopra il lavandino, riflettendo le luci diffuse e le ombre passeggere di quella parte di terminal, e quelle pastose e ruffiane del pub.
Bicchieri appesi a testa in giù a rastrelliere in tondini cromati, bicchieri del tipo adatto a ognuna delle birre spillate, ognuno di forma diversa e recante il marchio del prodotto cui si abbinava. Gambi corti e gambi lunghi, niente gambi, manici o senza manici, da pinta e da mezza pinta, tante forme atte a far risaltare l’aroma di ciascuna. Fra tutti, uno. Lo notai con l’emozione uguale a quando incroci due pupille parlanti. Era bellissimo, la scritta CASTLE in diagonale compresa tra due doppie righe, di cui una bianca e l’altra, sempre la più interna, dorata, con quella inferiore che si interrompeva al centro per ospitare la dicitura “lager”. A entrambe le due righe superiori, invece, si sovrapponeva lo stemma col castello, non rosso come di solito bensì bianco su sfondo dorato (“d’oro al castello di bianco, merlato” credo si direbbe in araldica). Le scritte bianche ombrate di nero. Un bicchiere da pinta tronco-conico. Un bel pezzo.
Mi ero appena ripreso un po’ da quell’emozione, che ebbi un secondo tuffo. Come se da due perle nocciola fossi passato a due specchi verde-azzurri. Empíto di tutti.
Non so nemmeno descriverlo, un calice col gambo slanciato eppure possente sopra un piede ben proporzionato né troppo largo né troppo stretto, il logo fantastico incorniciato da eleganti ghirigori che davano all’insieme fattezze nobili. E infatti era coronato da un perfetto cerchio dorato che avvolgeva l’orlo, a impreziosirne la bocca. E a invogliarne altre a baciarla, regina dichiarata.
Li volli.
Si dà il caso, in effetti, che collezioni bicchieri da birra. Oh, una piccola raccolta, e nessuno rubato. Una regola che m’imposi da subito, per non cadere nel gorgo della tentazione. Certo, rimane. La tentazione, dico. Resta. Anche lì, all’aeroporto di Jo’burg. “Me lo frego”. Lo pensai. E però li volevo entrambi.

– Due sono troppi. E poi non ho comprato il tamburo anche per scrupoli etici, adesso non posso mica rubarmi due bicchieri da birra; due splendidi, meravigliosi, neanche troppo ingombranti - nel bagaglio a mano entrano! Li riempio uno con la maglia di ricambio, l’altro con gli slip e cosa? Ah, sì i calzini pesanti per l’aereo! - due imperdibili, bellissimi bicchieri da birra. No, non li rubo. Oddio, il biondino è troppo intento a rimettersi i capelli dietro l’orecchio per accorgersene - ecco, di nuovo, e quando lo fa si guarda ancora di più i piedi. Basterebbe un attimo. Controllo facilmente il movimento alle mie spalle. Ma, insomma, no.
Mi si avvicina, come alla chetichella. Cheto le voci delinquenziali e gli chiedo se, che so, sia magari possibile comprare un bicchiere. Forse la mia pessima pronuncia è distantissima da quella boera oppure l’hanno distratto le sue estremità, fatto è che non capisce. La seconda volta, quando capisce, fa una faccia che nemmeno le dita dei suoi piedi intrecciate! Mi scoraggio un po’, ma non demordo e sottolineo la mia intenzione di pagare. Non vorrei avesse capito che lo voglio in regalo. Ma forse non è sintonizzato su “capire”. Mi mitraglia una frase che non comprendo, dunque non rispondo. Anziché incattivirsi, si sente in difetto. Stavolta capisco che mi dice che se ne sta andando. Faccio una faccia da cocker affacciato al finestrino, lasciando intuire che prenderò l’otite… Per la prima volta solleva gli occhi abbastanza perché possa notarne il verde slavato, tendente al giallo melma.
Just wait!”, mi intima e si allontana. Per darmi fiducia, rimiro i vetri onusti di gloria birraia.
Seguo con lo sguardo il biondino sbiadito e lo vedo che confabula col luguberrimo. Il primo indica con lo sguardo una linea sul pavimento che il funereo segue arrivando a me. Sculetta un po’ in giro per la sala, poi mi guarda di sottecchi. Finalmente si decide e viene.
Hi, I’m Name Surname. I’m the restaurant manager. How can I help you?”
Io sorvolo sulla sua richiesta di come potessi aiutarmi e rimango frastornato dal suo essersi definito gestore del ristorante. Non è un ristorante, è un pub! C’è una differenza, c’è! Poi mi ripunto sull’obiettivo, e gli dico che vorrei comprare i bicchieri. Dalla reazione, è chiaro che Sua Slavità non s’era spiegato.
I would buy the glasses.
What glasses?
Li indico. Poi aggiungo che anche uno solo mi basta. Non è vero, però lo vedo troppo spaventato. Lugubre già è, figurarsi lugubre spaventato!
Nell’articolata risposta, le parole “not” e “possible”, sì, ci stanno.
Come spesso fanno le persone che non accettano il dialogo per paura, finge di dover fare mille cose oltre a sculettare avanti e indietro tra i tavoli come un prete stizzoso tra i banchi, cominciando a staccarsi dal bancone e volgendo altrove lo sguardo.
Why not possible?”, chiedo cercando di evitare la polemica. L’ho visto fare agli statunitensi, questo chiedersi retoricamente la ragione di una cosa che la loro personale Costituzione non contempla. “I pay for that”, aggiungo con tono di chi è stato lui a non spiegarsi.
Morticio attacca una lunga disquisizione nel suo inglese che non è il mio, costrettovi dal mio aver invocato la mia Costituzione e alluso alla sua, di commerciante.
Non capisco granché, se non che si mette male. Last chance: il pianto.
Well, you know, I wish them ‘cause me, I collect beer glasses.
You, you collect?
Beer glasses, ya.
Si ravviva. Poco, ma si ravviva. Mi fa segno di aspettare e si allontana. E’ il secondo. Scompare, senza più nemmeno sculettare. Gli ho chiesto di confessarmi, forse l’ho già fatto?

(“Lufthansa, flight LH7342 to Frankfurt boarding now!”)

Ma lui torna. Il viso non è però illuminato.
And so…?” azzardo.
Ratto come un gatto che sgattaiola da un’aiola per catturare un ratto, s’acquatta sotto il sediolo e raccatta un’orribile carta plastificata. Fa’ per parlarmi, poi di scatto si divincola dall’approccio e riparte, come se dovesse controllare un’ultima cosa.
Si ripresenta dopo poco, sempre col menu a prova di schizzi e riattacca un’altra tiritera. Anche stavolta, decifrare la sua lingua forse morta non è facile. Gli faccio ripetere alcune parole più volte, le ripeto io per esserne sicuro, indico “questa” sulla carta delle ordinazioni.
Anyway, I pay”, concludo io la sua dissertazione.
Yes, but…”, e riparte a mostrarmi le portate – non capisco perché – indicando specialmente un’insalata. Parla uniforme, guardandomi da sopra gli occhiali antichi che ha un po’ calato sul naso. Percepisco che sta ripetendomi cose già dette, in attesa della mia comprensione. Che stenta ad arrivare. Dico una frase un po’ a caso.
I just had a beer, I don’t ask any dinner
Qui si stranisce un po’.
Ma riacquista pazienza e mi spiega, finalmente in un inglese aperto, che avrebbe trovato il modo di vendermi i bicchieri, soltanto che è un metodo ellittico, cosa di cui è mortificato, e dunque chiede, anzi ormai implora, la mia approvazione.
‘Sta cosa è vagamente italiana, i canali di ricezione del messaggio si aprono. Anche i suoi occhiali appaiono ora alla moda.
OK, no problem”, dico sorridendo. “What do I have to do?
Da scocciato si fa costernato.
Niente, devo fare, solo essere così gentile da accettare questa sua proposta ai limiti dell’illegale.
Because we need to issue a receipt for each payment” ma nel computer della cassa non è prevista la voce “beer glasses”. Così lui ha pensato che potrebbe far finta di avermi venduta quella famosa insalata che indicava, la cosa più congrua come prezzo per i due bicchieri fra quelle presenti sulla carta. Però è imbarazzatissimo dall’aver escogitato questo sotterfugio – dovrà andare a confessarsi almeno dal vescovo – e spera nella mia benevolenza. Interessata, d’altro canto.
Prima che continui e si inginocchi, gli allungo l’equivalente di 19 dollari (cara, l’insalata, e cari i bicchieri, ma chissenimporta) e gli urlo: “It’s OK, thank you!”.
E’ combattuto tra il condannare tanta mia esultanza e il gioire per aver esaudito la richiesta mia. Di peccatore, ma collezionista! –

E così, i bicchieri erano miei! Dentro a uno misi il complicatissimo e obbligatorio scontrino e, avvolti in carta assorbente, li ficcai nella borsa che portavo quale bagaglio a mano, poi mi avviai nel corridoio che conduceva al gate. Che ora fosse, non sapevo. Sentivo la birra tra i denti e un po’ anche dentro i canini (ero forse io la causa dell’aspetto mortifero del manager?), tutto il parodonto godeva del piacere presente e di quelli futuri che sarebbero stati apportati tramite i miei nuovi acquisti.
Improvvisamente mi assalì una stanchezza improvvisa. Il tamburo con la pelle ben tesa, rinunciarvi o no; e quindi tutta la storia dei bicchieri e delle carte plastificate, il biondo smorto e il moro semimorto. Forse m’era insorto un problema a carico degli elettroliti nel corpo, magari un basso livello di potassio o di sodio; oppure un qualche problema metabolico che questa birra senza pasto poteva aver evidenziato. O no, era semplicemente una caduta di tensione dopo uno stress emotivo.

(“Lufthansa, flight LH7342 to Frankfurt. Last call. Passengers are requested to go to the gate for immediately boarding.”)

Così, stancamente, appunto, attraversai lo Johannesburg International Airport, sigla JNB, che sta nella città di Kempton Park ma non ne porta il nome, né ancora aveva preso quello di Oliver Tambo né recava già più quello di Jan Smuts, e mi affacciai dall’alto sul grande camerone ingombro di eritematosi. Mentre mi accinsi a scendere le scale, un nuovo annuncio.
Lufthansa, flight LH7342 to Frankfurt. Please go to the gate for immediately boarding.”. Guardai i tabelloni preoccupato, il visus annebbiato come per ipoglicemia. Vidi il primo gate a destra che recava la scritta del mio volo, LH7432 e mi misi in fila, senza che la miastenia avanzante mi facesse ragionare sul perché ci fosse tanta gente in fila, né leggere la destinazione.
Poi mi salvai.

In cabina, mi sedetti sulla poltroncina in pelle e… Dopo un po’ fracassai il calice della Amstel e col vetro rotto, minacciando prima la hostess e poi il comandante, dirottai l’aereo su Bazaruto, obbligandolo a un ammaraggio nella laguna durante la bassa marea, quando si tinge di smeraldo e topazio. Era la stessa laguna dove una volta, a diverse miglia dalla costa ed altrettante da Benguerra, sono sceso a spingere la barca… Mi svegliai che sorvolavamo la Costa Azzurra.

Gerusalemme

04.05.2014 21:56

Sarà stato alto sui cinque metri. Grigio.
Ci comparve davanti all’improvviso mentre avevamo smarrito la strada per Gerico. Sporco.
Impediva di proseguire con improvvisa tracotanza. Zitto.

Dicono che ci siano due città, ma ne individuai almeno cinque. Tre sono unite e in qualche caso un po’ mischiate, se non mescolate. Una ancora è virtuale, vera quando la consideri. Un’altra è separata da tutto, incredibilmente anche da sua sorella.

La culla delle tre grandi religioni monoteiste è arroccata sullo spartiacque di una catena interna parallela alla costa. A ovest le pinete di aromi mediterranei, le vallette coltivabili, le case in pietra di sapore latino, la terra, i fiori e i frutti. A est il deserto.
Gli arabi stanno a est.

Si arriva, come arrivammo noi, salendo. Respirando: odori reali e arie fittizie, come ce ne riempimmo. Poi non vedendo finché non si vuole vedere ciò che era in sé e aspettava d’esser visto. Come facemmo noi.
Forse già pieni di deserto, oppure solo sporchi di sabbia e di vento.
Certo impropri a quelle strade e quelle mura, avulsi dal mistero e dallo scontato, lontani da ogni recondita mistica così come da tutte le palesi mercificazioni. Con una preparazione minima, distante nel tempo, carichi di raffazzonati concetti mai sviscerati, da soli; con rischi di perdite e perdizioni.
D’altronde già perso, io, nella luce bambina di occhi che piansero.
Così, insanamente inconsapevoli approcciammo la città, le città; immergendoci incoscienti però senza bombole, respirando l’aria vera del posto, con tutti i rischi del caso.
Che è il modo migliore di vivere Gerusalemme.

Se si sta bene. Se non è Rosh haShanà[1] e si ha la febbre. Una febbre stupida, che una coperta troppo corta, efficace metafora delle proprie ambizioni e contraddizioni, ha fatto venire in albergo. Complice lo spiffero sotto la porta.
Allora si scende e si chiede in reception se hanno un’aspirina. E non ce l’hanno. Possono vedere su internet se per ipotesi ci fosse una farmacia aperta, però è Capodanno e in città è tutto chiuso. Proviamo. L’addetto cerca, cerca, poi telefona ma nessuno risponde. Ritelefona e nessuno risponde. Ancora, e ancora niente. Ripete che è tutto chiuso, e pare dispiacersi della rabbia che provoca. Poi le sopracciglia si ridistendono un secondo appena. Al millesimo squillo qualcuno ha risposto. Dice alcune parole, poi passa il telefono: ci si spieghi direttamente col farmacista. Per fortuna quello parla un inglese non perfetto ma comprensibile. Serve un po’ di paracetamolo e un sedativo della tosse, eventualmente un mucolitico. Ovviamente ce l’ha. Bene, ecco indietro il telefono al receptionist., che parla ancora un poco sottovoce ma assumendo un’espressione di nuovo accigliata, anche vagamente sgomenta. Infine, scrive. Conferma con un cenno e un’occhiata: l’indirizzo. Poi lo passa. È scritto in ebraico e lui si stringe nelle spalle: non sa dove sia, da qualche parte abbastanza fuori città, ma non la conosce; dovrebbe stare vicino a un posto che nomina e che forse al momento venne anche compreso, ma non ha idea di come ci si arrivi. Conviene prendere un taxi e chiedere al conducente, suggerisce.
Fuori dell’hotel i tassisti sono molto più scarsi dei giorni feriali: solo un paio, probabilmente in attesa di qualcuno dei rabbini che la sera prima festeggiarono nel ristorante dell’albergo. Leggono il foglietto ma scuotono la testa, si consultano tra loro e lo ridanno indietro dicendo, o piuttosto biascicando frasi incomprensibili. Non conoscono quell’indirizzo? Lo reputano non conveniente?

Al diavolo! Tutto questo sta succedendo a me, e io ora ho un’idea. O meglio: non ho solo un’idea, ho anche una macchina. Ora la prendo e vado in cerca di una farmacia. Non c’è solo la macchina nella mia idea: c’è anche il ragionamento che Rosh haShanà è una festa ebraica e che dunque gli arabi dovrebbero stare al lavoro. E ci sarà pure una farmacia araba! Ho visto proprio il giorno prima come andare nella città araba, e così lo faccio. Mi incammino con ostentata sicurezza nelle strade dal sapore californiano e scendo nella spaccatura della storia lasciandomi le mura medievali alle spalle. Il paesaggio cambia, i volti pure. Soprattutto gli sguardi.
Pure la conoscenza e l’accento dell’inglese cambiano: in peggio.
Innumerevoli tentativi, quelli dicono cose, indicano, ma seguendo o ritenendo di seguire le indicazioni fornite non arrivo da nessuna parte, non scorgo alcuna farmacia. Tipi panciuti si consultano con tipi ossuti, poi i panciuti mi sorridono e con determinazione mi spiegano di proseguire alcune centinaia di metri e domandare ancora perché la farmacia è là ma devo domandare. Forse sarà su una stradina interna, penso io e mi fido. La cosa più strana è che ora ricordo che l’indicazione definitiva me la diedero in una salumeria. L’ovvia impossibilità della circostanza rende l’idea della febbre che montava. Oppure no, chissà, forse in quel pre-delirio di Capodanno ebraico per me potevano essere arabi cristiani. Ne avevamo conosciuti già. Uno in particolare, un signore attempato dagli occhiali quadrati, lo avevamo conosciuto spiando la vita appena fuori dai percorsi dei gruppi di pellegrini ed era stata una piacevole conversazione; poi ci aveva condotto a un ristorante cristiano prossimo alle sede del Patriarcato cattolico; infine si era offerto di farci da guida per l’indomani. Avevamo disatteso l’appuntamento per perderci da soli e per la febbre sopravvenuta. Cristiano era pure il giovane pingue che ci aveva venduto una memory card a prezzi inenarrabili ma anche spiegato molte cose su come regolarsi da quelle parti. Insomma: arabi con il crocefisso sotto al Golgota ce n’erano. Ma no, non credo che entrai in alcuna salumeria.

Fatto sta che ad un certo punto del mio cercare un signore parla un inglese migliore e mi dice con fare convincente:
“Vedi là dove sta uscendo quell’automobile? Entri lì, sali per la strada a sinistra e dopo 500 metri sulla destra c’è la farmacia.”
Preciso, sicuro, affidabile: vado. Forse mi ricordo anche di ringraziarlo.
Non penso a sparargli. Nemmeno con un colpo finto di una delle mille armi in vendita su ogni bancarella araba d’Israele, copie perfette di quelle che da qualche parte dovevano pure essere in commercio. In mano a tutti i bambini e gli adolescenti arabi d’Israele sembravano armi vere, usate con padronanza e verosimiglianza di contesto. Dovrei?
Seguo le indicazioni, impossibile errare. Imbocco dov’era uscita quella macchina, prendo a sinistra, inizio a salire. Il paesaggio non è né come presso l’albergo né come lungo la Via Crucis. Sembra vagamente un film neorealista nell’Italia del sud dell’immediato dopoguerra rovinata dalla risalita americana. Questa strada in salita, stretta, sfasciata, con un’arlecchinata di asfalti e cementi e buche mi sembra di averla vissuta in televisione, una di quelle pellicole con i ragazzini arruffati, i muli, le case bucate, i visi cotti dal sole e dalla povertà. Pellicole in bianco e nero, anzi con quella dominante giallognola dell’invecchiamento. Qui la stessa dominante la dà la voce del deserto.
È ripida la strada, e s’inerpica tra case lamierate dalle finestre piccole, quando ci sono; senza ordine, un medioevo mediorientale dei nostri giorni. Nostri! I giorni palestinesi non ci appartengono tanto quanto ne abbiamo notizia a ogni telegiornale. All’inizio questo selvaggio paesaggio urbano mantiene una qualche ariosità, che si rarefa salendo oltre. Già: oltre. Oltre i 500 metri predetti dal gentile signore che parlava un inglese migliore. Avrà calcolato male. Al doppio della distanza, sono perduto.
Se si riesce a vivere un dopo, spesso ci si interroga sull’imprevedibilità degli eventi, sugli attimi che cambiano la vita, su quanto improvviso sia il fato. Non fu il mio caso.
Incosciente di aver bisogno di coscienza, ebbi il mio dopo. Tuttavia nulla di quell’avventura fu istantaneo. Avrei avuto modo di accorgermi dei gironi dove stavo gradualmente salendo. Capovolgimento d’immagine e di mondi, in una terra dai dolori che nulla insegnano. Invece andai. La febbre montante? L’idiozia permanente?

Insomma, salgo. Con la mia macchina della Hertz porto il cuore un po’ più in là di quanto avrei pensato prima di stare in questo regno di bilico. Giudea benedetta e maledetta. Non i prati, le dolci colline della Galilea, la terra dove forse la primavera è più verde; calcare fino al Sion, poi la sabbia. Ottimo posto per morire. Salgo credendo ancora di trovare. E trovo, già! La strada è ora davvero stretta, non dà possibilità di manovra per voltarsi e ridiscendere. Voglio fermarmi e cedere, però decido o mi lascio decidere a percorrere quaranta metri ancora. Quanti bastano perché all’interno dei vetri, nell’aria climatizzata di una macchina ebrea, entri la disperazione di un nugolo di bambini palestinesi, appena sedata dalla voglia di gioco. Una trentina di piccoli fedayn apparsi dal nulla circondano l’automobile brandendo pistole e kalashnikov. Il mio arrivo è perfetto per la loro simulazione, è una variabile imprevista che farà rifulgere le tecniche di guerriglia dei più bravi. Sono perfetti. Sembra un film, uno di quelli fatti bene. Solo l’età dei protagonisti è differente. Spero non quelle armi e che siano invece finte entrambe. Ma sì, sono quelle delle bancarelle. Mi auguro. Fatto è che ho due tipetti sui 9-10 anni attaccati alla gialla targa israeliana, cioè ebrea, quattro-cinque tra gli 8 e i 12 per ciascun lato della vettura, altri mille, diecimila, tutto un esercito irregolare mi turbina intorno. Ho paura. Spengo l’aria condizionata. Ufficialmente tutti mi ignorano: quelli appiccicati all’auto, quelli che impazzano in giro, quelli con le armi vere dentro le case. Capisco che una sola partenza sbagliata in salita può fregarmi. Non aspettano altro. Se ne tocco uno, non so se ne esco.
Uno dei più grandi sta ritto un paio di metri davanti. Dev’essere un capo. Di quelli che stanno vincendo. Ero bravino anch’io al gioco della guerra; per come può esserlo un vitaminizzato figlio del boom economico, ma riesco a capire l’andamento della battaglia. E chi comanda.
Avrà dodici anni. I capelli nerissimi e morbidi nonostante l’ambiente. Indossa una maglietta dello stesso colore della pelle. Guarda i movimenti dei suoi verso la mia sinistra ma contemporaneamente sorveglia i miei. Decido che deve vedermi. L’unico modo di uscirne senza danni. So di non dover aprire la portiera, né agitarmi. Se è già un animale, sentirà i miei occhi sui suoi. Mi faccio un po’ in avanti dallo schienale, così da attenuare, per lui, i riflessi del parabrezza. Lo guardo, intensamente. È già un animale.
Ha occhi neri e induriti dalla vita. A dodici anni. Non è un cliché. Le circostanze ti chiamano a giochi che non sempre decidi (io non decidevo di fare il regista). Stavolta il gioco che si è presentato è: decidere la sorte di uno straniero. Lo svolge bene. La durezza e la fierezza del suo sguardo sono notevoli, quasi lo invidio. Non so che intenda comunicargli e tanto meno cosa riceve lui. Apprezzo la palese, quasi ostentata capacità di analizzare ed elaborare a velocità elevatissima. Non mi fa né cenni né espressioni. Solo a un certo punto si volta e grida un ordine ai suoi, ma anche quello ben chiaramente non relativo a me o alla mia situazione. Riprende il gioco precedente. Era quest’altro un po’ troppo rischioso, troppo prematuro? Nel giro di un ritorno della mia schiena a contatto della poltrona il nugolo è scomparso verso il basso.
Torno indietro.

Ma la febbre rimane.
Ora sono anche pieno di adrenalina. O di cosa, chissà! Per fortuna mio padre a quattordici anni mi insegnò a guidare in retromarcia, erano occasioni in cui andava in retromarcia anche il tempo. Ridiscendo cauto la stradina, trovo uno spiazzetto dove nessuno possa rivendicare l’intrusione in proprietà privata, mi giro e senza strappi vado via. Ma dove? Mi viene in mente il cristiano con gli occhiali quadrati. Con lui ci eravamo capiti, vorrà dire che accetteremo la sua guida. Per non esserci fatti vedere, la febbre è pure un’ottima scusa. Nemmeno lo sembra. Devo tornare su e andare alla città vecchia. Lo faccio. Risalgo dalla fenditura della storia verso il sole pieno delle alte colline giudee.
Devo entrare da Jaffa Gate, la Porta di Giaffa, la stessa che abbiamo fatto camminando tranquilli per dieci minuti dall’albergo e subito dopo la quale, buttandosi nei calmi vicoli a sinistra, lui starà come l’altra volta seduto in strada a fumare una sigaretta, la camicia aperta sulla canotta, la croce al collo bene in mostra, a parlare con suoi amici. Dove posteggerò? La circonvallazione alle mura non è esattamente un posto comodo per cercare parcheggio, ma ho fretta e mi sento anche un po’ debole, non ho voglia di camminare a lungo. Troppo preoccupato, mi ficco nel tunnel che passa oltre la porta. Per fortuna dura poco, appena riemergo mi butto a destra e ricorro ancora alla retromarcia, ficcandomi di culo in un minuscolo parcheggio. C’è persino un posto. Jaffa Gate è a pochi passi, tutto sommato. Da pedone, passo ovviamente proprio per l’antica porta e non dal buco automobilistico praticato accanto. Dentro, a una parete rivedo il contenitore metallico, un po’ arrugginito, della mezuzah, la pergamena arrotolata da sinistra a destra che reca scritta a mano dagli scribi la doppia citazione della Torah “E iscriverai queste parole sopra gli stipiti della tua casa e sulle tue Porte”. Di chi saranno queste Porte arabe?
Appena varco questo mistero, all’angolo della prima a sinistra, una inequivocabile freccia invita a superare il Money Exchange ed entrare nella stradina: Jaffa Gate Pharmacy - open daily 9am-8pm. Con lo sguardo speranzoso e disilluso insieme alliscio lo spigolo opposto, più vicino a me, per sbirciare il prima possibile se le serrande sono alzate. Sono quegli attimi dove impari a conoscere il tuo punto di rottura. Non conta la banalità della circostanza. Capisci se sei un bimbo che vorrebbe la mamma a proteggerlo oppure un duro che non si arrende.
È aperta.
Entro, un dottore chiaramente palestinese parla un inglese universitario. Attendo pochi istanti la cliente prima di me, poi lui mi da le medicine, anche consigliandomi. Esco, in quattro minuti ritorno alla macchina, in altri tre arrivo all’hotel. Sette minuti in tutto. Il numero della perfezione. Forse l’internet ebreo è calibrato su un passo più veloce. Ne deve aver calcolati sei, il numero dell’imperfezione. È probabilmente per questo che non gli risultava la Jaffa Gate Pharmacy. Una farmacia araba. A due passi dall’albergo. Avevo girato tutta la mattina e rischiato una brutta avventura. Araba o ebrea?

Davanti all’albergo non c’è nessun tassista. Entro nello Shabbat elevator, l’ascensore dei giorni consacrati dove non devi premere i pulsanti: entri, sali all’ultimo, poi riscendi piano per piano, le porte scorrevoli si aprono e scendi. Non prima di aver dovuto spingere una porta. Contestai vivamente questo fatto. Se pigiare il bottone è lavoro, spingere una porta metallica non lo è? In tutti gli alberghi ci sono anche gli ascensori non shabbat; c’erano anche in quello, però arrivavano solo al 4° piano. Noi eravamo al 7°. Noi che ebrei non siamo. Lo è invece il rabbino che ci incontro dentro. Lo conosco già. Lo detesto. Con il tuo cappello nero e la tua barba imprecisa, non puoi permetterti di fare un pesante complimento a una donna davanti al suo uomo. E pensare di essere spiritoso. Non ti ho trovato spiritoso, rabbino. E ora te lo dimostro. Nonostante la febbre. Pure se sei di Praga. Pure se ci avevi invitato ad ascoltare i canti preliminari al banchetto della sera di Capodanno. Tanto lo so che se non ci fossi stato io saresti stato più contento, invece c’ero. E se non c’ero era lo stesso.
Perché uno, finché può, le donne se le sceglie.
Rabbino di Praga pieno di sé. Forse era già ubriaco, la sera prima. Gli arabi sono i più sfigati. Non solo si perdono anche loro la salsiccia di Monte San Biagio o genericamente il culatello, il jamon serrano o il pâté de tête de porc, ma nemmeno possono o potrebbero gioire d’un Brunello di Montalcino, di una stout irlandese o d’una šljivovica artigianale. Tutte cose, queste seconde, che il barbuto rabbino doveva conoscere adeguatamente ma che non giustificavano la sua tronfiezza e la sua volgarità. Scendi, idiota! E non in senso dostoijevskiano.

Scese.
Mi chiesi quante Gerusalemme avesse visto. Pensai: meno di me. Lui vide di certo la Gerusalemme vecchia e la nuova: ovvero l’antica città di impianto arabo circondata dalle mura e la nuova, ariosa estensione ebraica, due città invero poco comunicanti. Sicuramente sapeva e forse aveva cercato di comprendere anche quella virtuale, cioè quella realtà di sentimenti che è la Gerusalemme dei cristiani, trascurata dagli uffici del turismo israeliani ma prepotentemente viva. Emozionante: a noi aveva addirittura commosso. È probabile che il volgare rabbino di Praga non avesse affatto voluto considerare la città araba, nella cui parte più drammatica invece io mi ero spinto.

La città dell’unione è stata ridotta a città delle divisioni. È un luogo che divide, oggi, Gerusalemme. La basilica del Santo Sepolcro; anch’essa divisa. E nel nome e nel luogo della morte e resurrezione del Figlio dell’Uomo i fratelli cristiani litigano e si percuotono. Un emblema alieno. Icona delle tante Gerusalemme dentro una sola.

E ne mancava a tutti una. Un’altra. Non più visibile. Non araba, bensì degli arabi. Palestinese. Occultata. Lo capimmo smarrendo la strada per Gerico.

Improvvisamente ci si parò davanti. Zitto.
Ci annichilì con la sua assenza di sentimenti. Sporco.
Rimanemmo disorientati per il dolore di quel lungo muro. Grigio


[1] “Tre libri sono aperti davanti a D-o nel giorno di Rosh haShanà: uno per i giusti (Tzaddìkim) completi, uno per i malvagi (Reshaìm) completi e uno per quelli che stanno a metà strada, che non sono, cioè, né totalmente giusti, né totalmente malvagi (Benonìm). I giusti vengono iscritti immediatamente nel libro della vita, mentre i malvagi vengono iscritti immediatamente nel libro della morte. Per coloro, invece, che sono Benonim D-o attende a dare il giudizio fino al giorno di Yom Kippùr e se avranno fatto teshuvà (penitenza) nei giorni che vanno da Rosh haShanà a Yom Kippùr, allora verranno iscritti nel libro della vita; altrimenti verranno iscritti nel libro della morte” (https://www.nostreradici.it/Rosh-haShana.htm#teshuva#teshuva).

 

Praga

18.04.2014 06:11

O Fortuna,
velut luna

statu variabilis,…

Mein Gott, das ist...

…semper crescis
aut decrescis;...  [1]  

Queste sono... Sì, sono le inconfondibili note dei Carmina Burana di Carl Orff, le sempre confuse voci dei canti goliardici medievali musicate negli anni ’30 dal grande Orff, quelle che risuonano magiche nella magica Staromĕstské Námĕstí. Non è possibile. Venire nella città etichettata dal turismo come magica, stemperare le suggestioni nell’inquinata periferia, arrabbiarsi nella stazione pullulante di malviventi e poi banalmente, proprio nel cuore deputato alla seduzione, lasciarsi sopraffare così d’improvviso.

…In Fortune solio
sederam elatus,

prosperitatis vario
flore coronatus;
quicquid enim florui
felix et beatus,
nunc a summo corrui

gloria privatus…[2]

Non si può passeggiare per le vie del Hrad, il Castello, credendo che in quelle botteghe adesso lustrate e pettinate per i turisti davvero gli alchimisti inventassero l’oro. Non si può. No, me stesso tangente, non si può. Sotto, i tram doppi carichi di viaggiatori che stridono per le vie curvilinee riportano alla realtà empirica. Penetrare la fotografia del vecchio cimitero ebraico e immaginare, tra quelle steli esplose e accalcate, che il figlioccio imprevisto di Rabbi Löw, il Golem, vi si aggiri ancora? Lì accanto, memorie calligrafiche, i nomi dei 72.000 figli di Giuda deportati, pazientemente ricamati nell’intonaco, riconducono alla crudezza della storia e non alle leggende.
Il Dottor Faust abitava in una casa squallida, anche la tomba di Kafka è banale; non ci ho messo nessun sassolino e l’unica cosa che si possa ricordare di quel luogo è la keppah (o come diamine si scriva), il copricapo ebraico che all’ingresso t’impongono di indossare. All’esterno, lungo la larga strada che porta fuori città, gli autobus ammorbano con i loro scarichi pestiferi e le Trabant si lanciano in caute corse tra uno scossone e l’altro.
Sì, il centro sembra l’ambientazione di una fiaba, ma non sarà il fondale di un gioco per i bambini, piuttosto che la quinta di uno spettacolo transdimensionale? Già ci sono MacDonald’s, negozi di sport multipiani, qualche potente automobile tedesca, i tram dipinti di pubblicità. Torme di turisti di massa.
Ma c’è anche Týnský chrám, la Chiesa di Santa Maria di Týn, con le sue torri fiabesche, e sotto di esse ora, stasera, risuonano le voci dei Carmina. Allora qualcosa c’è!

...Floret silva nobilis
floribus et foliis.

            Ubi est antiquus
            meus amicus?
            Hinc equitavit,
            eia, quis me amabit?

Floret silva undique,
nah min gesellen ist mir we…
[3]

E no, me stesso andato, che fai?, torni proprio adesso?
Questa musica contemporanea sgorga dalle falde ancestralmente più antiche della nostra cultura occidentale. Proviene dal cuore profondo del pensiero e del sentire europeo e qui, nel cuore quiescente della Mitteleuropa, riaffiora stasera per catturare, inaspettata, un’anima incerta tra viscere e cervello, lesta a sfuggire alla forza centripeta e percorrere vie tangenti centrifughe alla razionalità.
Non è per cadere nel solito equivoco, cioè per usarla come accompagnamento o adito a visioni apocalittiche. Qui, peraltro, giorni finali ci sono già stati: fine rapida di un regime, disfacimento di un sistema ma, con esso, anche di valori; per meglio dire, scoperta che quelli si pensava fossero valori, esistenti ma soffocati dal totalitarismo, in realtà non c’erano proprio. Ecco il trionfo del consumismo, altrettanto totalitario ma in maniera subdola.
Fa male vedere gli sport apparels americani diffondersi a macchia d’olio, i ragazzini cechi comprare a 180 marchi – tedeschi – scarpe di gomma e plastica fatte in Malaysia o Vietnam da ragazzini pagati con una ciotola di riso (e magari fosse retorica); come faceva male vedere primeggiare velociste con la barba e le cosce a quarto di bue. Le Trabant still traballano, ma il nero di Mercedes super-classe si profila incredibilmente frequente sopra pneumatici ribassati.

…Chramer, gip die varwe mir,
die min wengel roete,
damit ich die jungen man
an ir dank der minnenliebe noete,
Seht mich an,
jungen man!

lat mich iu gevallen!…[4]

E sono ora seduto come un qualsiasi turista alla terrazza del café-restaurant davanti al monumento in onore di Jan Hus. Allora non ho invenuto alcuna pietra filosofale, non ho avuto alcuna visione se non quella di un pover’uomo costretto - come in una bettola per turisti di Trastevere - a impersonare il buon soldato Švejk, in una bettola per turisti in Na boÿšti.
Il Castello! Il castello è solo un luogo dove più tickets paghi, più vedi; puoi fare l’abbonamento come a Disneyworld. La finestra della stanza della defenestrazione, antico sport nazionale ripetuto in epoche differenti, non è poi così alta.
Piazza Venceslao è senza santi, stradone in salita malato di vita sbagliata: purtroppo l’unica giusta, quella di Jan, l’altro Jan, è bruciata come un fiore senz’acqua nella serra.
Così ora sono seduto come un qualsiasi turista alla terrazza del café-restaurant davanti al monumento in onore del protestante, e una masnada di ragazzine e ragazzini americani, evidentemente un coro giovanile in trasferta, si è seduta sui bassi gradini ai piedi di Hus ed ha attaccato l’incanto. Sono perfetti, cantano ad occhi chiusi, rapiti dalle intonazioni e dal luogo che non vedono, ma lo risognano a tempo di musica. Ecco Praga: una partitura incompiuta ma precisa, a levare dove te l’attendevi a battere e poi viceversa, dissonante anche però sublime. Questa è la sua magia.
È il suo esistere, è il suo essere calma e gaudente, il suo essere luminosa e segreta, gotica, rinascimentale, barocca, liberty; seducente e squallida, fetida e odorosa. Essere una città tedesca dove s’è deciso di parlare una lingua strana, ma specchiarsi di levante, al centro e a oriente di un mondo che l’ha riscoperta da poco, con le spalle alla Germania.
E ‘sti ragazzini, sia pur americani, devono aver colto la loro magia di Praga e, in questa sera di lungo crepuscolo, hanno sentito di celebrarla con le note evocative di Orff. Note equivocate, note mal adattate, note magiche.
Ma qualcosa c’è, c’è. Un dato che ancora mancava. Qui si va avanti a suggestioni. Si guardano facciate, pietre, ori e smalti davvero come in un parco giochi. Invece questa è una città, nata per vivere. E a Praga la vita ha dato gioie e dolori; al solito.
Tutta la gente vociante la interpreta nella gioia: ne avrà avuta! Io ne ho sentito enormi i dolori: del passato, certificati, e del presente, individuabili tra le pause di una ricchezza troppo veloce, esteriore, non conquistata.
Ma esiste un elemento che stempera la sofferenza: credo che funzionasse anche prima. Birra: pivo. Non tanto quell’eccezionale scura che si beve u Flecku, nel grazioso giardino-birreria floreale, splendido frutto di lettura episodica di guida, quanto i fiumi di pilsen serviti con allegria sulle lunghe tavolate di legno intaccate dall’uso, a fianco di chi capita. Litri e litri di liquido biondo, diuresi eccelsa del corpo e dell’anima.

…In taberna quando sumus
non curamus quid sit humus
sed ad ludum properamus,
cui semper insudamus.
Quid agatur in taberna
Ubi nummus est pincerna,
hoc est opus ut queratur,

si quid loquar, audiatur…[5]

Anime contente e drammatiche hanno i praghesi. Forti, rigorose: e ridenti e melanconiche. Ironiche. È forse proprio l’ironia la chiave per leggere quei pinnacoli fiabeschi, quei colori da fumetto. Poi, come il passaggio dal centro all’ultima periferia, svanisce incompresa: e resta lo strano coraggio di incendiarsi per protesta.
Ecco dolce Praga chi dovrà amarti. Non contro la sua volontà. Suadente Praga, scegli i colori, fa che le tue guance non siano imbellettate da puttana. Moderna Praga, non tradire la tua storia.
Praga, pràh, il tuo nome è soglia: di magia, di libertà.

Fortuna, Imperatrix Mundi, cresci la tua luna su questa Praga

Ma sono seduto ora come un qualsiasi turista alla terrazza del café-restaurant davanti al bronzo al capostipite del pazzo coraggio boemo. Ho molto pensato, ho capito poco.

Mangio
Jan Hus ci guarda
immemori
consumare il presente
restituito
a un popolo
che in silenzio
si è votato
a tragiche eternità
Scrivo
Jan Hus ci guarda
tronfi
appropriarsi delle lacrime
evaporate
a un popolo
che con tenacia
ha resistito
a peggiori follie

(Non ascoltai la Cour d'amours, ma

…Circa mea pectora
multa sunt suspiria

de tua pulchritudine,
que me ledunt misere…”)[6]



[1] O Fortuna
(sei) come la luna
di stato variabile,
sempre cresci
o decresci.

[2] Sul trono della Fortuna
ero solito assidermi,
della prosperità dal variegato
fiore coronato;
nonostante rifiorissi
felice e beato,
ora precipito dalla cima,
della gloria privato.

[3] “Rifiorisce il nobile legno
di fiori e di foglie.

         Dov’è l’antico
         mio amico?
         Se ne partì a cavallo,
         allora, chi mi amerà?

Rifiorisce il nobile legno
ed io mi struggo per il mio amico.

[4] Bottegaio, dammi i colori
per fare rosse le mie guance
così che i giovani uomini possano
amarmi contro la loro volontà.
Guardatemi,
giovani uomini,
lasciate che vi piaccia!

     [5]      Quando nella taverna stiamo
di cosa sia (umile) terra non ci curiamo,
ma al gioco di dedichiamo
per cui sempre noi sudiamo.
Che cosa accade nella taverna,
dov’è coppiere il denaro,
questa da chiedere sarebbe materia,
se qualcuno parlasse, sarebbe ascoltato.

 [6 ] Dentro il mio petto
sono tanti i sospiri
per la tua bellezza,
che miseramente mi feriscono.

 

Catalogna

10.04.2014 06:56

Arrivai con il treno alla stazione di Girona che stava già avanzando la sera. Avevo fornito vaghi riferimenti circa il mio giungere in quella città: con quale treno, a che ora, di quale giorno. Ero pronto ad affrontare i disagi di un viaggiatore che deve raggiungere qualcuno ma non sa dove stia.
In effetti, andavo lì per incontrare un copain che si era stabilito in un paese dell’alta Catalogna per seguire la sua donna. L’aveva conosciuta quasi per merito mio, a Roma. Era una turista solitaria e lui cameratescamente mi disse: “Vai, questa fa per te.”
A me non andava, così replicai: “No, Fulvio, guarda che è per te: è spagnola.” Sapevo della sua propensione per tutto quanto solo puzzasse un po’ di spagnolo e di quanto bene parlasse quella lingua. Seguì un breve “Ma non è spagnola!”, “Ti dico di sì.”, “No.”, “Sì.”, dopo di che si convinse, quasi per scommessa. Era spagnola, parlava benissimo italiano (per cui aveva compreso la nostra conversazione idiota) e dopo poche settimane divenne la sua donna. Tornò a casa sua, ma poi lui la raggiunse e si trovò un lavoro. Ora, dalla Francia dove mi trovavo, li andavo a trovare, raccogliendo il caldo invito che mi avevano rivolto. Però, la mia indeterminatezza...
Fulvio sbucò fuori appena ebbi messi entrambi i piedi sulla pensilina, tutto accaldato, mezzo afono, con i capelli spettinati e le lenti degli occhiali sudate, girandosi a urlare qualcosa a un’addetta della stazione. Era lì da ore, ed essendo però giunto appena in ritardo rispetto all’arrivo del treno che supponeva avrei preso, aveva mobilitato le reali ferrovie spagnole: aveva fatto lanciare un annuncio dagli altoparlanti, poi, convinto che io non lo avrei capito nell’idioma castigliano, aveva ottenuto di poterlo ripetere lui stesso in italiano. Niente. Certo: io avevo optato per un altro orario! Però lui, attese.
Questa premura mi commosse. Ci mettemmo subito in marcia per La Bisbal d’Empordà, la cittadina dove risiedevano, che porta nel suo il nome che diede a tutta la regione la romana Empuries. Le rovine di questa sono una trentina di chilometri a nord, affacciate sul meraviglioso golfo di Roses. Mentre il cielo s’abbuiava, attraversammo piccole conurbazioni, terreni da dove sbucavano fuori villette e ristoranti con parcheggio, frazioni affollate lungo la strada, una campagna deserta e giungemmo a La Bisbal, trovandola tutta illuminata per le feste di mezzo agosto. Per la via, centinaia e centinaia di persone vocianti. Fermi a un semaforo, con i finestrini abbassati, fui sommerso da una discussione fra due famiglie con passeggino che si erano incontrate. Il mio spagnolo, allora più scarso di oggi, non mi avrebbe permesso comunque di capire cosa dicevano: però, almeno un’idea... Invece, per me avrebbero potuto parlare in aramaico, bantu o barese; avrebbe fatto lo stesso. Ma barese, no, in effetti. Il barese ha più schiocchi.
Un diavolo di dialetto. Serbava qualche fonia dello spagnolo ma, ascoltando con un po’ di attenzione, vi coglievo diverse vocali “o” pronunciate “u”. Pensai, con una punta di malessere, d’essere finito veramente in una zona, come dire?, campagnola, provinciale: “burina”, si chiama da noi. “Lo si vvistu?”: con questa affettuosa domanda denominiamo, a Roma, qualche giovanotto dei paesi limitrofi che parla un dialetto di radici diverse (essendo Roma notoriamente un’isola alloglotta, a causa dei molti forestieri, soprattutto toscani, insediativisi al seguito dei vari Papi o conquistatori). Bene, mi pareva d’essere circondato da simpatici “Lo si vvistu?”.
Arrivammo a casa, Assumpció mi fece delle feste parche, stava già preparando la cena: annunciò un gazpacho. Rabbrividii (non riesco a mangiare i pomodori crudi, mi dà la nausea il solo odore). Per fortuna, si trattava di una variante della specialità andalusa e, anziché un cocktail a base di pomodoro, era una sorta di passato di verdure. Buono.
Sebbene fosse già tardi, dopo cena si uscì. Un giretto tra questi paesanotti allegri. Era strano. Quando Fulvio e Assumpció parlavano tra loro, capivo abbastanza, sebbene anche lui fosse molto disinvolto nell’uso della lingua. Le persone che incontravo e che chiacchieravano tra loro mi davano di nuovo l’impressione di parlare swahili. Boh! Ogni tanto incontravamo qualcuno che loro conoscevano e io ero unito ai cenni di saluto che ci venivano indirizzati. Ricambiavo con forzati sorrisi e qualche cenno di capo.
Nei giorni a seguire fui portato, ora da Fulvio o da Assumpció, nei ritagli di tempo di ciascuno, ora da entrambi insieme, a visitare quest’angolo nord-orientale di Spagna.
Mi fecero conoscere uno dei massimi incanti, la Costa Brava, con grande discrezione, fuori delle rotte turistiche. Ora non ricordo i nomi, guardando la carta posso azzardare un Llafranch o una Calella de Palafrugell: mi condussero in una piccola insenatura tra due speroni di roccia popolata di vegetazione aspra ma pasciuta, uniti da una spiaggetta di sabbia grigia dove bagnanti ordinati contendevano l’acqua a qualche barca e windsurf. Resistemmo un po’, ma gli occhi di Assumpció soffocavano e anelavano solitudine. La raggiungemmo poco dopo.
Andammo in una spiaggia più ampia qualche chilometro a sud. Protetta da una scoscesa falesia, che solo quelli del posto sanno dove discendere, di sabbia gialla a grana grossa, inframezzata a distanze regolari da scogli che precipitano in mare dalla scarpata, leggermente girata verso ovest, quanto bastava a noi quella sera per vedere il sole rosso e immaginarlo inabissarsi nell’Atlantico. Eravamo infatti al finire del giorno, soli tra la terra, alta sù in cima, e il mare, aperto a mille colori davanti a noi; come dimenticati tra quotidiano ed eterno. Il sole spalmava languide pennellate, qualche gabbiano volava, l’estate, che già sentiva avvicinarsi la fine, si apprestava a riposarsi qualche ora. Una breve, meditata pausa del tempo.
Rischiò di romperla Fulvio. Mentre assaporavamo questo dolce imbrunire, d’improvviso cominciò a dimenarsi come un ossesso. Aveva visto un polpo tra le rocce più basse, semisommerse, dello scoglio presso il quale io e lui stavamo. Forse quella corta solitudine gli aveva già risvegliato gli istinti primordiali: fatto sta che si armò di una busta bianca che non so dove tenesse, di alcuni ciottoli e iniziò la caccia. Per fortuna, non lo prese. L’acqua si era tinta di tante macchie nere quando, sopraffatto dall’imperizia e dal buio, accettò la sconfitta.
Siccome chiacchierone lo era, passò la serata a dimostrare che non aveva sbagliato tattica. La busta bianca serviva per attirare l’attenzione dell’animale, i ciottoli sia per stanarlo che per accopparlo. Sopportai con felice rassegnazione, datami dalla vittoria del polpo.

La giornata dopo ci impegnò a finire un trasloco. La Bisbal d’Empordà era solo da pochi giorni residenza dei due: prima stavano a Caçà de la Selva, un altro centro distante una ventina di chilometri, più a sud. Però Fulvio, inguaribile romanticone, per condurmici percorse una strada più lunga ma maggiormente panoramica, così che i chilometri divennero quaranta. Passammo attraverso pascoli bruciati dal sole ma anche protetti da numerose querce da sughero. Fulvio mi spiegò come la produzione di sughero fosse una delle principali risorse, come il sughero locale venisse esportato in tutto il mondo, Italia compresa, grazie alle capacità imprenditoriali di quella gente.
Il paesaggio offriva scorci piacevoli, di bellezza aspra e antica. Soprattutto, ampi tratti di strada venivano percorsi senza che l’occhio si posasse su costruzione umana. Questo in Italia è ormai quasi impossibile. Avvertivo uno scollamento tra questa constatazione di scarsa presenza di manufatti e l’organizzazione produttiva che Fulvio ancora decantava.
Rientrati a La Bisbal con un carico di suppellettili, la sera, tutti in macchina: a mangiare fuori. Macinammo ancora chilometri, svolte a destra e poi a sinistra, strade e viottoli, finché arrivammo. In aperta campagna, sotto le stelle pesanti di mezz’agosto, una casa era adibita a ristorante. Entrammo. Rimasi sorpreso: i tavoli erano pochi, molto distanziati tra loro. Che bello! La sala era piuttosto spoglia, eppure non avrei potuto dire che mancasse qualcosa. Era anzi perfettamente bilanciata. L’arredamento era in uno stile rurale di tempi passati, ricco ma sobrio. I tavoli in legno si abbinavano a degli stupendi mobili antichi, anch’essi di un legno magnifico, lucidato, curato: vivo. Un legno che trasudava amore: di chi l’aveva costruito con sapienza e di chi l’aveva usato con rispetto e capacità. Qualche misurata ceramica spezzava efficacemente il colore del legno. Questi arredi sembravano dei monumenti attivi, che le pareti, tinte di un azzurro semplice e raffinato al tempo stesso, collocavano in una dimensione atemporale senza però privarli del proprio contesto. Bei lampadari fornivano una luce umana, né troppo chiassosa né da abat-jour.
Il padrone si fece premura di intrattenerci. Parlava anche lui quel dialetto incomprensibile. Accortosi che non capivo un acca, si sforzò di venirmi incontro. La Francia, evidentemente, mi aveva già permeato: pensò che fossi francese e disse qualche parola in quella lingua. Felice, attaccai subito a parlare, ma Assumpció mi interruppe: “Guarda che ti capisce di più se parli in italiano.”
“Ah! Però, magari basterebbe che lui parlasse spagnolo, io capirei.”
Il padrone, al quale dovevo essere simpatico, volle sapere cos’avevo detto (segno peraltro che l’italiano tanto bene non doveva capirlo) e lo chiese con un guizzo del mento. Assumpció tradusse.
¿Español, señor? ¿Quiere que yo hable "español", señor?
No, bueno, porque intiendo un poco español, yo...”, impapocchiai.
¿Español...? ¿Castellano?
Eh, porque...”
“Io, segnore, hablo mia lingua: català.”
Rivelazione.
Català!
Non ero “in Spagna”: ero in Catalogna. Che non si scrive Cataluña, ma Catalunya, anche se si pronuncia alla stessa maniera. Così, quando l’indomani, dopo la scorpacciata di cinghiale di quella sera, andammo al lago, dove Fulvio doveva fare un lavoro, la cittadina non era Bañolas, bensì Banyoles. E Miró non si chiamava Juan (che si pronuncia qualcosa di simile a un ‘Cuan aspirato): il suo nome era Joan e si diceva qualcosa di simile a Gioan. Catalogna, Comunità Autonoma: ‘capitale’ Barcellona; quattro province, Girona, Lleida, Tarragona e Barcelona. Se tifi Barça odi il Real (Madrid). Credo che i non catalani di Barcellona tifino Español, scritto proprio così, alla castigliana: quasi apposta per indicare che si tratta di una squadra spagnola in terra straniera.
Insomma, nella breve conversazione per ordinare un piatto appresi finalmente quello che una vaga pudicizia dei libri di scuola edulcorava (e che, prima, decenni di franchismo obbligavano - in patria - o cercavano - fuori - di nascondere): cioè che la Spagna avrebbe più problemi dell’Italia, dove pure la questione meridionale è un dramma che, alimentato anche dalla malavita, rallenta fortemente la crescita del Paese. La Spagna ha i Catalani (cui si uniscono quando gli fa comodo quelli della Comunità Valenciana), in misura minora i Galiziani (che si sentono un tantino portoghesi) e, soprattutto, i Baschi: e della violenta dissennatezza di alcuni di questi è superfluo parlare.
Però, i Catalani producono: producono come matti. Hanno fatto dell’efficenza e della produttività i nuovi colori della loro bandiera, sovrapposti alle strisce gialle e rosse del loro vessillo ‘nazionale’. Ecco, questo forse li infastidisce un po’: che i loro colori, anche se disposti diversamente, siano gli stessi dei Castigliani, a testimoniare una parentela malgrado tutto abbastanza stretta.
Ma non sono nemmeno dei positivisti imbevuti di retorica del Progresso. Rispettano la natura, ad esempio. L’industria del sughero è effettivamente, con buona pace dei Sardi, predominante: eppure la zona delle sugheraie, che Fulvio mi aveva guidato a conoscere, sembra un parco nazionale. Al centro di Girona scorre il Ter, poco più di un torrente che cade giù dai Pirenei: dai ponti che lo scavalcano vidi nuotare indisturbate delle carpe gigantesche. La Costa Brava ha suonato gli albergatori italiani per anni, ma ha saputo rispettare le magie di tutte le sue cale (e mi dicono che anche Lloret de Mar, più a sud, sebbene asfissiata dalle torme, non abbia mai raggiunto livelli riminesi o semplicemente ostiensi).
Questa gente vive nell’equilibrio: è simpatica ma non troppo, cioè non fa della simpatia un alibi; sfrutta ma rispetta; vuole proiettarsi nel futuro ma sa di doverci andare con il proprio passato; ha una ‘capitale’ tra le città più dinamiche di questi anni ma si bea di una campagna contenta di se stessa.
E in mezzo a questa campagna, baciata dalle stelle in una notte d’agosto, tutto quanto non capivo prima si era rivelato per incanto, come grazie a un colpo di bacchetta magica, in un ristorante che mi appagava esteticamente e, risalendo, anche eticamente.
È ovvio che la Catalunya non è il Paese dei Sogni: però quanti ristoranti assurdi ho visto nelle campagne italiane.

Se solo la smettessero di agitare la minaccia indipendentista e di riscrivere i libri di storia; se solo volessero ammettere che la loro fortuna è stata data anche dagli immigrati; se solo la finissero di commettere gli stessi errori di cui hanno sofferto!

Amsterdam

01.04.2014 06:53

Avevo una ventina d’anni quando andai, in due sulla moto, ad Amsterdam. Primo viaggio all’estero. Scoprii che della birra, in Italia, non avevamo mai capito nulla: e fu l’inizio di un lungo amore. Scoprii anche tante altre cose, pure di me, e più importanti della birra. Mi accorsi che un solo Paese era troppo poco per me.
Capii che le bellezze della mia amata città, seppure incomparabili, non giustificavano il degrado ambientale e morale in cui versava. E mi era difficile stabilire quale dei due degradi generasse l’altro.
Vidi che il grado di civiltà, in quelle Nazioni che attraversavo (Francia, Belgio, Paesi Bassi: e poi Germania e Svizzera) era più elevato che da noi. Da allora ebbi l’etichetta di esterofilo, che spesso ha intenzione infamante. Ma io credo che occorra confrontarsi con chi è più avanti (chi si ritiene lo sia), non consolarsi guardando chi sta peggio.
Vidi le aree di sosta delle autostrade francesi, la circonvallazione di Parigi (e la sua metro: figurarsi, venivo da Roma!), Champs Elysées perfettamente pulita, i rivoli d’acqua ai lati delle strade che portano via lo sporco; le autostrade belghe, gratuite e perfettamente illuminate, la segnaletica comprensibile; nel prato di un campeggio a 2 minuti dal centro della città, conigli e scoiattoli che nessuno disturbava; le piste ciclabili in Olanda; tante, tante altre cose...

Il primo impatto con Amsterdam fu all’imbrunire. La parte fiamminga del Belgio non aveva avuto il tempo di preparare adeguatamente alla difficoltà di comprensione della lingua neerlandese. Trovare la strada per il campeggio segnato sulla guida non era facile. Per fortuna, già all’epoca in Olanda (sic!: ma Amsterdam è comunque proprio in Olanda) l’inglese era diffusissimo: peccato che lo parlassi malino io! Comunque, riuscivo a disimpegnarmi. Stavo appunto chiedendo informazioni, quando una Fiat Ritmo grigia capitata lì vicino si interessò anch’essa. Guardai, c’era qualcosa di strano: la guida era a destra. Inglesi, un uomo e una donna. Chiesero se effettivamente il loro camping fosse lo stesso. Lo era. Perfetto, insieme ci saremmo orientati meglio. Ripartimmo. Dopo poco, persi di nuovo.
Trovammo un altro tipo cui domandare. Feci capire ai due che avrebbero fatto meglio a parlare loro, visto che erano inglesi e, evidentemente, padroneggiavano la lingua. Mi risposero, sorpresi, che non erano inglesi. Panico.
From Ireland.
Irlandesi! Bè, non erano inglesi, no. Il problema era che sembravano non padroneggiare la lingua degli invasori. Chiedevamo dove fosse ‘sto campeggio, il gentile olandese di turno ci rispondeva, io credevo di capire in un modo (es.: “Superate il ponte, poi girate a destra”), quelli andavano avanti, superavano il ponte e proseguivano dritto. Ora, siccome in inglese è facile confondersi con la parola right, che può significare tanto 'destra' quanto mille altre cose, pensavo fosse colpa mia. Ma non si trovava nulla. Altra richiesta, altre spiegazioni, altro errore. Finalmente mi imposi e, guarda caso, raggiungemmo il camping, di fronte allo Stadio Olimpico.
Tutto è bene quel che finisce bene?
Il pomeriggio successivo, proposero di uscire insieme alla sera. Avendo 2000 chilometri di moto piantati nelle natiche, s’accettò subito, con la prospettiva dei morbidi sedili della FIAT (ci si accontenta).
Giro turistico della periferia di Amsterdam, poi l’idea fulminante. Andare al Redlight District, il quartiere delle prostitute in vetrina. Il mio vecchio parroco d’allora, il caro padre Franco, me l’aveva detto divertito: ad Amsterdam ci si va per tre motivi; diamanti, droga, sesso! (E povero Rijksmuseum, aggiungo io ora...) Era vero. Adesso, esclusi i diamanti perché non avevo soldi, esclusa la droga perché in tutta una vita – prima di stupida paura d’osare, poi di coscienza – avrò fumato sì e no 6-7 canne collettive, rimaneva in effetti il sesso, sul quale a quell’epoca avevo ancora le idee confuse (sostanzialmente non prevedevano la considerazione delle aspettative dell’altra metà: e spero d’esser migliorato). La voglia di immergermi nella peccaminosa ed eccitante atmosfera del Distretto a Luci Rosse c’era.
Ci arrivammo perché alla fine di una peripezia incredibile dove il conducente sulla destra chiedeva, chiedeva e non trovava altro che splendide strade desolate, chissà come giungemmo in Leidsplein, avendo ormai abbandonato il piano iniziale. Lì, dietro un angolo, scorsi un sexy-shop. Non ne avevo mai visto uno, ma la mostra non lasciava possibilità d’errore. Arrossendo per l’emozione entrai, preparandomi a sfoderare il miglior inglese che mi fosse riuscito. Persi la concentrazione perché al bancone c’era uno scuro, ma non troppo. Ma come, in Olanda non erano tutti biondi? Vabbè, comunque chiesi scolasticamente: “Excuse me, can you tell me where is the Redlight District?
Redlight District?” urlò il molucchese (credo).
Vergogna. Rosso paonazzo, confermai. E quello me lo spiegò, ridendo di gusto. Che cavolo si rideva, mica lui faceva il profumiere! Tornai dalla compagnia e annunciai trionfante che sapevo dove fosse il Redlight District. Ci andammo di corsa.
Era in pieno centro, non lontano dalla Centraal-Station. Praticamente, c’erano tutti i turisti presenti in città. Coppie di poliziotti passeggiavano placide tra la folla, famiglie e comitive ridevano tra l’imbarazzato e il divertito, tranne alcuni che assumevano lo sguardo moralista: ecco, questi li detestai immediatamente. Vattene. Dico: se devi passeggiare lungo un canale di Amsterdam, puoi sceglierne altre centinaia. Se venite qui, tu e la tua signora moglie tutta sostenuta, con i gioielli in mostra, e mostrate i vostri volti severi, qui dove è talmente chiaro che merce si venda, è perché siete degli ipocriti pervertiti, che sareste pronti a nefandezze d’ogni genere, anzi, le avrete già commesse. Avrete la cameriera filippina che pagherete da fame in nero, la villa abusiva, evaderete le tasse a tutto spiano, avrete rubato ai vostri familiari l’eredità, lasciando morire vostro padre da solo in un ospizio – il più caro, certo –, il figlio che avete non saprà chi sia il vero padre, altri due li avrete abortiti illegalmente, tu marito possederai tua moglie con una bottiglia; però, Signore mio (già, la domenica a mezzogiorno andate a messa a braccetto, ma allontanate lo zingaro che chiede soldi!), Signore mio, ma come si fa, ma che schifo, ah, ma noi no... Ma andatevene a passeggio lungo Herengracht, anzi, andatevene a Parigi su Champs Elysées (per carità, non altrove!).
Molti di questi signori perbene erano italiani. Non lo capii direttamente, però, bensì grazie ai tipi che stavano davanti ai locali di real fucking e tentavano di convincere la gente a entrare ad assistere a quegli spettacoli (e devo ricambiare verso al mio moralismo e mettere un punto interrogativo: ?) di amplessi su un palco. Avevano un’abilità straordinaria: riconoscevano la nazionalità del turista già a dieci-quindici metri di distanza e gli si rivolgevano nella sua lingua. Fu eccezionale con il nostro gruppetto, dove agli irlandesi parlarono in inglese e a noialtri due, pochi passi dietro, in italiano!
Passeggiammo prima sul lato ovest del canale, poi su quello est. Le famose vetrine erano abbastanza deludenti. Si trattava in realtà di piccoli negozietti per lo più seminterrati, con questo vetro incorniciato in legno sulla strada e accanto la piccola porticina che, scesi pochi gradini, dava accesso alla stanzetta. Le ragazze stavano all’interno, succintamente vestite, com’era immaginabile, intente alle occupazioni più strane: chi sorrideva ai passanti, chi faceva le parole crociate, chi la maglia (sì!), chi parlava con qualche amico che era entrato. Nessuna provocava. Erano in maggioranza bruttine; tantissime non europee, molte asiatiche.
Eravamo un po’ delusi: sorpresi, poi, dell’atmosfera per niente peccaminosa, ma piuttosto da attrazione turistica, da parco dei divertimenti gratuito.
Ritornati verso su, verso la zona della stazione, in un vicolo laterale incontrammo un porno shop. Entrammo tutti quanti. Il negozio non manteneva le promesse, gli scaffali erano pieni per lo più di centinaia di “normali” riviste pornografiche. Niente che non avessi già visto, come qualsiasi ragazzo. L’irlandese, evidentemente, no. Si mise a vederne una, poi ne sfogliò un’altra, quindi un’altra ancora, e ancora, e ancora. Le esaminava con calma, essendosi isolato dalla nostra compagnia e dal mondo intero. Incrociai lo sguardo della moglie: era imbarazzata, ma lo eravamo tutti. Per scansare la tensione, ci fu – in italiano – una battuta, scontata, su cosa l’aspettasse quella notte, alla roscetta.
Di colpo, uscii dal locale, ripiombando nel lento andirivieni del Redlight District. Stavo lì, in mezzo al vicolo, come a fare da spartitraffico, quando improvvisamente, dal nulla, si materializzarono due gemme azzurre luminescenti.
Avevo a venti centimetri dal mio il viso di donna più bello che mi avesse mai emozionato. Come da copione, il cuore iniziò a battere velocemente. Sentii le gote infiammarsi, mi sentivo osservato ma non osavo girarmi verso l’ingresso del porno shop, dove immaginavo la roscetta irlandese che mi puntava. E poi, avevo un’immagine magnifica da ammirare. Una dolcezza rosea incorniciata da morbide ciocche dorate, con al centro un delicato antipasto per la fame d’amore, dritto e leggermente all’insù, ché veniva voglia di morderlo, e poco sotto una fessura rossa turgida che prometteva caldi contatti e dalla quale uscì una voce vellutata, con un fondo eccitantemente roco, che mi chiese: “Come with me?”.
“Vieni con me?” “Sì, amore mio, che vengo con te.” Lo pensai soltanto. Poi il super-ego, vigile censore, dalle nuvole mi ricondusse a quel vicolo del Redlight District con la roscetta irlandese sulla porta del porno shop al cui interno suo marito si stava facendo una cultura. Riuscii a riflettere, abbassando le pulsazioni cardiache, capendo, o piuttosto intuendo, che si trattava di una prostituta e: no, certe cose non si fanno.
Si fanno, eccome! Decisi immediatamente che sarei tornato a cercarla. Adesso, ipocritamente, davanti agli altri, via: ma l’indomani sarei tornato. Intanto l’irlandese aveva appagato la sua fame. Memorizzai fotograficamente il posto. Tornammo alla macchina, con quella al camping.
Quella notte non dormii. Ripensavo estasiato a quel volto magico, che mi si era mostrato come un’apparizione: alquanto profana. Possibile che fosse una puttana? Così dolce? Quelle che conoscevo io, quelle che popolavano la zona di Caracalla o di Tor di Quinto, a Roma, erano povere bagasce volgari, che già allora mi suscitavano soprattutto una gran pena. Questa no. Era giovane, bella, affascinante. Era valsa la pena essermi martoriato il sedere durante 2000 chilometri per venire ad Amsterdam, pensavo con la mia ventina d’anni.
Amsterdam, Amsterdam: me ne ripetevo il nome come se non credessi di esserci arrivato. In fin dei conti, quello era un mio blando surrogato del viaggio di iniziazione. A cosa? A una visuale meno obbligata.

Me la sarei girata, Amsterdam. Avrei incontrato ex hippies italiani mendicare due spiccioli davanti la stazione per potersi comprare un po’ di pakistano nero, avrei visto la coppia di poliziotti a Piazza Dam controllare l’orologio e, constatato che il servizio era finito, aprirsi la camicia, mettersi il cappello alla tranviere, sedersi su uno scalino e rollare una bella canna.
Mi sarei stupito della calma con la quale gli automobilisti ripartivano a semaforo verde (non prima di aver ulteriormente controllato che davvero nessuno venisse né da destra né da sinistra); incuriosito a vedere ragazzi neri che tornavano a casa sui pattini; esaltato nel frequentare una piscina pubblica, il Mirandabad, di eccezionale bellezza ed efficienza; meravigliato ed entusiasmato nel ritrovare le chiavi della moto, lasciate inserite nel quadro per più di sei ore, al chiosco di una venditrice di gelati presso cui indirizzava un cartello scritto in stentato italiano lasciato sulla moto stessa (che era nuova fiammante); divertito e sollecitato dai concerti estemporanei, ma di gran buona qualità, che tutte le sere animavano Leidsplein; sorpreso che sui puntuali autobus l’autista annunciasse nell’altoparlante la fermata successiva (e noi italiani a chiedere, appena saliti, quante fermate mancassero per lo Stadio Olimpico: salvo poi non capire in neerlandese “Olympisch Stadion” e scendere a quella dopo...).
Avrei compreso, insomma, che esistevano standards sociali e civili diversi da quelli cui ero uso. Questo fece nascere in me un malessere che mi sarei portato dentro per sempre: un malessere, però, tutto sommato piacevole, perché è uno sprone a impegnarsi per migliorare. Anche se si soffre ugualmente.
Ma tutto questo venne dopo.

La sera seguente – il giorno era passato inutile parentesi di routine – tornai al Redlight District. Trovai facilmente il luogo fatale. Non c’era.
Vagai un po’ tra la solita folla ambulante, le facce erano identiche a quelle della sera precedente, uniformate dal luogo mercantile, sporco, turistico, proibito solo per predefinizione mentale. Mancava solo lei, la mia visione. Stanco, feci il giro dell’isolato, evitando i “butta dentro” del real fucking e ritornai in postazione. Dall’altro lato del vicolo rispetto al porno shop c’era una donna magra, giovane di certo eppure stranamente come vecchia. Sembrava tremare lievemente, era non perfettamente stabile sulle gambe. Fumava con velocità, la sigaretta aveva un braciere vivo e lungo. Ogni tanto scambiava qualche parola con un passante, uno la urtò. Lo scossone le alzò il braccio e (nel frattempo mi ero fatto più vicino) ne rivelò vene martoriate. Osservai allora anche l’altro braccio mentre l’alzava per portarlo alla bocca: mostrò anch’esso la medesima sconfitta.
“Ecco, una fatta: dunque Amsterdam non è solo hashish”, pensai.
Uno dei commessi del porno shop si era affacciato sulla porta dell’esercizio. Temetti – chissà poi perché, in quell’ambiente – che potesse riconoscermi dalla sera prima. Chiamò invece la donna. Si voltò. Era lei!
Il viso era angelico, avrà avuto la mia età o poco più. Dio, quant’era bella. Bella, bella, bella. In viso. Il corpo era mortificato dalla droga, le ossa le spuntavano fuori dai jeans consumati, sussultava mentre incedeva trascinando le gambe. Questa icona appoggiata su un sostegno instabile stava per passarmi accanto. Improvvisamente, i suoi occhi arpionarono la mia persona, setacciandola con avidità per scoprire cosa potesse ricavarne, quale fosse la chiave che poteva usare perché io le fruttassi qualche soldo. In una frazione di secondo, esaminò diverse possibilità, dal chiedermi qualche spicciolo al vendermi il suo corpo.
Corpo che solo poco tempo prima doveva essere pari, quanto a bellezza, al volto stupendo che lo impreziosiva comunque: e se appariva stupendo adesso, figurarsi quando lei non si era ancora lasciata divorare. Mi scrutò nel profondo, dunque: io ebbi il voltastomaco. Vedere tanta bellezza degradata allo schifo mi fece star male.
Eppure, in quegli occhi c’era ancora una luce, ma era come il sole che vidi dietro le nuvole sull’Afsluitdijk: freddo in pieno agosto. Tutta lei era come quella lunga diga, cesura tra il mare aperto e il più basso chiuso stagno in corso di prosciugamento.
Fu forse in quell’attimo precipite che fiutai per la prima volta il puzzo di vomito di Leidsplein.
Amsterdam, Amsterdam. Ne ripetevo il nome, mentre scappavo verso il campeggio. Cominciavo a vedere le cose non più in visuali obbligate.

“Dans le port d’Amsterdam
Y a des marins qui chantent

Les rêves qui les hantent
Au large d’Amsterdam

...

Dans le port d'Amsterdam
Y a des marins qui boivent
Et qui boivent et reboivent
Et qui reboivent encore
Ils boivent à la santé
Des putains d'Amsterdam
De Hambourg ou d'ailleurs
Enfin ils boivent aux dames
Qui leur donnent leur joli corps
Qui leur donnent leur vertu
Pour une pièce en or
Et quand ils ont bien bu
Se plantent le nez au ciel
Se mouchent dans les étoiles
Et ils pissent comme je pleure

Sur les femmes infidèles
Dans le port d’Amsterdam
Dans le port d’Amsterdam”

[Jacques Brel, “Amsterdam”, 1964]

Mar Morto

23.03.2014 20:23

Questo è il ricordo del non visto. Non fatto, non visitato, non vissuto.

Come se il sale, punto focale e insieme riflessione diffusa del paesaggio, fosse l’insieme della vita tolta e solidificata dallo specchio immenso e perfetto di quell’acqua immota. Lot si era stabilito qui sotto. Quali grani saranno sua moglie?
E se ora ci ripenso, è questo come un voltarsi indietro? Forse sì, perciò i ricordi sono statue inespressive.
Non parla En Gedi, chiusa, preclusa, nascosta nelle sue gole floride, neppure si mostra Masada, alta lassù, chissà dove, chissà quando. Qumran inganna rifrangendo miraggi di un sé che sé non è.
Potente com’è, questo specchio uccide perfino se stesso. Perché non è possibile che siano gli uomini a seccarlo, a prelevare sangue vitale dall’arteria che scorre a nutrirlo. Non gli angeli che salvarono Lot. Semmai dei demoni.

Sono queste orde di russi schiere infernali? Da come involgariscono il misticismo dello specchio, verrebbe da dire di sì. Rubano il sale: lo staccano e lo mettono dentro buste di plastica della spesa. Non ustionano le loro pelli pallide, perché nella depressione si forma uno strato di gas che fa da barriera ai raggi del sole. Non parlano alcuna altra favella che la loro, i cartellini nei negozi recano caratteri cirillici e il personale è composto da russi, ebrei russi credo.
Il caldo è alto e secchissimo. Una cittadina di nulla è stata eretta sulle rive del Mar Morto, composta di soli alberghi e squallidi centri commerciali: ché almeno fossero animati! Tutto è morto sulle sponde del Mar Morto. Morto lui, morti i russi, uccisi dal denaro improvviso, morta l’intelligenza, anche quella della speculazione da reddito. Morta l’allegria, salvo rare eccezioni, fortunatamente inguaribili. Non c’è allegria tra malati di psoriasi, matrone in cerca di giovinezza, lavoratori palestinesi fingenti integrazione. È un turismo sanitario che al massimo sorride, ma a ridere non riesce. Non l’imbrattarsi il corpo di fango nero fa ridere, non leggere il giornale seduti sull’acqua, non l’assurda presenza di un surf ormeggiato a lato di una superficie sulla quale l’alta presenza di sale non lascerà mai nascere un’onda. Nemmeno se di nuovo il Signore facesse piovere lo zolfo e il fuoco della Genesi[1] o le pietre d'argilla indurita della Sura di Hud[2]. Nemmeno se Bibbia e Corano ammettessero la parentela; nemmeno se gli uni e gli altri sulle rive del Giordano si riconoscessero tutti figli di Avraham o Ibrahim, come si vuole. Qui, di fronte a tanto specchio, non si ride.
Talvolta nemmeno si sorride. Come davanti a un buffet di prima colazione all’inglese senza maiale. Perché nonostante sia una situazione comica, la si vive triste. Il prosciutto di tonno, o che pesce mai sia, è triste. È il segno di un popolo che sembra condannato alla tristezza, malgrado le discoteche e le spiagge di Tel Aviv. Gli manca una famiglia, è tornato in una casa che nonostante le convinzioni non era più sua; gli mancano i fratelli. O fratellastri, andrebbero bene ugualmente. Forse addirittura meglio, quando i fratelli hanno denti da squalo e rostri da rapace.

Non ricordo di aver fatto, non di aver visto, non di aver vissuto. Ho eseguito, ho guardato, ho lasciato che il tempo trascorresse, stretto nella valle che in un tempo mitico era fertile pianura. Prima della punizione divina.
Mi sono lasciato vivere. Come se mi avessero costretto davanti a uno schermo a vedere l’imitazione di un luogo turistico. Figure biancheggianti attraversavano in varie direzioni il campo, ma la ripresa era simile a quelle fisse e di bassa qualità delle telecamere di sorveglianza, nessuna minima empatia con quei personaggi mi era possibile. La scenografia mai mutante, cambiavano solo le tonalità di saturazione e talvolta luminosità e contrasto. Ombre e mezzetinte davano periodicamente sull’azzurro e sul blu. Solo, per allegra fortuna, un virus produceva flussi che cercavano e attiravano la mia attenzione.

Non era stato così arrivando, prima di prendere conoscenza di cosa fosse quella recita. Sempre il problema della conoscenza, questione originale di queste terre! Non conosci, e ti illudi di Qumran, ti immagini Masada, ti racconti En Gedi. Poi rimani attonito in un’ora precedente l’imbrunire quando le catene dei monti divengono varianti dal rosa al magenta, dal ciano al turchese e si raddoppiano perfettamente nella simmetria riflessa dallo specchio. Che lascia intendere baluginii felici. Mente. Ma intanto quell’immagine quasi artificiale ti ammalia. Ma già un po’ ti atterrisce, dimostrando l’umana piccolezza di fronte all’onnipotenza. Eppure ti seduce, e ti fa credere, sperare, illudere, che l’immota distesa morta non sia, e che forse sarà il tuo ego sconfinato a riaccenderle verde vita.
Tu credi, tu speri, t’illudi.
Non è così.

Morto, morto è ‘sto cazzo di mare. Come m’era mai venuto in mente che potesse rivivere? Una volta sommersa, la verde pianura non vive più. Morta, morta come ‘sto cazzo di lago. ‘Sto Mar Morto è morto, e da morto uccide l’amore. Questo è. Forse sta troppo in basso. Come l’Inferno. È un luogo senza amore, ‘sto cazzo d’amore di merda.

Perché lo sentivo solo io? Il fetore bituminoso che riempiva l’aria lo avvertivo ovunque, mi colmava le nari e il cervello. Non era forte, in realtà, altrimenti tutti sarebbero scappati. Invece restavano in riva all’Asfaltide. Io mi sentivo vacillare, in quell’atmosfera di depressione filtrata dalle esalazioni.
Tutto era fasullo. Pare esistessero un tempo delle isolette su questo Lago di Sodoma dove vegetavano degli alberi simili a peri selvatici che producevano frutti. O, secondo Paracelso, erano terebinti sui quali la puntura d’un insetto produceva questi pomi che esalavano un odore insopportabile: pomi dall’esterno giallo e dall’interno bianco che in autunno diveniva uguale a cenere. Frutta che assunse a simbolo della gioia che si sfarina non appena la si tocchi. E c’è chi ha pensato che siano le mefitiche esalazioni a renderli come cenere.
    Dell'Asfaltide in seno
    nasce frutto gentile,

    che sotto manto d'or chiude il veleno,
    e mentre in verdi fronde
    fa pompa d'un tesor, la polve asconde:
    tal è il piacer
    del nudo arcier
    di Venere,
    sembra vago al veder, m'al tocco è cenere.[3]
Ebbene, tutto era così fasullo, come i pomi d’Asfaltide. In questo posto non mi sentivo a casa. Non mi succede quasi mai. Mi sono sentito a casa bianco nell’Africa nera o su un treno in Australia. Traversando ponti ad assi di legno come binari per le ruote nel Pantanal o per le strade cosmopolite ma scandinave di Malmö. Qui no.
Volevo fuggirne. Come Lot. Ma per evitare nuove muliebri statue di sale restai. D’altronde, angeli non ebbi. E chi potevano esserli? Non fra quei russi volgari, non tra quegli ebrei olim, non tra quei palestinesi assetati avrei trovato ali. Tanto meno tra le matrone in incognito che ambivano a rientrare in Europa con la pelle rinata, salvo poi praticare una nuova, provvisoria, abusiva, imitazione di aliyah ai prossimi segni sul volto. Ma col cervello immobilizzato e il cuore inaridito. Pomi d’Asfaltide anch’esse.
Restai, dunque. Respirando la cenere mortale di tutti i pomi che si sfaldavano al primo tocco della verità. La verità: che strano che essa resistesse in quella landa fasulla! O era la mia presunzione raddoppiata dall’immagine narcisistica restituita dallo specchio d’acqua?
Bruciato da questo dilemma,
non vidi,
non feci,
non visitai,
vissi appena.



[1] Genesi, 19, 24.

[2] Sura di Hud, 82.

[3]Il Tito”, atto II, scena IX. Melodramma: testi di Nicolò Berengan, musiche di Antonio Cesti. Prima esecuzione: 13 febbraio 1666, Venezia.

 

Lisbona

16.03.2014 17:58

Conservo immagini di emozioni particolarmente intense:
- la luce tra la pioggia sopra le pietre di Stonehenge;
- Manhattan dalla sponda sinistra dell’Hudson in un imbrunire estivo, con le luci già accese sul cielo ancora non scuro decorato di luna;
- la riflessione perfetta delle montagne nello specchio residuo del Mar Morto;
- un tramonto da Santa Monica verso Malibu;
- il jet d’eau a Ginevra, inaspettato, che lenisce i rimpianti di un’ultima sera;
- una abitazione rupestre, o tomba, sulle pareti della gola del Tesoro, a Petra, con la roccia dalle mille stratificazioni di tonalità;
- il mantello verde brillante sulle montagne schizzate di Moorea che va a bagnarsi nell’assoluto azzurro della laguna;
- tutte le gradazioni del violaceo su Kata Tjuta sorgente quasi morganiana all’alba dietro Uluru;
- la prima volta che ho visto le Alpi d’inverno dall’aereo;
- la luna piena sulla baia di Morrumbene da sotto le palme da cocco di Môngué.
(E una virata col Colosseo in fondo all’ala, e San Pietro illuminato dentro l’oblò, e Jolie a mollo nel Loir sotto la fiaba di Chenonceau, e quella chiesa che razionalmente dovrebbe essere Saint-Pierre de Montrouge ma che nel ricordo è molto più gotica, e il panorama a giro dal Mont Saint-Clair, e piazza Unità a Trieste, e il duomo di Monreale…)
…e En-Vau riflessa negli occhi di una donna. La mia.

E poi.

Riatterrando a Lisbona, rivedendo i suoi ponti, i suoi tetti, le sue palazzine tenuamente colorate, provai un sentimento di dolcezza. Come di ritorno a casa. Un sapore nella bocca di cose domestiche. Un po’ come quando durante un viaggio sperimenti gusti diversi. Da quelli standard dei pasti a catena alle particolarità degli angoli del mondo. Poi rientri nel tuo quartiere. L’aria ti fa riassaporare le caramelle del droghiere. Il cornetto della domenica mattina. Fino alla tua molto personale miscela del caffellatte di casa. Con i biscotti, sempre quelli.
Erano forse i pastéis de Belém? Era loro la colpa; no, piuttosto il merito?
E perché nella terra di Saramago i miei pensieri conoscevano frasi corte? Quanto avrei voluto potere e sapere litigare con lui. Senza paure di confronto. E non sulla lunghezza delle frasi.
Ma quale Lisbona amo, qual è mia? Non quella della Baixa, troppo compiaciuta delle sue croste, l’Alfama mi sa troppo di trappola finto non-turistica, il Barrio Alto solo in piccoli scorci, Belém è troppo stretta. La prima periferia non sa di nulla, la più recente è inutilmente pastello, la zona di Expositioes sembra un gioco deserto. Quale Lisbona dunque?
La Avenida da Liberdade è troppo larga, bei negozi ce ne sono ma chissenefrega, sa di morte. Il Centro Comercial das Amoreiras è niente male opprimente e non un gelso dà ombra alla zona che ne reca il nome. Il Parque Eduardo VII è invero stucchevole. Il monumento ai navigatori, lasciar perdere; e se è questo un po’ il simbolo della città…
Ma è proprio questo il segno dell’amore. Non si ama una persona perché ha un bel sedere. Ci può invogliare, ma non ci suscita un senso di eternità. Non la si ama per gli occhi che ha, ma per quello che ci comunicano. Non per le parole che dice, ma perché le dice a noi e dice quelle.
E Lisbona mi ha detto tante parole. Le porto ora incise nell’animo, più aperto dopo di lei.
E poi ci sono la Torre de Belém e altre cose.
Ma soprattutto, c’è il Mosteiro dos Jerónimos.
Uno stato dell’animo. E forse anche dell’anima.
L’esterno è armonioso nel suo stile manuelino, sebbene la parte della chiesa dia un po’ di confusione, di esuberanza. Sembra anche un po’ scostato dal tessuto urbano. Appurerò se perché nato fuori città o per un successivo isolazionismo dei monumenti tipico delle dittature. Ma fa niente. Dentro, la chiesa di Santa Maria Belém è di un gotico innamorato dei suoi estetismi ma forse non dimentico dei suoi valori. L’estetica ancora non strappa il suo cordone dall’etica. Però è pesante nonostante gli interventi rinascimentali, con troppe tombe. Opprimente, non del tutto, ma opprimente, come una donna che ti parla troppo di troppi particolari.
Brava la mia che a Lisbona visse e non troppo parlò.

Dunque, niente di rimarchevole nella chiesa, l’atmosfera mi veniva di definirla “napoletana”. Forse ha ragione, e sì, ha proprio ragione Philippe Daverio a dire che il gotico è un barocco. Qui, di sicuro. Le cose gravanti sul capo, le tombe tragiche, i mille estri. La pietra mi ricordava più Palermo che Napoli, in verità. D’altronde tutta Lisbona mi rimbalzava tra i paragoni con le due capitali del Sud Italia. Attitudine scema, quella del riportare tutto al già visto, ma alla quale è difficile sottrarsi. Che poi, soprattutto, Lisbona è latina, va bene, ma di fronte ha l’Oceano. La differenza non è da poco. Basta guardarlo, l’Oceano! E così i portoghesi sono dei latini non mediterranei, ma oceanici. Noi siamo del Sud. Loro del Sud-Ovest. Chi meglio di loro, già del mare rimanente, poteva mettersi in gusci di legno e sfidare nel folle volo la nostalgia di una terra battuta da venti possenti? E proprio il monastero sorse dove Vasco da Gama e il suo equipaggio, prima di salpare, pregarono: pregarono l’Iddio cattolico, certo, ma forse segretamente anche il dio Oceano, che nella sua immane possanza li tollerasse. Della conoscenza avuta, i lusitani hanno ricavato quello sguardo che agogna il confine dell’orizzonte.
Ristagnava invece il mio dentro quel tempio carico. La sottile perfidia della delusione iniziava a fiottare nella bocca dello stomaco. Chiesi di sottrarmi alla chiusura, l’ottenni e quasi ormai non avrei voluto varcare l’uscio del chiostro. La soglia di Stendhal.
Entrai, non ricordo come. Tutto ciò che è prima non appartiene al dopo. Lapalissiana verità, vera però solo se il dopo ha forza abbastanza per separarsi dal prima. Il chiostro del monastero dei gerolamini ne ha: tanta. Ogni impressione di prima fu annullata dall’ingresso nel chiostro; e il dopo fu amore. Quell’immagine mozzafiato fu un bacio come quello che si dà ad una donna desiderata e da lei si riceve.
Perfetta la mia che seppe baciarmi di quel bacio a Lisbona.

E perfezione stordente fu dunque il chiostro del monastero. Inaspettata. Sobria e ricca. Completa. Pensieri corti più delle frasi.
Mi sentii avvolto dalla bellezza. La sensazione, o meglio il sentimento che provai fu di volerne far parte. Mi sarei compenetrato con quella pietra, avrei lasciato intagliare la mia pelle di quei motivi decorativi, già mi sarebbe bastato far parte di quell’erba verde a spicchi nel centro.
Ero rimasto fermo, immobile, a bocca aperta ma senza parole. Lo sguardo fisso: e però riusciva a comprendere in una visione unica tutta l’emozione. Incapace di un pensiero minimo, ne percepivo uno massimo sebbene non riuscissi a focalizzarlo: d’altronde, la mente era intasata. Invasa da quell’amore architettonico, impallata dalla quantità di informazioni che voleva immagazzinare, quasi resettata dalla sorpresa, dalla piacevolezza suprema della scoperta.
Tutto il mio corpo era bloccato, vittima di una apoplessia della ragione. Non si può analizzare tutto, molto sfugge quotidianamente, è poca cosa, poi messa insieme fa una frana che travolge l’uomo cartesiano. E poi c’è la grandiosa realtà del sentimento, che sempre è irrazionale. Succede, talvolta, che si concretizzi in un edificio o in un corpo, oppure nella vista di quell’edificio o di quel corpo, oppure nell’immagine che di quell’edificio o di quel corpo si proietta in noi, oppure nella storia che quell’edificio o quel corpo ci racconta mentre lo ammiriamo, rivelazione improvvisa. A bocca aperta e pupilla spalancata.
Così quel primo pomeriggio a Belém io.
Era una cosa che avevo già provato ma non per un insieme di pietre e cultura e passione e arte e armonia e unità continuata nel tempo. Era come quella volta…
Come quando vedi per la prima volta una donna e tutto te stesso sente di amarla da sempre.
Puntuale la mia che si perse nel mio smarrimento a Lisbona.

Finalmente, entrai: subito nell’hortus clausus a baciare il sole che dava luce alla pietra, permettendo l’agnizione. Riconoscevo infatti in quella sublime estetica Lisbona, svelata in me accanto a me. E via sotto il portico, a cercare la tomba di Fernando Pessoa. Tre eteronimi completi, tre incisioni sulla stele.
“Non basta aprire la finestra
Per vedere la campagna e il fiume.
Non basta non essere ciechi
Per vedere gli alberi e i fiori.”

20.4.1919                Alberto Caeiro
Ma hanno omesso il verso seguente. Avremmo potuto accapigliarci (quanto avrei voluto accapigliarmi con Pessoa!):
“Bisogna non aver nessuna filosofia.”
E tutti gli altri:
“Con la filosofia non vi sono alberi: vi sono solo idee.
Vi è soltanto ognuno di noi, simile ad una spelonca.
C'è solo una finestra chiusa e tutto il mondo fuori;
E un sogno di ciò che potrebbe esser visto se la finestra si aprisse,
Che mai è quello che si vede quando la finestra si apre.”
[1]
Pronto ad accapigliarmi con Alberto Caeiro prima ancora di aver capito qualcosa su quella finestra che avevo aperto - o mi era stata aperta? - nel Mosteiro dos Jéronimos, a Lisbona. Ma anche ad imparare. Dov’è la realtà? Lottare contro un amore per avere l’amore è realtà? Ma io non “sono” e basta, penso: dunque sbaglio. E vago per città vere e finché una finestra mi si apre - o qualcuno sa aprirmela - in un giorno trionfale, il mio giorno trionfale per la cultura portoghese a me rivelata.
Novanta gradi di giro:
“Per essere grande, sii intero: non esagerare
     E non escludere niente di te.
Sii tutto in ogni cosa. Metti quanto sei
     Nel minimo che fai,
Come la luna in ogni lago tutta
     Risplende, perché in alto vive.”
[2]

14.2.1933                Ricardo Reis
Ecco, avrei voluto un Saramago anch’io per discutere col fantasma dell’ortonimo: e che tale nuovo Saramago mi avesse fatto disquisire anche col fantasma di Saramago. Avrei anche potuto essere un tavolino all’aperto de A Brasileira. Per ascoltare parlare di poesia e non di poeti. Di Vita e non di vite.
Ancora un quarto di giro:
“No: non voglio nulla.
Ho già detto che non voglio nulla.
Non mi si venga con conclusioni!
L'unica conclusione è morire.”
[3]

1923                Álvaro de Campos
E ancora lunga omissione. Qui entrò in me la ribellione. Álvaro non era nichilista! Bè, non qui, per il resto ancora non sapevo. Nella sua certezza che l’unica conclusione è la morte egli non nega senso alla vita né alla realtà di Alberto. Nell’allontanare da sé concetti filosofici proclama la filosofia di Fernando, la filosofia intorno a Fernando. Perché quelli là erano concetti di altri. Álvaro, e con lui Fernando, chiede solo di essere lasciato in pace, di poter vivere in un modo suo poco accettato dal conformismo del tempo, anzi, poco affine alla conformazione del Tempo che è solo lungo. Lui, loro volevano solo lo spazio, il cielo che come la luna di Ricardo si specchiasse nell’acqua, Solo il cielo è “eterna verità vuota e perfetta!”. No, non ritengo che un’eterna verità (vuota di voci terrene e perciò perfetta) si imparenti con alcun nichilismo.
Io pensai che l’acqua del Tago azzurra di cielo l’avevo amata con una donna che mi ripeteva “Não: não quero nada”.
La mia, un genio che voleva allargare il Tempo.

Wim Wenders ha capito tutto ciò. La vita ripresa da Friedrich Munro è aliena da questi. Appartiene non a lui, ma alla realtà ripresa da dietro le spalle e a chi si accorga di essere filmato. E lui, il regista, fa di un documentario un film: Lisbon Story. Titolo in inglese come “Lisbon revisited”.
La realtà non reale, non onirica, non filosofica, non teista, eppure dannatamente vera di Lisbona cominciai ad amarla insieme a Philip Winter, seguendolo a bocca aperta e pupilla spalancata nei vicoli che non vogliono nessuno a dirgli come essere, tra gli azulejos che non chiedono a nessuno di spiegare il loro racconto, con una musica che chiede solo di essere ascoltata col cuore e non con le orecchie.
Un film intenso e attonito come Lisbona; invadente come un’immagine di emozione che resta.
E per non amare troppo Teresa la fortuna è di vederlo con una donna che sia donna.
E fortunato io che la mia non ha visto il film ma ha visto Lisbona.
Con me.



[1] “Não basta abrir a janela”, in (Fernando Pessoa), “Poemas Completos de Alberto Caeiro”, 1946.

[2] “Para ser grande, sê inteiro”, in (Fernando Pessoa), “Odes de Ricardo Reis”, 1945.

[3] Da “Lisbon revisited”, in (Fernando Pessoa), “Poesias de Álvaro de Campos”, 1944.

 

Tahiti

05.03.2014 11:30

Sull’aereo da Honolulu era capitata una cosa strana. Non ne avevo ancora compreso alcuni aspetti.

Sto andando a occupare il mio posto sul DC-8 dell’Aloha Airlines: il solito amblare sul corridoio centrale con il borsone tra le zampe, sperando che la tizia davanti a me sia un po’ più decisa e vada avanti (anzi, indietro, visto che si entra da vicino la cabina e poi si discende la carlinga). Invece la tizia si attarda a parlottare con la sua amica, emette gridolini simili a risate imbarazzate, cede sempre la precedenza a quelli che, già seduti, si rialzano per aprire il portello dei bagagli a mano e riporre la giacca o prendere le parole crociate. Dietro di me, il mio amico mi alita sul collo.
Individuati i nostri posti, il mio di corridoio come sempre, sulla sinistra della fusoliera rispetto al verso della penetrazione, aspetto che la tizia prosegua solo di altri 50 centimetri per poter scivolare finalmente dentro e prendere possesso della poltrona, quando la tizia medesima compie, lei, quell’operazione e si prende il mio posto.
Excuse me, I think this seat is mine.”
Anziché rispondere, si mette sulla difensiva ed, emettendo gentili grugniti, cerca con lo sguardo aiuto; dell’amica, ritengo.
Vous, vous parlez français?
Oui”, sempre impaurita.
Ah bon, voyez: cette place, je crois que c’est à moi...” le dico mostrando la carta d’imbarco.
Senza parole, mi mostra la sua. Lo stesso posto! Cavolo!
Mi giro verso il mio amico, che è ancora in mezzo al corridoio con la borsa in mano e sta per tirarcela in testa.
“Chiama un po’ la hostess, abbiamo lo stesso posto!”
Non si vedono assistenti di volo, va a cercarle. In quel mentre, da un’altra parte dell’aereo, si alza un ometto dal viso cosparso di elementi aguzzi – gli zigomi, il mento, il naso, le arcate sopracciliari, qualche altra cosa impensabile –, scansa le ginocchia di chi gli siede accanto e, col piglio di chi sa che metterà a posto le cose, si precipita nel centro dell’azione.
What’s happening?”, esordisce con accento francese.
Nothing”, gelido.
What is your place? And your?
Perché non si fa gli affari suoi? Cosa c’entra con il nostro banale problema? Sicuro, per via dell’accento e delle improprietà di linguaggio, che non sia americano, gli dico: “Y’a pas de problème, soyez tranquille. L’hôtesse va venir.
Resta là, e continua, rivolgendosi alla tizia: “C’est rien, on va se débrouiller... Quelle est votre place? Et la vôtre?”, termina verso di me.
L’hôtesse va venir.
Arrivano infatti Roberto con la hostess, ma è lui ad accalappiarla. Faccio a Roberto: “Guarda se questo se la pianta, che gli frega a lui? Se non si leva...”
Mi fulmina con un’occhiata.
“Italiani?” chiede con accento francese.
Ouais, italiens”, con aria di sfida.
Ne segue un pot-pourri, ma veramente pourri, cioè veramente putrido, di parole e frasi in tre lingue, condito di gesti, ammiccamenti, occhiate, forse anche qualche parola in polinesiano (se esiste una lingua polinesiana). E già, perché la tizia e la sua amica erano polinesiane, chiatte come tutte le polinesiane (tranne una che divenne Miss France e poche altre che mettono nei dépliants).
“Ma insomma, lei di che nazionalità è?”
“Sonò italià-no”
“Oh, ecco: allora parliamo in italiano, una volta per tutte!”
Nel frattempo, la hostess ha capito tutto: non del pot-pourri, ma della questione intrinseca. Una lettera su una delle due carte d’imbarco è scritta in un modo talmente distorto da sembrare la stessa dell’altra. L’affare è risolto. Eppure, quella figura strana ci inquieta un tantino: bah, se ne incontrano tanti!
Il volo va malissimo. Mi verso il succo d’arancia sui pantaloni e sono costretto ad andare in toilette ad asciugarli. Eccezionale il tramonto sulla linea dell’equatore. Rossi, violetti, gialli di intensa ma non cupa drammaticità salutano il sole che va “a violentare altre notti”, sospesi e riflessi nella grande tavolozza blu. Però poi, quando siamo non lontani dallo spazio aereo della Polinesia Francese, incontriamo una gran bella turbolenza, anche il personale di bordo si stringe tutto nei suoi sedili, si vedono i primi sguardi sbarrati, come sempre. Non è ancora niente. Ad un certo punto, buttando la testa sulle ginocchia di Roberto, vedo sotto di me le luci di una pista, ma stiamo troppo alti: però non mi sembra l’altitudine di navigazione, dobbiamo essere più bassi. Cominciamo ad avere ritardo. Ancora turbolenza. Parecchia. L’aereo inizia una virata sulla destra: nel bel mezzo, una corrente discensionale causa l’effetto “vuoto d’aria”. L’apparecchio scivola su un fianco e perde in un due-tre secondi non so quante centinaia di piedi, ma non succede niente. Le grida, però, suonano altissime; da questo momento in avanti, si intuisce che qualcuno prega.
Scendiamo, viene annunciato l’atterraggio in venti minuti. Che passano. Altre lunghe virate. Rumori, come quando vengono tirati fuori i carrelli. Nel buio della notte, vedo ancora la pista, mi sembra proprio quella che ho già visto. Scendiamo, altri rumori, poi riprendiamo quota. Fuori degli oblò, pare ci sia la nebbia: invece, è umidità che si condensa nell’intercapedine tra i due vetri. Insomma, il problema non sono i vuoti d’aria, che continuano e di cui tutti i passeggeri sono, chi più, chi meno, spaventati. Qui, non esce il carrello: e un atteraggio sulla schiuma non deve essere affatto piacevole. Mi giro, incrocio lo sguardo dell’ometto con gli elementi aguzzi sul viso. Riconosciamo a vicenda la stessa preoccupazione, c’è una spontanea smorfia d’intesa, a mimare impercettibilmente la causa tecnica.
Come Dio vuole, atterriamo senza problemi, con un ritardo enorme. Sulla pista, militari col mitra spianato. E che diamine!
E allora adesso, stavamo al ritiro bagagli e l’inconveniente del posto conteso era stato scacciato da quelli del ritardato atterraggio.

Improvvisamente, riapparve l’ometto, ma se ne stette sulle sue, però lo vedevo allungare l’occhio. Fu quando spingevamo i carrelli verso il controllo passaporti che si fece sotto.
“Che sci fanno due italià-ni quagiù?”, chiese.
Io non ero mica convinto che ‘sto furbacchione (perché la faccia era del furbacchione, senza dubbio) fosse italiano come aveva dichiarato nel mezzo del pot-pourri linguistico. Rispondemmo un po’ a mezza bocca: e lui incalzava con le domande. Pian piano, cominciò a dire anche qualcosa di se, che era di Aulla, era un ingegnere, da giovane aveva scelto la via della Francia; da lì aveva avuto la chance di costruire le basi atomiche a Muroroa e si era arricchito, stabilendosi a Tahiti. Che avesse nominato un paese non tanto conosciuto come sua origine era un elemento a favore della veridicità delle sue affermazioni. Ma ancora non bastava. E come mai viaggiava?
“Dovevo fare un po’ di acquisti.”
“A Honolulu?!”
“Sì, quagiù tutti vanno fare li acquisti a Honolulu, sc’è il volo due volte a settimana.”
“E che sono matti?”
“No, perché matti? Là si trovano cose migliori e costano meno.”
Lì per lì, che questi affrontassero 11 ore di volo tra andata e ritorno, ci lasciò sorpresi e dubbiosi. In seguito, tuttavia, potemmo verificare che, in effetti, per quanto carissime, le Hawaii non raggiungevano le assurdità tariffarie della Polynésie Française.

Bienvenue au Royaume de la Folie! Questo cartello, gigantesco, dovrebbero porre all’aeroporto. Folie pure, folie appliquée.
Io non so più ora che Tahiti fa parte dell’Europa (e già...), ma all’epoca questo Territoire d’Outre-Mer godeva di strane attenzioni da parte del governo francese. Per cercare di farsi perdonare gli esperimenti atomici aveva esentato i residenti dal pagamento delle imposte dirette. Cioè, i Polinesiani non pagavano tasse. Per contro, erano altissime le imposte indirette, ossia quelle che aumentano il prezzo degli articoli in vendita. In tal modo, succedeva davvero che a Honolulu le perle nere di Tahiti costassero meno che a Tahiti stessa. Se dovevano comprare una telecamera o un videoregistratore, i Tahitiani prendevano l’aereo per l’arcipelago statunitense, coglievano l’occasione per comprarsi un vestito e qualche camicia, una scorta di pellicole fotografiche e nastri, ecc...: così, si ripagavano il viaggio e ci guadagnavano o, per meglio dire, contenevano le perdite. Quando facemmo la spesa in un supermercato di Papeete, per comprare l’occorrente a una cena di tre persone (a base di pastasciutta, affettato e insalata, mica caviale) spendemmo l’equivalente di quasi sessantamila lire.
In compenso, anche qui la gente si impegna strenuamente a lasciar passare la giornata. Certe volte è così dura, che la sera per non pensarci si lasciano andare a baciare ripetutamente la bocca di una bottiglia.
Nel mentre, una natura splendida e ben disposta osserva la follia umana. Pensare che l’interno delle isole (non degli atolli, certo) presenta montagne alte fin sopra i 2000 metri interamente ricoperte da vegetazione che definire rigogliosa pare poco. Una vera giungla: eppure non ci sono belve né, tantomeno, serpenti velenosi. Specie vegetali che da noi hanno l’aspetto di arbusti sono lì veri alberi, a volte persino giganteschi. La frutta è ottima, ricca, abbondante: è un trionfo di papaya, mango, banana, avocado, ananas, per dire dei più conosciuti da noi. Anche se, in realtà, noi non conosciamo che dei surrogati. La bontà di quelle polpe sazie di sole rimane per sempre impressa nel cuore e basta, da sola, a provocare una nostalgia che può divenire struggente. Insostenibile, in una fredda giornata di pioggia, nella monotonia grigia di una giovinezza già passata che sfiorisce tra un figlio da riprendere a scuola e l’ennesimo rinvio di un desiderio da appagare, quando mentendo a noi stessi ci lasciamo vincere dalla vita.
In un resort di Tahiti, dove andammo per un’aperitivo, incontrai coppie di italiani vinti dalla vita. Non so se mi facessero più rabbia o tenerezza: ma forse più rabbia quando fingevano di sentirsi realizzati e più tenerezza quando ogni cosa in loro mostrava la consapevolezza della sconfitta. Erano lì, ad ammirare le squallide spiagge nere dell’isola, deserte, fingendo di essere contenti: eppure gli occhi erano ripiegati verso il basso. Tahiti, in se, è una fregatura, se si pensa all’isola tropicale da dépliant turistico. Essendo vulcanica, le sue spiagge sono costituite da basalti triturati di colore nero: cosa che è anche bella, ma non apprezzata da chi sognava l’arenile bianco. La laguna tra barriera corallina e costa è ridotta e troppo sfruttata: davanti Papeete, poi, è talmente aperta a causa del porto che l’oceano la sciacqua facilmente.
E pensare che la felicità (effimera, però...) sta semplicemente là davanti, a 5 minuti di piper o mezz’ora di traghetto: la fantastica isola di Moorea, con cui solo la mitica Bora Bora può ingaggiare la sfida su quale abbia il mare più bello. E ci sono le sabbie bianche e le palme reclinate e la vegetazione che arriva fin dentro l’acqua e tutto quanto ci si aspetta da un’isola tropicale. Certi scorci della costa; la Baie de Cook e la Baie d’Opanohu, insenature turchesi e smeraldo tra due lingue di montagna verde brillante sormontate da diademi di rocce magmatiche, sono impresse perennemente nelle mie retine. Spesso si sovrappongono alle insulse immagini del quotidiano.

A farmele scoprire fu Ercole Angioli. Sì, l’ometto dal viso pieno di elementi aguzzi, come le rocce delle montagne polinesiane: lui.
Lui che, ripresi i bagagli, ci si appioppò addosso, anche con un po’ d’invadenza, e si presentò. “Ercolé Angiolì”, ovviamente. Chiese se avevamo un hôtel; non conosceva quello che gli dissi. Ci propose su due piedi di andare a casa sua. Io e Roberto ci guardammo: ancora non ci convinceva. Lui insistette; noi resistemmo. Riattaccò con la storia di dividere il costo del taxi, e stavamo verificando che le tariffe erano veramente proibitive. Questo si poteva fare. Litigò con il taxista perché non voleva caricare la macchina con le valigie di tre passeggeri, ma che in realtà tentava di far lavorare un collega. Una volta dentro, ci chiese perché mai non accettavamo di andare a casa sua: “Ho una bella villettà in colina, sci ho tanto spassio, mi fate un po’ di compagnia!”
In fin dei conti eravamo due contro uno (il tassista non poteva manifestamente essere suo complice): accettammo.
La villetta non era a Papeete, ma a Pirae, una cittadina praticamente attaccata al capoluogo. La vecchia Peugeot bleu si arrampicò su una salita impossibile e si arrestò di fronte a un cancello. Scendemmo i bagagli.
“Bè, se io vi ospito potete anche pagar il taxì!”
Oddio, era vero, ma questo cambiamento, che sembrava un espediente da furbacchione, non ci piacque per niente. Mentre comunque Roberto provvedeva, l’ Ercolé Angiolì si arrampicò nel buio della notte sul pilastro del cancello scorrevole e scavalcò. Ma come, non era casa sua? Non s’è mai visto uno che scavalca per entrare in casa sua. In che casino ci eravamo messi?
Ad un certo punto, non si sa come, il cancello si aprì ed entrammo. Ercole Angioli pareva orientarsi bene in quella villa. Insomma, ci diede una stanza a testa con l’aria condizionata. Dormii con i soldi e i documenti tra rete e materasso.
Povero Ercole, se sapesse quanto ho dubitato di lui! Era, invece, davvero un brav’uomo, anche se con le sue idee che, sbrigativamente, definii colonialiste. Veramente era un ingegnere che aveva costruito a lungo per l’amministrazione francese: nelle basi di Muroroa e poi ponti, strade, porti. Aveva sposato una polinesiana con la quale aveva messo al mondo due figlie, ormai grandi, che vivevano con la madre in Costa Azzurra in una meravigliosa villa (ci fece vedere le foto). Era ricco. Gli chiedemmo cosa facesse ora, quale fosse la sua occupazione.
“Adeso, non facciò niente...”
“Come niente?”
“Oh ragassì: ho lavorato tanto per far i soldi, adesso i soldi lavoràno per me.”
E infatti, sebbene condividesse tutti gli angoli di casa, ogni tanto ci buttava fuori, s’attaccava al telefono (ascoltavamo lo stesso), chiamava Parigi e dava disposizioni di vendita o acquisto titoli. Ci diede un biglietto da visita: “Ercole Angioli, Administrateur de Sociétés”. Fece il suo effetto.
C’era anche un’altra circostanza nella quale ci faceva uscire; anzi, ci invitava caldamente a non rompere le palle: quando veniva a trovarlo una certa persona. La prima volta, fu forse già la seconda sera - o meglio, la prima, dato l’orario d’arrivo della precedente - che stavamo da lui. Ci disse che una volta arrivata, eravamo pregati di toglierci di torno. Non è che non avessimo capito che tipo d’appuntamento aveva. Ma la sorpresa fu quando, appunto, la persona arrivò: era la tipa dell’aereo, quella del posto conteso! Ecco perché lui era intervenuto. Spiegò che non viaggiavano affiancati, e anzi lei si era portata dietro un’amica, perché “senò la gente...”.
Ercole ci portò in tutti i locali di Papeete dove conoscemmo una fauna mista. C’erano anche degli italiani, perennemente abbarbicati a qualche bellezza locale sulla strada di appassirsi per troppi abbracci saprofiti. Ercole li conosceva tutti, italiani e non, ma in fondo si vedeva che lui era differente; aveva un pizzico di stile, forse più di un pizzico. Lui riceveva la sua amante con discrezione, non si faceva vedere nei divani dei night-clubs, viaggiava separato.
Fu lui a proporci di passare tre giorni al Club Med’ di Moorea. Ci andammo con la sua macchina, dove mi strapazzò le orecchie con Madonna e con il greatest hits di Frank Sinatra: la sua personale colonna sonora automobilistica. Credo di aver odiato Roberto perché gli dava spago! Rimirare la placida bellezza ancestrale dei mari del Sud, dove il tempo si è arrestato al paradiso terrestre, avendo come sottofondo “...I wanna wake up in a city that doesn’t sleep...”: svegliarsi in una città che non dorme, l’esatto contrario.
Il Club Med’ è un posto che avevo sempre accuratamente evitato. Quello di Moorea era però la chance migliore per godere di quel mare. L’alternativa erano gli ancora peggiori resorts con piscina (dove andammo comunque una sera e dove Ercole mi costrinse a ballare il tamuré come un qualsiasi turista idiota, insieme a ballerine che di giorno facevano le cassiere al supermercato). Era un villaggio di bungalows piazzati sotto un palmeto artificiale: dappertutto cartelli con la scritta “pericolo caduta noci di cocco”. Ci scherzai sopra, finché, mentre un’insulsa e paccuta ragazzina francese dell’organizzazione ci accompagnava al nostro capanno, non me ne cadde una a pochi metri, fracassandosi con violenza sul vialetto asfaltato. Ne rimasi terrorizzato e i miei successivi spostamenti nel villaggio sarebbero stati informati alla massima prudenza.
Una milanese (l’avevo riconosciuta per italiana dagli occhiali da sole) che era lì da settimane e contava di rimanerci a lavorare - si era innamorata di un fusto biondo - descrisse tutti i motu, cioè gli isolotti sabbiosi che si formano nelle lagune e si ricoprono ben presto di palmeti. Li nominò tutti.
“Ah! E ce n’è forse uno che si chiama Motu Proprio?”
“No, con quel nome non ne ricordo nessuno”, rispose nello stupore ignorante di ogni presente, castrando il mio sorriso alla ricerca di complicità.
A parte questo, il Club si presentò meno peggio di quanto pensassi. Fummo subito reclutati per una partita a calcio, dove trovai il modo di farmi male scontrandomi ripetutamente con un legionario belga che passava lì la sua convalescenza. Il mare era da sogno ma la gente, in verità, era piuttosto indaffarrata a sfruttare tutte le possibilità offerte: i corsi di sub e quelli di windsurf o canoa, la recita in costume e il torneo di ping-pong, fino alla famigerata, drammaticissima, fantozziana animazione serale. Perché non si godeva in contemplativa pace l’Eden?
Al terzo giorno, non se ne poteva più. Bravo Ercole che aveva consigliato quel periodo così breve.
Le giornate, con lui, passarono veloci. Lo accompagnavamo a misteriosi incontri d’affari, che non si capiva quali fossero, e lui portava noi a scoprire il maleodorante (pittoresco!) mercato coperto o a scovare fabbriche di paréos. Li ordinammo e li pagammo molto di più di quanto non costassero a Honolulu, ovviamente. Ercole si appassionò a descriverci il vero modo ‘primitivo’ di lavorazione dei tessuti per pareo, con le foglie degli alberi stese sul cotone a marcire sotto il sole, fino a impregnare indelebilmente la stoffa, lasciando impresso il proprio disegno. Dalla scelta delle foglie discendeva il motivo ornamentale. Evidente come i colori sgargianti che presentavano la maggior parte dei paréos in vendita fossero astuti frutti moderni della globalizzazione turistica.
Fu nella caccia ai paréos che mi disapprovò. Davanti un atelier, incontrai Vivianne. L’avevo già conosciuta all’Ufficio Turistico, lei dietro la scrivania, io davanti a verificare se davvero l’alberghetto prenotato esistesse (esisteva, ma non c’era la prenotazione!). Inizialmente, lei bianca francese Métropole, era stata vagamente parisiennement scostante, poi s’era resa disponibile finché, finalmente, misteriosamente improvvisa, era scattata la complicità, che sin dall’inizio si aggirava tra le bugie dei nostri sguardi conformisti. Ma via.
Ed eccola di nuovo. La complicità riesplose. Un laccio fluido impediva ai nostri occhi di scostarsi gli uni dagli altri. Ercole mi tirò via, c’era altro da fare.
Non ci fu null’altro tra me e Vivianne, ma credo, sento, davvero che sarebbe potuta essere la donna della mia vita. C’era un’attrazione magnetica.
Che Ercole bollò per idiota; non si può mica fare i romantici. Poi: con una che viene dalla pioggia!
Una mattina Ercole ci condusse in auto per una stradina bianca che penetrava all’interno dell’isola, finché non fu più possibile proseguire. Da lì, io e Roberto ci incamminammo lungo un sentiero che, inoltrandosi nel fitto della foresta, presto assunse connotati da blanda avventura. Ci fu da arrampicarsi su scivolosi scalini scavati nella roccia appesi a una corda, da guadare torrentelli, da camminare sull’orlo franoso di preoccupanti precipizi e altre piccole amenità che ci fecero sentire non più i turisti scemi del Club Med’. Non del Club Med’, cioè.
La nostra meta era una di quelle fiabesche cascate che, sapevamo, sono tipiche delle isole polinesiane. E quando infatti la raggiungemmo, lo spettacolo e l’emozione conseguente furono pieni. Eravamo all’interno di un catino che ci avvolgeva quasi per tre quarti di giro, con pareti verticali di roccia rossastra, viva e talmente diruta che neanche la vitalissima vegetazione di quelle latitudini era riuscita a colonizzare. Dal fondo dove stavamo, vedevamo alzarsi una nube leggera di particelle in sospensione, in mezzo alla quale, proveniente dal cielo aperto sopra il margine del catino, cadeva un’impetuosa colonna d’acqua. Una fonte d’energia dalle sembianze soprannaturali. Veniva giù scrosciando con grande forza e picchiava dentro un laghetto di poche decine di metri quadri; una coppa di acqua adamantina.
Avevamo dato appuntamento ad Ercole, credo qualcosa come alle sei del pomeriggio. Tornammo che erano forse le otto. Lui era lì ad aspettarci, un po’ scocciato, questo sì, ma più per via di una guardia dell’acquedotto che insisteva su quanto fosse grave essere entrati fin lì con la macchina. Comunque, Ercole non s’era mosso: c’era. Da lì non avrebbe potuto rientrare in città e poi ritornare. Aveva semplicemente atteso due ore, solo in mezzo alla foresta.
Credo che avrà ingannato l’attesa facendo sentire a tutti gli uccelli “...I wanna wake up in a city that doesn’t sleep...”.
Teneva sempre un atteggiamento molto disinvolto, ma quando ripeteva, qualche volta, che gli faceva piacere che restassimo perché così aveva compagnia, non si poteva non cogliere una piega triste fra gli elementi aguzzi del suo viso.
Rideva su tutto, il suo argomento preferito era il racconto di grandi scopate in giro per il mondo. Però un giorno gli comunicammo che saremmo partiti prima del previsto. Sembrò un bambino sul punto di piangere: “Ma io venerdì prosimo volevo portarvi con me a la riunione del Comitato di Sviluppo. Sapete, parliamo de li problemi che abbiamo quagiù, volevo che ci venivate... Vi facevo vedere che…”.
Si sentiva tradito.
Cercò di farci cambiare idea. Quando ci accompagnò all’aeroporto aveva ritrovato il sorriso, ma ci guardò avviarci ai banchi del check-in con languida tristezza.


Ciao Ercole, grazie.

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