Ricordi di viaggi di un italiano nascosto

di Enrico Proietti



silenzi@live.it

I racconti sono qui sotto, in ordine inverso a quello di pubblicazione.

Blog

Olanda

26.02.2014 20:35

Capii l’attitudine degli olandesi all’acqua osservando ammirato modalità e velocità di svuotamento della vasca da bagno nella camera dell’albergo, ad Alphen aan den Rijn, in Olanda. L‘Olanda.
È l’Olanda un concetto di difficile comprensione. Evoca trionfo dell’uomo sulla natura, ma unito a spettro di rivincite immani. Dita dentro la diga, non sempre vi si potrebbe riuscire.
Ma intanto è già difficile alle latitudine latine definire l’Olanda, nome che sbadati o ignoranti diamo talvolta a uno Stato che invece si chiama Paesi Bassi. Ora, è vero che tale nome un granché non è; però così si chiama. Nederland, la terra bassa: ma non una sola, perché sono più d’una e con la nostra Olanda c’è pure la Zelanda e poi ci sono la Gheldria, la Frisia e le parti nord del Limburgo e del Brabante, che in verità poi basso non lo è tanto, anzi arriva addirittura a delle specie di colline: e infine altre ancora, tra cui l’Overijssel, la regione sopra il fiume Ijssel che nessuno è mai riuscito né a tradurre in italiano né tanto meno a pronunciarla bene.
Ma certo che il cuore di questi Paesi è proprio l’Olanda, che è il più basso di tutti. Si può vivere, si può decidere che il futuro dei propri figli e discendenti sarà sotto minaccia di sommersione? Gli olandesi lo fecero e continuano a farlo. Hanno acqua dappertutto: perché se stai sotto il livello del mare, quando piove dove va la pioggia? Dove sboccano i fiumi? Così, nel corso dei secoli, hanno come tutti sappiamo imparato a trattare l’acqua un nemico da far diventare amico.

E la vasca da bagno della camera d’albergo ad Alphen aan den Rijn si svuotava come se l’acqua trovasse improvvisamente una breccia nella linea del fronte e, da ostaggio che era, di corsa e di nascosto se ne tornasse dalla sua parte. Mantengo in me una specie di fascino evocativo di quella cittadina dell’Olanda del Sud. In effetti non mi accadde nulla, ne serbo solo un ricordo un po’ dolce e un po’ di una tristezza ambientale. Anche se bello, quel mondo nordicheggiante ha insiti i caratteri della tristezza
Consono a essa, andai comunque in giro alla scoperta dei luoghi e delle idee. Cercai la strada principale; ce n’era una che la sembrava, di traverso a quella che attraversava il paese. Però era troppo anonima e si desertificò nel giro di un quarto d’ora alla chiusura delle attività commerciali. Allora osservai meglio. Dovevo rivolgere l’attenzione più in basso di pochi metri. Era come a Venezia: Venezia ha il Corso, solo che non puoi attraversarlo a piedi, ma in barca. Così Alphen.
La vita notturna, seppur scarna come è normale che fosse date le dimensioni del paese, si allungava compiaciuta sulle sponde di un canale, principalmente su quella più occidentale, ma non solo. Cafés, ristorantini di tendenza, un cinese, tutti con i tavoli all’aperto per la stagione favorevole, macchiavano di luci e colori la banchina grigia, accompagnandosi a strisce di vegetazione domestica o addomesticata nella ricerca di un’immagine idilliaca che manteneva in sé, però, quella componente triste che la costituiva. Forse erano i mattoncini a vista, mattoncini ovunque.
Ciò nonostante, l’insieme era gradevole e disponeva bene l’animo, invitando a scendere i pochi gradini accanto alle testate del ponte che scavalcava il non largo canale di Alphen aan den Rijn, Alphen sul Rijn.
Va detto subito che io sapevo non essere, quel Rijn, il Reno, come si potrebbe pensare, anche perché questa singolare gente lo chiama Waal. No, il Rijn sapevo esserlo un fiume ben più piccolo ma che riesce ugualmente a contribuire alla generazione di un labirinto. La sua acqua, se avevo capito bene, si perde in mille canali, canaletti, gore, fossi. Capire l’orografia dei Paesi Bassi non è facile, né i nomi dei corsi d’acqua aiutano granché.
Così come il Reno diventa Waal (ma poi sulle carte neerlandesi il tratto a monte di Nimega, allo stesso modo di quello che scorre in Germania, è chiamato Rijn!), altri fiumi cambiano nome a seconda del tratto. O almeno questo compresi, ma insomma: il Lek, che sta lì, tra Arnhem e Rotterdam, da dove viene? Pare essere una diramazione del Waal, o meglio del Rijn, ma chissà.
Di Ijssel ce ne sono almeno tre: la “liscia”, la Oude, cioè vecchia, e la Hollandsche, olandese. E se il Maas (la Mosa) viene da più a sud del Waal e insieme a questo, ma sempre alla sua sinistra, forma lo Holland Diep, perché poi, ancora più verso il mare, Dordrecht e Rotterdam – che sono più a nord e dunque a destra del Waal – si affaccerebbero sul Maas, come recitano le enciclopedie? Hanno costruito un cavalcavia d’acqua? Non lo vidi.
Insomma, anche il Rijn (quello di Alphen) non ho individuato bene da dove venga, so solo che tra centinaia di dighe e dighette arriva stremato a riposarsi nel Noordzee dopo Leida, nei pressi delle due contigue Katwijk: aan den Rijn e aan Zee.
Che poi non è semplicemente Rijn, bensì Oude Rijn; ma non ho trovato nessun Nieuwe Rijn.
Tutto questo turbinio di nomi, che crea sicuramente una buona confusione, spero renda l’idea di quanto possa essere difficile capirsi con l’acqua nei Paesi Bassi. E io spesso ne ho fatta, di confusione. La prima volta, ho girato quasi tutta l’Olanda del Nord in cerca dell’Ijsseldijk. Volevo andare a vedere la lunga barriera che dal Mare del Nord, o meglio dal Waddenzee, il tratto di mare compreso tra la costa e la corona delle Isole Frisone, separa e protegge l’enorme specchio interno dell’Ijsselmeer e i polderen che dal suo prosciugamento sono sorti. Non la trovavo, chiedevo e la gente non lo sapeva e mi mandava a destra, a sinistra, a destra ancora, poi richiedevo e mi mandavano avanti per chilometri.
Ijsseldijk?” si chiese sbigottito un perticone calvo. “That is Ijsselmeer…”, disse a se stesso più che a me puntando col naso l’azzurro poco distante e sottolineando con la voce il meer. “Well, Ijsseldijk… It must be somewhere…”, “Dev’essere da qualche parte…” continuò pensando invece a come dirmi che non credeva proprio esistesse una qualsiasi cosa corrispondente a quel nome.
The long dike where you have on one side the Waddenzee and on the other side, some meters lower, the Ijsselmeer”, puntualizzai scolasticamente.
Allora parve capire, però starnutì.
Afsluitdijk!”
“Salute!”
Invece no, quell’accozzaglia di suoni, pronunciate dall’olandese che parevano un’unica sillaba, era il vero nome della diga, che non si chiamava per niente come m’ero messo in testa io. Solo che non lo capii, per cui la conversazione continuò brevemente nel reciproco malinteso e non ne ricavai nulla di utile, senza capire le giuste indicazioni che il perticone stava fornendo. Come Dio volle, prima o poi ci cascai sopra e finalmente mi resi conto di quale fosse la sua denominazione.
È che l’Olanda non è semplice.

La vita è calma ma produttiva. Non so se è un bene, ma lo è. È calma come quegli immensi stagni ai quali loro, gli olandesi, accedono in barca direttamente da casa: la calano dal cancello sul canale, pochi metri e via su quei piani azzurri spesso litigati dalle brume e di cui altrettanto spesso s’innamora il ghiaccio. Ed è anche produttiva, Rotterdam sta lì a testimoniarlo, così indaffarata, così ricostruita, scuola di tanta architettura contemporanea. Però fondamentalmente a me gli olandesi sembrano godersela, la vita. Non so, è qualcosa nei loro gesti, nel loro camminare, in quel loro parlare come francesi che s’esprimono in tedesco. Chissà che non sia proprio così e che la spiegazione non dimori nelle dighe. Non sempre un bambino fa in tempo a regalare il suo dito alla leggenda. Allora il mare riporterebbe all’inizio la costruzione della vita, spianando ogni realizzazione del disegno umano. L’intima precarietà allena ad apprezzare le concessioni quotidiane dell’esistenza.
In questa terra bassa ci sono stato più volte. Non ne ritengo una sensazione univoca.
Distillo colori da immagini fermentate in un’imprecisa memoria delle cittadine lungo l’Ijsselmeer, ognuna una cartolina con zoccoli, formaggi e gabbiani. E barche ornate di sartiami, vele e bandierine, con galleggianti arancioni che, troppo moderni, stonano leggermente sebbene siano un amore per come si riflettono sull’azzurro. Certo Van Gogh, ma anche l’impressionista puro Monet ne avrebbe tratto splendide pennellate. Forse ho veduto anche Alkmaar e Volendam, credo di sì ma non posso esserne certo.
Filtro altre immagini dal verde di una campagna anche monotona ma per iperbole rasserenante in cui erano intinte. Ci sono le mucche pezzate, i molini veri e quelli finti, le mille e mille gore: ogni tanto s’incaglia un grumo, il bianco o l’argento di qualche serra. Amici treni sfacchinano sulle loro massicciate protetti da filari di alberi selvatici. Il cielo vi scivola sopra intensamente blu oppure lattiginoso o talvolta di minacciosa crudeltà nera, quando anche i prati devono diventare quelli grigi del primo Van Gogh.
Raccolgo infine gocce ad alta gradazione visuale, come perle scartate significanti invece per chi le ha vissute, per chi le ha sorseggiate allora e le riassapora ogni volta, inebriandosene. Di esse si imbibiscono lentamente i tessuti della memoria, sono per questi una sorta di concime. È uno stillare necessario che fertilizza un qualcosa indefinibile, come un pegno d’amore da ricaricare ad ogni delusione dell’uomo.
Perché concentrato in quelle piccole sfere c’è l’ingenuo sogno dell’armonia, della misura, del paesaggio piegato e però rispettato, degli atti consapevoli, dell’uomo capace di grandi opere che contrastano la durezza del mondo e al tempo stesso di inserirsi con i tempi e i modi giusti. Un sogno, appunto, anche un’illusione, eppure vitale.
Una di queste perle distillate riguarda la sosta in un ristorante, da qualche parte dell’Olanda, a poca distanza da uno svincolo autostradale ma distante da tutto, perché protetto da gentili quinte arboree. Quasi isolato.
Questo ristorante permeato dal verde, quello della campagna umida e quello degli alberi che lo circoscrivevano quale elemento, non estraneo, direi provvisorio; e quello della moquette stesa a rendere ovattato un interno che mai avrebbe potuto essere chiassoso. Non potrei classificarlo elegante. O forse sì, di sicuro non lussuoso. Non ostentava, ecco. Insomma, era ordinato e i tavoli stavano distanziati. La realtà è che sono abbastanza impreciso nel ricordo dell’ambiente perché ciò che mi colpì furono i contenuti.
Era come se quegli occhi volessero uscire e rifarsi di ragazza, tornare quelli di una giovane simpatica e gioviale, invece che stare incastonati in quella divisa composta. Parlo della cameriera che si avvicinò al tavolo per ricevere le ordinazioni mordendo parole incomprensibili. Era altissima, bellissima, dolcissima. Un po’ troppo alta, troppo bella per stare costretta in un abito puritano, dolce mai troppo. Così quando la carta si rivelò l’unica priva della versione inglese, supplì la sua dolcezza. Ci ordinò la terza cosa dall’alto di quelli che, per la posizione, dovevano essere i piatti principali. Noi lasciammo fare, soggiogati. Quella volta ero con un amico dell’epoca, e non badammo molto a salvare le apparenze. Il mio amico era felice; e anch'io.
La terza cosa dall’alto, quando giunse, la scoprimmo leggendola in quello sguardo cui poche ciocche bionde fuoriuscenti da una cuffia stolida davano profumo di grano. Non era che un pollo intero, ma aperto e riempito di pere, prugne e almeno un paio di salse che non saprei dire quali. Anticipato dall’aura seducente com’era stato, rimase diversi secondi sulla tavola senza che mano maschile vi si avvicinasse. Anche perché gli sguardi nostri seguirono il miele, sperando di poter diventare api od orsi. Poi s’accorsero che d’orsi era pieno. Gli altri clienti, olandesi. Tutti correttamente seduti. Tutti compostamente pranzanti. Nessuno che alzasse la voce, nessuno che riempisse l’aria di gesti. Però per chiedere il miele non rivolgevano sorrisi, bensì occhiate di comando. Questo mi infastidì.
Il bello della vita, dicono alcuni, è che si cambia. Personalmente, credo che sia però un fatto di livelli: puoi cambiare gusti, non valori. Ma insomma, quanto a gusti io l’ho fatto. Si fanno esperienze, si conoscono abitudini diverse: si impara persino a bere caffè durante i pasti. Sì, durante, non dopo. In fondo, se mangi una cosa calda, perché ne devi bere una fredda? Gli orientali ce lo insegnano. Ora, il punto è che quando mi trovai in questo ristorante nel verde, per me a tavola si bevevano acqua, vino, concessa la birra, qualche volta bevande gassate. Invece quegli olandesi tenevano tazze alte e strette davanti ai loro piatti, colme di caffè. E lo sorseggiavano tra una forchettata e l’altra, data sempre con i gomiti aderenti al busto, mentre conversavano gaudenti a voce bassissima. Nel più totale sconvolgimento, somma di uno d’un segno e di un altro d’un diverso segno, imparammo per via sperimentale il disossamento del pollo a forchetta e coltello. Fu uno spettacolo penoso, che cercammo di nascondere ai controlli di lei. Riuscimmo comunque a non alzare la voce.
Qualche olandese sorprese il nostro sbigottimento che verificava quanto acquoso fosse il loro caffè, e senza schiuma, ma come restasse fumante in quelle tazze a sviluppo verticale! Poi tornò lei.
Io credo tutt’oggi che i suoi sguardi fossero di nostalgia. Una nostalgia per qualcosa che sapeva di possedere dentro il suo corpo florido ma che probabilmente non s’era manifestato: forse mai o piuttosto non ancora. Lo spero, al tempo sperai che l’avesse fatto in quell’attimo e s’unisse a noi che le facevamo provare quel sentimento con la nostra indomita scompostezza, la nostra curiosità, il nostro essere giovani, la nostra infatuazione subitanea per lei. Ma aria modulata non uscì dalle nostre bocche. Con la sua, con le sue labbra turgide, rammendava silenzi che coltelli distratti tagliavano contro il fondo dei piatti.
Come uscirne?
Veramente non lo so, non oggi come allora, né ricordo come uscimmo dall’incanto di quel ristorante immerso nel verde della campagna olandese per tornare nel reale dello stesso verde della stessa campagna. Come potemmo? Eppure era olandese come i bevitori di caffè. Ecco, in verità avremmo dovuto salvare anche loro.
Credo davvero che gli olandesi si godano la vita, per quel senso di provvisorietà, per quel carpe diem continuo. Ma dentro di loro: o comunque sono convinti che fuori debbano manifestarlo con la calma, come un’azione contemplativa della meraviglia di esserci ancora. Salvo preservare la corsa per tappare la diga. Sperando che mai.

Gente tosta, gli olandesi. A Zandvoort c’è un noto circuito automobilistico che mi piacque provare. Poi, al mare. La pista è infatti appena all’interno della duna costiera che fortunatamente corre per buona parte dell’Olanda, diga naturale e perfetta.
Era estate. Certo, il sole non picchiava come sul Mediterraneo, ma pure quella spiaggia del Mare del Nord somigliava a Castelporziano e a Carnon e in quelle ore centrali della giornata si mostrava evocando gli inganni morganici delle distese calde. Non tanta gente, però diversi costumi colorati sembravano coriandoli su un pavimento chiaro, sul quale si mimetizzavano i bianchicci corpi olandesi. Due ragazzoni alti e magri giocavano a racchettoni dentro l’acqua, erano immersi fino a metà coscia e alternavano la tipica tranquillità a repentini tuffi laterali per cercare la respinta della palla a ogni costo. Tutto appariva di apollinea virtù. Vi apportai un po’ di dionisiaca confusione. Spogliato in fretta, gustai al volo l’ebbrezza della nudità, la pelle reagì subito alla temperatura, lo sguardo si abbeverò all’istante di quell’acqua scura e il corpo vi corse incontro con sguaiato entusiasmo finché vi saltai dentro come un pirata avrebbe abbordato un galeone ricco d’oro come il mare di vita e, porca puttana, urlai.
L’acqua era glaciale.
Non per i due ragazzoni che imperterriti schiaffeggiavano l’aria. Olandesi, loro. Tosti.

Molto meno tosti sono i formaggi che la verde campagna produce, complici le mucche e le pecore. Amo i formaggi olandesi: anche quelli olandesi, cioè. Mi piace scoprire le gradazioni di giallo che variano a seconda del paese dove ciascuno è prodotto. Osservare le diverse fette nei banconi, siano addirittura quelli dei duty-free negli aeroporti o nelle stazioni, mi fa vedere come su una mappa fantastica la geografia dell’Olanda e dei Paesi Bassi tutti. Anche nell’orgia consumistica, in quel modo so riconoscere un qualcosa di intimo, come un racconto di favole. Ancora una volta.

Il connotato fiabesco è sempre latente nei miei approcci con l’Olanda.
L’organetto di Haarlem è fisso nei miei ricordi, semplice, bello, ammiccante antichità probabilmente inesistenti. Un organetto di quelli che ne avevo letti sui romanzi che divoravo da bambino, quella letteratura per ragazzi dagli intenti edificanti che a me suscitava rabbia, costretto a non poter scegliere altri comportamenti. Sbagliati, ma eroici. Appena lo vidi, mi rammentò la ribellione verso questi palliativi per i poveri: un po’ di musica per dimenticare il freddo, ma nessuno che risolve i problemi! E il povero continua a perdere. Ero certo ben vecchio da bambino…
Questo sentimento durò poco. Lo vinse la malìa, me ne feci vincere, forse anche perché si abbinava alla bionda zazzera della commessa del negozio davanti. Era di legno ma sembrava di zucchero: l’organetto, la ragazza era proprio di una bella carne. Dalla cassa di zucchero montata su ruote usciva una musica banale ma allegra; dalle labbra morbide, risate che terminavano nelle fossette delle guance facendole diventare rosse. Intanto le tette si issavano ancora più su! Era bella, l’Olanda.
Sì, era bella, sebbene fredda, compassata, un po’ triste. Sebbene l’acqua sia un problema non solo geografico con il quale uno straniero deve mettersi il cuore in pace. Tutto questo lo sapevo comunque già, quella sera ad Alphen aan den Rijn.

La fioritura di caffé e ristoranti lungo il canale principale di Alphen aan den Rijn era degna di una primavera mediterranea, ma la cucina del “Choices” chiudeva alle 21:15. Lamentarsi degli americani, poi! Così mi buttai sul cinese, dove feci una scorpacciata di vegetali involgarendoli con una birra scura dalla consistenza e alcolicità, e forse un po’ anche dal sapore, di una birra e gassosa (fatta però, come ormai avviene sempre più frequentemente, con Sprite o 7up). Era una birretta al caramello, altro che malto tostato, però era perfetta e buona, tanto buona dopo tanto verde. Mi chiesi, senza rispondermi, perché la Oud Bruin della Heineken non fosse commercializzata in Italia. Posso azzardare ora che sia per lo stesso motivo per cui la lager di quella marca da noi è una birra dozzinale mentre in patria ha un suo rispetto.
Sull’altra strada retrostante il canale, però, gli olandesi passavano la sera sorseggiando con o senza competenza del vino: francese, ovviamente, e tedesco, con accenni di California e Cile e una presenza importante, in effetti attendibile, di prodotti sudafricani, che si proponevano in wit, rood en rosé. Colpevolmente, da entrambe le parti, nessuno italiano.
Poi, fu solo su un treno per L’Aja che me ne resi conto. Avevo commesso un imperdonabile errore, solo in parte giustificabile dall’abitudine mia al regime torrentizio, sconosciuto dalla natura in queste piatte terre. Me lo rivelò prima d’un ponte il cartello che ebbi il tempo di leggere, essendo i treni olandesi mai troppo di fretta.
Rijn rivier”.
Sotto, esattamente la stessa acqua e gli stessi argini, lì appena fuori l’abitato. Giustamente, quello lungo il quale avevo cenato non era il canale principale del paese. Era il Rijn, dritto e regolare, sostenuto e ubbidiente, ma pur sempre un fiume. E se no perché Alphen sarebbe aan den Rijn?
E così basta attivare l’intelligenza, documentarsi un po’, riflettere sul passato di queste terre in perenne lotta con troppa acqua. L’Oude Rijn, il Vecchio Reno, è appunto l’indebolito antico percorso del grande fiume, che probabilmente apportava troppa acqua, appunto, nelle depressioni olandesi. Da cui la necessità di trovargli altri sbocchi, giù verso la Zelanda. Lo fecero i veneziani con il Brenta e con il Sile. Il caro Reno ha oggi un delta che inizia a decine di chilometri dal mare, in pratica esattamente nel momento in cui entra nei Paesi Bassi. Da lì, ogni ramo ha un nome. Dopo mille manipolazioni, ricostruire il corso naturale dei fiumi è impresa forse tanto ardua quanto quella di convivere con migliaia di dighe e di pompe aspiranti.
I fiumi, pacificati e sorvegliati, somigliano a canali, i canali non si distinguono da quelli, i nomi restano amici della storia piuttosto che seguire la geografia, il mare scompare e fa posto alla terra ma persiste incombente dall’alto. Poi arriva il gelo con la sua capacità di uniformare in un unico riflesso di fiaba.

Su vie d’acqua così, ti aspetti di veder passare da un momento all’altro Gretel coi suoi pattini d’argento già vinti o Hans filare veloce nonostante i suoi poveri pattini di legno.
Corre via, Hans Brinker: l’aspetta un finale da eroe. Non vincerà la corsa. Non quello del romanzo. Ma il vero Hansje mise il dito nella falla della diga e così pure le sue improprie lame di legno già mandano bagliori, non d’argento, d’oro.
A Spaarndam c’è una statua a lui dedicata, sulla base c’è scritto:
“Opgedragen aan onze jeugd als een huldeblijk aan de knaap die het symbool werd van de eeuwigdurende strijd van Nederland tegen het water.”
“Dedicata alla nostra gioventù, per onorare il ragazzino che simboleggia la perpetua lotta dei Paesi Bassi contro l’acqua”.

Londra

17.02.2014 21:22

Prima di partire, ci fu la gioia di vederti rapita dall’inatteso.

Tornati, c’è la luce di quei cieli londinesi che si erano aperti per noi a pervadermi splendidamente. Forse è generata da te, lì come adesso ancora. Io credo che tu non abbia visto Londra perché non tu la scoprivi. No, non tu, ma qualcuna che eri tu solo nella forma, e neppure appieno, ché apparivi trasfigurata, ti mostravi nuda nell’anima, ti rivelavi quale da sempre avevo intuìto.
Se quello è l’amore, l’amore è bellissimo.
E più bella ho trovato ogni parte di quella città rivisitandola con te. Nemmeno eravamo turisti, eravamo noi, tu e io, che vivevamo da noi. A Londra. Può essa assurgere a luogo dello spirito? Per noi, lo ha fatto.
Una Londra dei miracoli. Quelli piccoli, del Tower Bridge che si apre davanti a noi, dell’indiana Primasha o del fichissimo nero Mick che rincontriamo tra tutti i milioni di abitanti, della magia di un lovely pub, dello stesso sole più mediterraneo che britannico. Quelli grandi, che scopriamo dentro di noi e ci rendono ricchi.
Un altro ancora: tu in verità non hai scoperto Londra; l’hai infatti svelata. Via ogni velo meteorologico, via qualsiasi visione appannata: solo luce del giorno e notti di luci, solo persone e anime, solo noi due in un’aura di felicità. Essa aveva un punto di chiara visibilità, forse era da dove proveniva: i tuoi occhi. Si, certamente da lì si emanava per avvolgere entrambi.
Sono state ore lunghe e larghe, è stato il tuo tempo, la concretizzazione delle tue riflessioni sul tempo, passate da pensiero a realtà per nostro uso e servizio. Abbiamo esplorato dimensioni spaziali del tempo, arrestandoci senza sconfitta di fronte a domande semplici e tremende.
Sarai tu a rispondervi, saprai farlo, quando infine vorrai concederti a loro.
Intanto godi dell’estensione dei giorni londinesi, estasiata misura di conoscenza. Rivivi istanti eterni di gioia incuranti della loro impossibilità. Assapori il fascino rivelatosi, palpi l’impressione sulla tua pelle di quella vita concessa alla fantasia. Quel tempo è ancora in te; si vede. Si sente.
È d’altronde anche in me, a causa del suo stare in te, in ragione di quanto è in te.
Abbiamo sospinto la nostra unione attraverso una Londra che era nostra da prima che ci arrivassimo. Ne abbiamo semplicemente preso possesso, con la regalità riconosciuta all’amore. Magnanimi condividendola con i milioni di esseri individuali che la colorano con le proprie esistenze; le nostre rese maestose dall’apertura degli animi, dono primo e finale di questo viaggio. Dove non ho avuto bisogno di nascondermi, protetto da te, garantito dal tuo sentimento.
Sei stata capace di abbracciare la città senza escludermi, hai avuto cura anche di me, attenzione alle mie cose: paure, ricordi, commozioni, gioie e stanchezze. Hai saputo parteciparvi, piccola grande riserva di empatia, cuore felice e dolente, gioco mai immemore del buio.
Hai scorto la mia mente lacrimare dolce per certi reflussi dall’infanzia e hai avvolto entrambi nel sogno; percepito soffusi lamenti e ti sei fatta medicina; immaginato banali ilarità e hai lasciato che ti trasportassero al riso profondo. Senza scorie né segni da riportare indietro, un’esperienza non conclusa ma anzi di inizio. Quasi una catarsi, almeno per me bisognoso di purificazione.
Una Londra esuberante, sorpresa da una nuova estate, intanto assecondava la nostra invenzione di lei. Londra di birre pastose e negozi musicati, di indiani gentili e arroganti, di imperialità e intimità. Metropoli vissuta attraverso persone e personaggi in precari teatrini all’aperto e in scintillanti sale ufficiali: e nell’immenso teatro del suo quotidiano cosmopolita. Noi a disegnare i contorni della sua scena per la rappresentazione che volevamo e che abbiamo avuta.
Finché nulla ha potuto impedire la nostra natura di protagonisti, primi attori della nostra storia meravigliosa. Ce la siamo narrata a ogni passo, assegnando gli altri ruoli a chi avvicinavamo: erano le commesse spagnole, gli inflessibili vigili armati di macchina fotografica e i non curanti scaricatori, la curiosa piccola folla in attesa di chi nemmeno sapeva. Erano le nostre ombre sui marciapiedi solidi, era lo stesso pubblico che animava Londra.
Abbiamo vissuto così, eterei però concreti, il nostro largo tempo londinese.
Al ritorno non hai visto la Manica di notte: sappi che Dover ti ha salutata triste, rimpiangendo te e quel buffo elmetto di plastica che una folle contingenza ti ha costretto a indossare. Ha detto che eri tanto carina con quello in testa. Che sembravi di casa là, in quella terra che solo per te si era mostrata con lo stesso calore che porti tu dentro.
Ora scegli le immagini da riporre e t’accorgi compiacente che sono tutte, non una merita il cestino dell’oblio. Ti bei dello scorrere di un fiume di ricordi che a volte scende placido e possente, altre prorompe nell’impensata fragilità di rapide e cascate affollando la memoria di vedute, suoni, emozioni, giudizi. Non vuoi arrestarlo, anzi desideri che ti travolga.
Anch’io lo voglio per me, anch’io faccio inondare la mia campagna da poco tornata fertile. Produrrà frutti ancora migliori e raccolti finalmente non secchi.
L’ho compreso affiancando al tuo il mio sguardo alla ricerca della fine di una schiera di bianche case edoardiane o alla scoperta di un nuovo colore dei cabs. O ancora lungo la riva del Regent’s Canal a Camden Town; ma anche nella repentina e precipitosa ansia per un’attesa notturna in Shaftesbury avenue. Sempre passaggi memorabili del nostro racconto di Londra.
E a Londra ho capito davvero che questa storia vorrò narrarla per sempre, ho sentito che non la mia parte m’interessa, ma la tua.
Dei tanti accadimenti non so quale sia più nostro e forse è dubbio sciocco, perché Londra, la nostra Londra, è stata un unico momento. D’amore.
È stato buono viverlo con te: meglio sarà continuarlo per sempre, occhi color dell’anima.

 

Londra l’hai amata e io ti ho amata amarla. Forse un giorno saprò farti amare anche Parigi.

 

Not a red cabin
near Marble Arch,
nor the luxury
of an Egyptian
hall full of dreams

Not me
Not you

but we together
made the magic

Spent ev’ry hour
like souls in glory

 

*     ^     *     ^     *

 

Neither all the nicest ones passing by
nor those we met

Not a single person, being or thing
in this big town
in this Greater
Wonder of joy

Not you
Not me

but I wanted everybody to know
that I love you

Barcellona

10.02.2014 20:40

Persi le chiavi della mia anima in quella città compatta e variegata. Le lasciai convinto che lei le avrebbe prese con se. Invece ebbe paura, e prese solo il loro fermaglio.
Dentro la stazione di Barcelona-Saints, con in mano un disgraziato mazzo di garofani comprato per me da un disgraziato mentre io già la cercavo, correvo verso il binario fendendo i viaggiatori che ne uscivano. Sembravo un cretino, ma un cretino pertinace e perciò felice. Ma non lo ero, felice.
Dov’era quel sogno? Non vederlo ancora mi stringeva le viscere. Non si può mancare un rendez-vous fortissimamente voluto. Eppure si arriva sempre tardi agli appuntamenti cui si tiene per se stessi. È come una maledizione. Che così, di nuovo, in quella stazione sotterranea rischiavo di confermare.
Non lo feci per un niente. Era lì, sulla banchina, avvolta in un aura luminosa, e si stava anche lei guardando intorno mentre già incedeva intralciata dal fabbisogno di pochi giorni. Appena ci vedemmo iniziò il gioco stupido delle negazioni innegabili, del non mostrare quello che non si può celare, dell’usare parole mendaci e del non sbugiardare quelle identiche dell’altro.
Come si fa ad amare solo un po’? L’amore è un sentimento assoluto. E se non lo pensi da giovane (come era lei) riuscirai a invecchiare senza invecchiare?
Io amavo; quello che in lei volevo amare. Quello che raccontavo a me stesso su quanto doveva essere lei. Le facevo giocare un ruolo dei films che m’inventavo da bambino, non essendo davvero mai cresciuto.
Lei, lei non poteva non amarmi. Le schiudevo inaspettatamente scorci su orizzonti attesi e però sconosciuti. Rappresentavo il termine di paragone migliore per ogni sua idea. Ma, ironia beffarda, lei era frenata dal sentirmi grande, troppo per lei. E non solo da questo: anche dal mio doverla costringere, eventualmente, a non farla essere più un cucciolo in cerca della tetta materna e doverle far prendere decisioni di sofferenza e maturità; dal mio correre troppo, per avere già strada da recuperare; dal mio ostinarmi a voler cambiare la geografia, che ci condannava.
Fu vinta dalle paure.
Ma in quella città brulicante e distaccata, tutto questo parve obliato, per concedere poche ore di premessa a un’illusione accecante: che io nobilitai chiamandola speranza.
Spendemmo ore di cecità voluta, di non domandare e di non dire. Soprattutto, ci guardavamo l’un l’altra negli occhi che sfavillavano, per andare oltre le stupide parole sulle quali avremmo costruito – e in parte lo facevamo – maschere da indossare a ogni occasione. Camminammo nella notte lungo il Passeig de Gràcia senza mai guardare avanti, mano nella mano fingendo di non farlo, contando mentalmente le luci riflesse nelle pupille. Il freddo spingeva per farci abbracciare, ma noi resistemmo, pieni di insana virtù. Turisti distratti sospinti dal dover trovare un’occupazione ai nostri silenzi, visitammo la città: non potemmo inseguire i nostri desideri che tra le guglie fittizie della Sagrada Familia, aggiungendo la nostra espiazione vivente, precedente al peccato stesso, a quella pecuniaria dei barcellonesi; ci confondemmo tra la folla che preparava la fine dell’anno, diluendo le nostre aspettative in quelle rituali delle persone in strada, ignote complici della nostra autocastrazione; cercammo inconsciamente una soluzione attardandoci tra i vicoli e le bettole del Barrí Gotic; affogammo ogni istinto nelle fontane colorate di Plaça d’Espanya, colorate di una gioia che non riusciva a pervaderci.
Poi salimmo al Castillo de Montjuïc, in un’altra notte, tersa e immobile. Là, sul monte dei giudei, ci affacciammo verso il mare. Fu l’attimo in cui minori furono le distanze tra desiderio e paura e tra illusione e speranza.

Monte dei Giudei
antico

e
moderno
Le stelle lucevano
gli impianti portuali

sotto
brillavano
Nel freddo
due scemi
tra cielo e terra
guardando il mare
maledicendolo
perché non sapevano
navigarlo
non trovarono
un fuoco
Poche
scintille
naufraghe
non incendiano
legno troppo indurito
dagli inverni
o
carta bagnata
da troppa paura
Neppure
sul Monte dei Giudei
magico
e
complice sprecato

Quando poi, vinti da noi stessi, facemmo per andarcene, trovammo il portone chiuso. Prigionieri nel castello! Sarebbe potuto succedere l’irreparabile che nessuno avrebbe mai cercato di riparare, ma, per non passare dalla commedia alla vita troppo bruscamente, lanciammo qualche richiamo, dandone motivo al freddo incipiente. Il nostro destino restò qualche attimo sospeso: poi un vecchio guardiano sopraggiunse imprecando. Lo odiai. Spero anche lei.
Avrei voluto accompagnarla fino a Saragozza, ma la nebbia le diede modo di impedirmelo. Acconsentì a che la portassi a Reus, da dove avrebbe ripreso il Talgo. Peccato che quel treno veloce non ci passasse. Così, nella stazione di quella asciutta cittadina catalana, la salii su un carro bestiame, un relitto di tempi andati, tra ossute e ciccione che s’impicciavano del nostro ennesimo addio. Il convoglio partì. Vederla andar via su quella infima classe mi fece stringere ancora di più il cuore. Mi duoleva, persino.

Baja California

04.02.2014 21:09

La Baja...
Di Tijuana, la cittadina appena passata la frontiera a sud di San Diego, ricordavo uno scemo filmotto con un Tom Cruise ragazzino nel quale questi collegiali ipervitaminici ne favoleggiavano. Forse attratti dalla rima con marijuana, organizzavano una puntata a Tijuana per una vacanza di sano sesso e droga (la droga dei colleges: spinelli!). Sapendola posta esattamente a ridosso del confine, quindi pronta ad assorbire colate di dollaroni, me l’immaginavo come una sorta di Las Vegas in miniatura, anche se Las Vegas non la conoscevo.
La prima reazione fu di serrare le chiusure dell’automobile. Un posto da Terzo Mondo che vive degli escrementi della grande California, quella Alta: ma qui inizia la Bassa, e inizia nel modo peggiore. Uomini-avvoltoi stazionavano col piede appoggiato ai muri di sordide catapecchie organizzate, si fa per dire, in un reticolato ortogonale di strade sabbiose. Chi conosce, a Roma, lo schifoso viottolo di Porta Portese dove, tutti i giorni (non rientra nel discorso del mercato delle pulci domenicale), sono venduti ricambi di auto e motorini perlopiù di provenienza furtiva può capire l’impressione che ne ebbi. Nel cielo si vedono perennemente gli elicotteri del Servizio Immigrazione degli States, lugubri. Pattugliano la frontiera per impedire che il reddito medio di quelli della Alta (che però si chiama solo California, come se fosse l’unica legittima) venga abbassato dall’afflusso di quelli della Bassa. L’uscita dagli States verso il Messico è una di quelle normali frontiere sonnacchiose, dove ti guardano in fretta e furia incalzati dalla fila. Varcandola, compresi perché in tanti films si vedono quei lunghi inseguimenti a cercare di bloccare quello di turno che fugge verso il Messico. A parte la possibilità di fare un gigantesco blocco stradale, ma se non lo individuano prima, se non sanno in anticipo che faccia abbia, non avranno mai la capacità di impedirgli l’espatrio.
È l’inverso che è assai complicato. Entrare negli Stati Uniti. Io lo sperimentai, tempo dopo, a Mexicali, più o meno dall’altra parte dell’attacco della lunga striscia di terra chiamata Baja.
Il primo shock fu durante la coda per passare, che si sviluppava per una strada parallela alla linea di confine. Ebbene, questa linea era fisicamente rappresentata da un muro di cemento armato sormontato da filo spinato. Esattamente come quello di Berlino. Mancavano i graffiti e la terra di nessuno, ma il concetto era lo stesso: non si deve passare. Arrivò finalmente il momento di sottoporsi al check-point: forse Carlos?
Le grigie guardie messicane sorrisero alla macchina che tornava a casa.
Il pistolero gringo, con i suoi baffoni rosci assolutamente fuori luogo in quel luogo semidesertico, chiese i documenti. L’automobile aveva targa della California (quella senza aggettivi geografici). I passaporti consegnati erano italiani. L’equazione non gli tornava. Perché degli italiani, o piuttosto delle persone che esibivano passaporti italiani, tentavano di introdursi nel sacro suolo nordamericano (che poi, volendo, sarebbe quello del melting pot...) alla guida di un’auto statunitense, o piuttosto che recava una targa statunitense? No: c’era qualcosa sotto. Si innervosì.
Per fortuna era stupido. In genere gli stupidi sono la più grande iattura: notoriamente più pericolosi dei cattivi. In quel caso la stupidità del frontaliere gringo si risolse in una fortuna.
Voleva assumere un atteggiamento intimidatorio. Teneva i documenti in mano e strillava frasi precotte che, evidentemente, gli si formavano in mente rinvenendo da qualche manuale. Per mia buona sorte, non capivo granché. Era troppo concitato, la pronuncia doveva essere più verso la texana che altro: il caldo che, con il motore spento (e quindi anche il condizionatore) e il finestrino aperto, iniziava a opprimermi più ancora del gendarme, faceva il resto. Capii che stava ripetendo per la terza volta la stessa domanda.
“The car was hired in Los Angeles some days ago. We’re now going back there.”
Sapere che la macchina era stata locata a Los Angeles e che si tornava lì non lo soddisfece. Dubitava della veridicità della cosa. Qualcosa, ancora, non gli tornava. Gli mostrai il contratto di noleggio. Uhm. D’improvviso, cominciò a girare intorno all’auto in senso antiorario, esaminandola con apparente cura.
In verità, quello che doveva notare l’aveva in mano già da un po’ di tempo. Ma era stupido.
Stette un bel tempo a rimirare il posteriore della Kadett, poi risalì il fianco destro. Quindi, si mise meticolosamente a osservare il frontale. Tutto a un botto, scoprì il bollino della Hertz sul paraurti. Potei notare un accenno di qualcosa che somigliava a soddisfazione.
Si riavvicinò al mio vetro e chiese nuovamente. La seconda volta, capii che mi chiedeva dove e quando fosse stata affittata l’automobile. Senza parlare, per non ripetermi, allungai il braccio e gli indicai luogo e data del noleggio. Niente, ancora non tornava qualcosa.
Fece un altro giro della macchina. Lo segui con la testa fuori del finestrino, quanto bastò per incrociare con lo sguardo i componenti della vettura dietro, che aspettavano il proprio turno. Feci loro un sorriso complice. Ne ricevetti in cambio sguardi di pietra. Erano una famigliola yankee che rientrava da una gita nella natura. Guidava la moglie, biondina e rinsecchita. Condividevano apertamente lo zelo della guardia e avevano, loro giuria popolare, già deciso la nostra colpevolezza. Non potevamo che essere colpevoli: altrimenti, perché tanto lavoro da parte del guardiano della Sacra Frontiera? Guardai bene, sul loro paraurti anteriore c’era l’odioso adesivo “I’m proud to be an American”, “Sono orgoglioso di essere un Americano”: del Nord, devo ritenere.
Intanto, il nostro gringo de la frontera aveva completato il suo giro. Disse altre cose in quel modo da cerbero di provincia, che non capii, stette un altro momento a cercare di far funzionare quanto teneva dentro la scatola cranica: poi, con uno scatto del braccio, riconsegnò le carte e intimò di ripartire. Hasta luego, tonto.
Quello che doveva notare, era sui passaporti: mancava il visto di uscita dagli States. Al San Ysidro Border Crossing, lungo la 805, prima di Tijuana, scambiandoci per yankees neanche ci avevano fermato, nessuno aveva vistato i passaporti di stranieri che uscivano. La situazione era illegale, si era alieni. (Proprio così li chiamano, i disgraziati che per libera volontà, disperazione o coattamente penetrano nel sacro suolo senza visto: illegal aliens.)
Ma, in ultima analisi, quel che ora importava al gringo era che ci fosse il timbro d’ingresso del Servizio Immigrazione che qualificava, implicitamente, come turisti. Italiani. Dunque non chicanos.
Non saremmo andati a lavorare in nero, inguattati dentro fabbriche nascoste in qualche arida valle più interna intorno San Diego o Los Angeles, a produrre sottocosto per rendere più competitiva l’economia della California e dell’America (del Nord), per migliorare il loro politically correct welfare. Non saremmo andati a servizio in qualche villone volgare abbarbicato sulla costa o disteso su qualche poggio.
Ho studiato la storia: quando i Romani, gli Americani dell’antichità, dominavano per davvero il mondo, non alzarono una sola palizzata del più misero legno. Chi veniva a Roma, bastava che gettasse terra e frutti del proprio Paese nell’Umbelicus Urbis per essere accolto nel cuore dell’Impero. Fu quando quella società era già minata nelle radici che ebbe la necessità di porre muri di cemento e mattoni: ma si rivelarono inutili sotto la spinta dei popoli affamati, e dopo ci volle più di un millennio per raggiungere di nuovo un pari livello di progresso.
Oddio, questa fetta di Messico (il resto non lo conosco) non è che stia alla fame, ma certo non allo stesso livello di progresso di a nord del muro. Uscendo da Tijuana e dirigendosi verso la strada costiera, ai margini dell’abitato, si compì l’esperienza del rifornimento di benzina. Serviva. Pensando che di là costasse ancora meno, non s’era fatto negli Stati Uniti.
La pompa era una vera pompa, nel senso che gli apparecchi erogatori erano quelli vecchi con la leva sul fianco da azionare a mano per far salire il carburante in un recipiente posto sulla sommità della colonna. Una volta riempito, il liquido energetico è fatto scendere nel serbatoio dell’automobile grazie alla buona, antica legge di gravità. Dalle nostre parti solo i più vecchi li ricordano. Tre chilometri prima, a nord, l’ultima stazione di servizio era l’usuale fiera della tecnologia, con le pompe – si chiamano ancora così, e lo sono – scintillanti di cromature e di vernici metalizzate dai colori accesi. Qui, tutto era coperto da un velo di sabbia, talvolta sottile, talvolta più spesso, legato a macchie di idrocarburi leggere ma estese ovunque: i due elementi, la roccia triturata e il liquido minerale, uniti in quella simbiosi, davano l’impressione di pretendere di vivere. Per sempre, oltre la caducità dei viventi conclamati, asfissiati proprio da quella bava puteolente.
C’era un ragazzetto sui 14 anni: era l’unico inserviente. Chiesto il pieno, iniziò lo spettacolo del lento pompaggio della benzina e della sua successiva calata. Riempito lo stomaco della macchina, chiesi quanti pesos dovessi. Capii subito che quello che si era svolto fino ad allora era stato solo il prologo dello spettacolo.
Il ragazzetto sembrò sorpreso dalla domanda. Mi guardava con aria come assonnata. Entrambi dovemmo pensare (io sicuramente) che c’era qualcosa che non funzionava con la lingua. D’altronde, il mio spagnolo, allora, era di formazione spagnola: e mi accorgevo rapidamente di come fosse differente la pronuncia latinoamericana. Furono lunghi momenti quelli che passarono mentre cercavo di fargli capire che volevo pagare, ma non sapevo quanto. Finalmente, si scosse da quello strano torpore che almeno apparentemente lo vinceva e si mosse verso il casotto retrostante, che subito si qualificò come “ufficio”. Nell’andare, mi fece un pigro cenno di seguirlo. Lo feci, anche se non capivo la difficoltà.
Vi entrò e sembrò non sapere se poi io dovessi introdurmi all’interno a mia volta. Senza dargli tempo di pensarci, varcai deciso la porta.
Era un prefabbricato più o meno di tre metri per cinque. In quei 15 metri quadrati stavano non so quanti uomini indaffarati a non far niente. Proprio di fronte all’entrata c’era una scrivania, altre due si contrapponevano sulla sinistra. Dietro la prima, un tipo arruffato scorreva lentamente ma con palese bramosia le pagine di una rivista pornografica, girandosela tra le mani per comprendere meglio alcuni particolari, decifrare qualche posizione o semplicemente aumentare l’eccitazione, rendendo più realistica l’inquadratura. O la mia presenza non la riteneva rimarcabile oppure non l’aveva neppure percepita. Continuò sudando a documentarsi.
Nel frattempo il ragazzetto, dopo aver atteso che i grandi finissero di applicarsi – con cura – al nulla, introdusse a bassa voce la questione. Un tipo giovane, dal viso cotto ma non ancora abbrustolito, con un ciuffo di capelli chiari che gli conferiva, anche per il naso rispettabile, un aspetto da vecchio condor mi si fece sotto, apostrofandomi con voce gracchiante, appunto.
Spiegai che volevo pagare e quindi volevo conoscere la cifra esatta da corrispondere.
Capì. Io compresi che la cosa lo infastidiva davvero parecchio. Ci pensò un po’, poi si decise; non c’era via d’uscita. Obbligò il ragazzetto a seguirlo e ci portammo tutti e tre sul luogo del fatto. Interrogò il subordinato, facendogli ripetere l’intera dinamica dell’accaduto. Infine, pensò ancora.
Si appoggiò alla pompa con il braccio sinistro e alzò il destro fino al punto del recipiente in alto che sapeva essere il livello massimo dove arrivava la benzina e, muovendolo poi verso il basso, chiese conferma:
“Da qui a qui?”
Parlò non so veramente in quale lingua, ma il suono e il significato erano comprensibili, lo sarebbero stati dal polo all’equatore. “Da qui a qui?” accompagnando con la mano stesa
Sí.
Si rivolse a me.
¿Pesos? ¿Dólares?” Aveva acquistato un po’ di energia.
Dólares.”
¡Ay, dólares!…” Aveva una risatina vagamente sarcastica.
Dólares. ¿Cuánto pago en dólares?
Ecco, finalmente il nodo era venuto al pettine. Rimuginò a lungo, per secondi e secondi. Interminabili.
Eh… Uhm… Uhm… Como quince dólares…
Non saprò mai se quei quindici dollari, così precisi, così senza spicci, così aleatoriamente determinati, siano stati il prezzo giusto: ma siccome dentro c’era anche il costo del biglietto per lo spettacolo…
Si riprese il cammino, inforcammo la Mex 1 che discendeva la costa. Dopo poche miglia, all’altezza di Rosarito, apparve. Era di una bellezza forte ma soffocata: urlava in silenzio, mi verrebbe da dire. D’altronde, c’è poco da fare: certe frasi fatte, come quest’ossimoro, si evitano a fatica di fronte a visioni che toccano qualcosa dentro di noi.
Roccia pelata violentata dal sole si tuffava a strapiombo dentro l’azzurro. Era tutto un susseguirsi di crani rossastri imprigionati dall’acqua dell’oceano, che se avessero avuto vita avrebbero gridato per vincere quell’immobilità. Io volevo gridare per vincere l’immobilismo.
66 miglia a sud di Tijuana si incontra Ensenada, adagiata in fondo a un’insenatura (da cui il nome, suppongo), la Bahia de Todos Santos. A vederla sulla cartina pubblicata sul Baja Sun (giornale turistico in inglese, al pari del Baja Times e probabilmente di altri fogli simili), sembrava una bella cittadina: tutto un regolare reticolo di vie, affacciata sul porto, percorsa da strade di scorrimento veloce...
La stragrande maggioranza delle vie erano ricoperte o addirittura costituite di sabbia. Le case che le contornavano erano casupole appena un po’ più dignitose delle baracche di Tijuana. Però la gente faceva molta meno impressione che nella città di confine. La sensazione di stare nel Terzo Mondo, magari in qualche povero Paese africano, era tuttavia netta.
A Ensenada entrai in una banca, a meridione, mi pare dalle parti del monumento a Juarez. Posteggiammo sulla strada asfaltata in prossimità di un curvone con il quale si usciva dalla città. Radiale rispetto all’esterno della curva, una striscia di polvere affrontava dritto per dritto la montagna, pretendendo di condurre in tal modo a un minuto pueblo che si intravedeva lontano.
Di fuori era tutto uno splendere di marmi; dentro pure. Pavimento in morbida moquette azzurra, mura color panna o champagne (con questi nomi inventati di colori non ci capisco niente) che bene si abbinava, staccando, all’altro. Banconi nero lucente. Piante ornamentali ovunque. Aria condizionata da standard statunitense. Impiegati in camicia maniche corte e cravatta.
La gente in fila: tre in giacca, di cui uno con gli stivali; due donne in tailleur; dodici o tredici coi vestiti logori e impolverati.
Ero mezzo impolverato anch’io, d’altronde: solo per essere sceso al distributore e per aver attraversato la strada. Espletai quel che dovevo, uscii e mi reimmersi nel baraccume.
La costa pacifica è solo uno degli aspetti della Baja California. Un altro è l’interno.
L’interno era un susseguirsi di montagne e amplissimi pianori leggermente viventi: come una peluria verde che sporcava enormi distese di sabbia terrosa. Le rocce erano rosse e sembravano di plastilina. Sensazione che fossero molli e modellabili, impressione che ne spuntasse fuori Pecos Bill o un altro personaggio di un simpatico fumetto western, voglia di morderle.
Ci fermammo a mangiare in una casa azzurra dove una giovane signora procace e sua figlia un po’ bruttina si masturbavano le orecchie con sdolcinate canzoni d’amore diffuse a un livello di decibel inaccettabile. Erano gentili e servizievoli. Amabili. Non so quanti affari potessero fare in un posto dove incontrammo sette macchine in 155 miglia (250 chilometri), però apparivano felici. Fuori della finestra, dal tavolo, si vedeva un uomo minuto che con calma, solo sotto il sole, scavava una trincea. Non se ne comprendeva apparentemente motivo. Pensai: “Si sta scavando la fossa!” Forse era per questo che lasciava il mucchio di sabbia e pietra giusto a fianco del bordo sinistro della fossa: così da poterla ricoprire facilmente.
Le due cultrici dell’amore romantico servirono delle limonate, cioè proprio spremute di limone allungate con acqua e ghiaccio. Poco accorte: l’acre del limone seccò le ghiandole, esaurendo la sensazione della sete, per cui non consumammo la quantità di liquido che si sarebbe addetta al viaggio e al caldo (non eccessivo ma protratto). Forse solo oneste.
Ripartimmo, e furono ancora di quelle distese enormi coronate dalle montagne. Il fondo era talmente lontano che, zoomando con la telecamera, non si apprezzava l’ingrandimento. Dalla strada asfaltata che percorrevamo si dipartivano ogni tanto carrarecce fumanti di polvere biancastra che si inoltravano dritte in queste estensioni, scomparendo alla vista intonse. Erano l’unico segnale effettivo della presenza di attività umane, per un principio induttivo. Altrimenti, all’osservazione nulla si rilevava.
Al termine di una di queste larghe vallate, la strada risaliva, cominciando ancora il gioco con le rocce morbide, tra curve non protette e pezzi di plastilina caduti sulla carreggiata. Tagliato l’ennesimo sperone e osservato ancora l’interno della strana materia cercandovi un qualche personaggio dei fumetti, mentre la voglia di addentarla si riaffacciava in bocca, ecco stagliarsi una lunga striscia di intenso blu. Il mare, di nuovo. La Baja era stata traversata. Non è una grande impresa, però…
Il ricordo più nitido è il ruvido accostamento tra il rosso della roccia e il blu del mare. Da lassù, non si vedeva l’interposizione della sabbia grigio-bianca. Sembrava un grande schermo attraversato da queste due bande, luminescenti per il sole ormai basso dietro le spalle.
Di questa costa del Mar de Cortés (non voglio chiamarlo Golfo di California) ricordo un ristorante in un paesotto lungo la strada. Cattedrale del deserto. La polvere sabbiosa che ricopre ogni cosa, da quelle parti, si fermava miracolosamente fuori della porta. La sala era enorme, credo che avrebbe potuto contenere tutta la popolazione del posto, compresi quei maialini magri con i quali dei bambini scalzi giocavano nel pomeriggio cinquanta metri più in alto, come fossero cuccioli di cane.
Sedie di bel legno scuro si affollavano intorno a tavoli dalle coperte a scacchi bianchi e rossi, ornati da vasetti di fiori, in prevalenza roselline rosse, di un’eleganza appena un po’ esibizionista. Molti camerieri, in pantaloni e gilet nero su camicie rosse si intonavano ai colori dell’ambiente, con l’unica nota, solo a prima vista stonata, dei tovaglioli bianchi che portavano perennemente con se; chi ben ripiegato a cavallo del braccio sinistro, chi in mano, chi appoggiato sulla spalla. Un paio di televisori tenuti in aria da staffe pendenti dal soffitto davano un aria gringa all’ambiente. Alcuni camerieri languivano messicanamente inerti, altri erano in preda al moto perpetuo, come elettroni eccitati attorno a un nucleo che non vedevo.
Non c’era nessun cliente, a parte uno strano tipo che stava appoggiato al bancone della zona bar. Era ovvio. Chi poteva esserci, in un qualsiasi giorno d’inverno in quel posto sabbioso di deserto lungo la costa orientale della Baja California?
Il nostro ingresso fu dunque salutato a dovere. Persino uno dei camerieri inerti sembrò risollevarsi un attimo. Lo spin elettronico di molti inservienti raggiunse, sottoposto all’energia del nostro ingresso, livelli inaspettati. Mi parve evidente che un nucleo intorno a cui ruotare doveva pur esserci: ma non lo identificavo. Perché questi elettroni restavano a orbitare là dentro, dove non c’era scopo apparente, e non si sganciavano per uscire fuori, divenendo portatori di energia a quella landa inerte? Perché rimanere inerti loro senza prospettive?
Qualche forza doveva costringerceli. Mi decisi per l’osservazione scientifica, registrando tempi e movimenti. Ma non potevo tracciare, così (come apparve chiaro dopo) non riuscivo a evidenziare i picchi, in verità lievi e spesso non appartenenti al movimento principale. Fu così ancora una volta l’intuizione a porgermi la chiave.
L’attenzione mi fu richiamata dall’unico elemento anomalo della scena: lo strano tipo che penzolava con la testa dietro al bancone, avendone i piedi davanti. Ebbi l’impressione che dietro di lui ci fosse qualcosa, qualcun altro. Nonchalentement, iniziai a dondolare la sedia fino a farla appoggiare con la spalliera al muro.
Tutto mi apparve chiaro quando vidi lei.
Stava dietro il bancone, occultata da un vecchio registratore di cassa con i tasti in metallo sporgenti. Da quel poco che scorgevo dal precario equilibrio, era la quintessenza della femminilità. Avrà avuto vent’anni, eppure il volto, che si intuiva dolcissimo e malizioso, mostrava recondite maturità precoci. Questo lo capii meglio quando mi alzai, falsamente vinto dal bisogno di andare al bagno.
Teneva un fiore di stoffa rosso nei capelli neri. Aveva una ampia camicia, forse da uomo, bianca. Era lei il bilanciamento cromatico dei camerieri.
Gli occhi? Ma neri, ovviamente. Forti, intensi, disperati.
Erano in lei i colori dell’intera sala, ma in proporzioni apparenti opposte. Tuttavia, il tanto rosso delle tovaglie, degli addobbi e delle camicie riceveva colore da quel suo fiore rosso intrappolato nei capelli; il nero dei camerieri e i camerieri stessi erano tenuti accesi dai suoi occhi ardenti; il poco bianco distribuito intorno era come un pegno o un vincolo che, legato alla sua camicia imposta – così poco femminile, quella – l’obbligava a rimanere per vitalizzare il posto.
Mentre tagliavo il locale e mi si rivelava tutto ciò, alla TV finiva una telenovela americana. Colsi i suoi occhi, si spensero per un infinitesimo di secondo: basta sognare, sei prigioniera di questo ristorante per ricchi gringos!
Seppure incalcolabile, la caduta di tensione dei suoi occhi fu avvertita almeno dai capi-cameriere, che si riconoscevano perché le loro camicie erano arricchite da pacchiani jabots. Ebbero come una leggera esitazione. Se ne accorse lo strano tipo, quello che mi aveva tenuto coperto il nucleo atomico, disse qualcosa a lei in malo modo.
Ormai dovevo entrare al bagno. Sugli schermi iniziò un telefilm di Hollywood.
Quando uscii, questo tipo pencolante, con i capelli lunghi e sudati, le teneva un braccio; ma lei non mostrava di potersene liberare, anche se di fatto l’avrebbe potuto facilmente. Un “jabot” si stava avvicinando frettoloso, ma si accorse della scena e si bloccò deferente. Fu visto chiaramente da lei ma non si mosse. Soltanto quando lo vide lui, quello si rimise in movimento. Lo schifoso l’interpellò sgraziatamente e il capo-cameriere rispose preoccupato. Insomma, quel letame era il padrone del locale e di lei.
Ma giuro che lei avrebbe meritato anche più della telenovela: protagonista di un sogno hollywoodiano. Altro che sprecarsi a ingentilire e dare anima a quel grottesco ristorante. Avrei voluto essere l’eroe che la salvava, il cavaliere che sconfiggeva il malvagio e portava via la fresca rosa sul cavallo bianco. Tornai al tavolo.
Un tratto della strada costiera sul Mar de Cortés mi rimase particolarmente impresso, perché fu lì che presi consapevolezza di un particolare. Anche qui, su questi rettilinei lunghi fin oltre l’orizzonte sperabile, ma larghi appena quanto basta a far passare due camion nei rispettivi sensi (quando mai passassero), il ciglio stradale era costellato di croci. Uso comune alle nostre statali, pensai distrattamente all’inizio: anno dopo anno, il mezzo di trasporto più pericoloso che esista, l’automobile, chiede il suo tributo. Certo, le nostre strade sono percorse da migliaia, milioni di vetture: qui, nel silenzio implacabile, senti ogni tanto un rombo lontano, come di un aereo – forse un quadrimotore a elica – che si avvicina, poi scorgi un punto luminescente in fondo, fino a scoprire, quando ti saetta accanto, che si trattava solo di una carretta di lamiera. Già questo mi lasciava inquieto.
Ma fu solo lungo quel tratto che mi sconvolsi del tutto quando, osservando con maggior cura, mi si rivelò la vera natura di tante di quelle croci. Non erano un pio ricordo. Erano il segnale cristiano di una sepoltura!
Molti ci morivano e molti che morivano venivano sepolti direttamente lì, nella sabbia accanto all’asfalto! Si vedeva chiaramente, una volta capito, tutto il perimetro del tumulo che ricopriva la fossa, con la croce non confitta in terra, dunque, ma posta in cima alla ricopertura. Mi chiesi che fine facessero le carcasse delle vetture, ma ricordai di averne viste alcune tra le baracche dei paesi attraversati. Un corpo non serve più a niente, la lamiera, il ferro, i vetri, la gomma, quelli valgono.
E purtroppo, in questa parte di Messico troppo a ridosso del muro, c’è anche chi viene fatto morire vivo, condannato nella tomba di un ristorante. Perché, inerte anch’io, non ero stato un eroe da film?
Sarei stato solo capace di divertirmi come un giuggiolone con un frontaliere dai baffi rossicci…

Kruger Park

29.01.2014 19:40

La mia immagine del Kruger Park è il leopardo sull’albero. Due volte, due botte.

La seconda è subito. Guido un attrezzo, il pick-up della Ford di Mamane che frena poco, butta di brutto a destra, arranca un po’ e ogni tanto gli si inserisce l’allarme. Però ce l’ha prestato con rara generosità, grande Mamane, e allora bene anche senza air conditioned. Poco importa se a Ressano Garcia ci siamo accorti di non avere il certificato di assicurazione. Sarebbe obbligatorio produrlo. Una appropriata astuzia femminile ci ha salvato, una specie di finta di corpo, un colpo da “tre carte”. Siamo anche riusciti a non farci taglieggiare da una agente di frontiera sudafricana che voleva cambiarci i meticais in rand. Chissà con quale commissione.
Già abbiamo visto una giraffa con un figlio grandicello in una proprietà a sinistra della highway che scende dal confine, sembra un miracolo, la grande aspettativa subito esaudita. Li riempiamo di foto, poi entriamo a Malelane. Anche stavolta si dorme a Skukuza.
Odio i safari. L’altra volta mi sono divertito solo al giro notturno sul camion, per il resto due scatole paurose. Però al ristorante si mangia bene e tanto a prezzi stra-ragionevoli. E poi non potevo negare la gioia di incontrare gli animali selvaggi. Oltre a me, intendo dire. Non mordo, parlo poco, ma ringhio sentenze.
Insomma, all’ingresso pago entrata e confermo pernotto, a seguire qualche uccello, e quegli alberi bassi sempre in una sorta di perenne inizio autunno in mezzo ai quali devi cercare gli animali. Pochi chilometri solo con un paio di mangustine in mezzo alla strada. Devi stare attento, all’inizio ti sembrano sassi o smerdate di qualche mammifero, poi vedi quest’escremento alzarsi dritto e ti dici che non è possibile che gli escrementi si alzino senza vento. Infine, all’improvviso noti gli occhietti un attimo prima che schizzino via dalla carreggiata e si infilino nell’erba, scomparendo.
Il modo migliore per avvistare animali dentro al Kruger è di osservare rallentamenti e fermate delle altre macchine. Meglio di tutte, le jeeppette guidate dal personale del parco. Sono i giri a pagamento, loro conoscono le abitudini degli animali, stimo che si abbia un 25% in più di possibilità di buoni incontri. Così, ne noto una ripartire dalla parte opposta alla mia carica di bimbe biondine, madri biondine, tutte così biondine e così rigorosamente vestite da safari che mi fanno chiedere una volta di più se ‘sti boers hanno davvero accettato il nuovo corso delle cose. Ma quella è un’altra storia. In questa, le biondine controllavano i visori delle macchine fotografiche.
Rallento, mi accosto sulla sinistra e guardiamo tra la vegetazione. Niente. Quindi, un sovvenimento. Alzo lo sguardo e vedo la coda.
“Sta sull’albero”, dico. E’ una bestia molto bella, nobiltà da felino ostentata. L’apparizione del leopardo appena entrati nel parco è un buon segno: infonde gioia, insieme alla soddisfazione. Foto, foto, foto. Sbadiglia, alza un sopracciglio ad ogni scatto, stiracchia la coda, lunghissima.

L’autovettura non è un obiettivo, per le belve. Te lo ripetono all’infinito. Se rimanete in macchina, non vi attaccheranno mai. Ma, se scendete, diventate una preda. Non scendete mai.

La prima volta ero sceso subito.
Non era stato all’inizio, anzi dopo aver lasciato Skukuza. Avevo già visto la giraffa, l’elefante, l’ippopotamo e soprattutto il rinoceronte. L’elefante è più grosso e alto, la giraffa molto più alta, l’ippopotamo certamente più pericoloso, ma il rinoceronte fa veramente impressione. È un carro armato, un Transit animato e imbottito di piombo. Lo vedi, e ti rendi conto che “meno-male-la-macchina-non-è-un-obiettivo”: altrimenti, capisci al volo, il tuo fuoristrada è destinato a una fine ingloriosa, e tu con lui. Quando prende un po’ di corsa, senti il terreno rimbombare. Fortunatamente, li ho visti correre solo per andarsene via scocciati. Il rinoceronte ti lascia ipnotizzato, con la bocca spalancata. Capisco Ionesco, ma non fino in fondo. Il rinoceronte sulla piazza del paese è quanto di più in grado di creare scompiglio, di sovvertire le proporzioni delle cose percepite. In parallelo, la sua possanza, le sue corazze e anche il suo sguardo senza dubbi attraggono quanti non chiedono di meglio che accodare i propri comodi e interessi a chi appare possente, corazzato, senza dubbi.
Però il rinoceronte, dopo l’impressione iniziale, ti suscita sentimenti positivi, ti viene quasi la voglia paradossale – che poi non lo è – di proteggerlo, lui relitto di una Terra antica: ti sembra a disagio in questo mondo più minuto, è una minoranza. Parteggi per lui. I rinoceronti non saranno mai una maggioranza, men che meno urlante.

Allora, quella prima volta al Kruger, ero sceso subito non appena visto il leopardo sull’albero. E subito ligi boers mi avevano ricordato che ciò era vietato.
Nonostante una infantile propensione ad amare ciò che è vietato, approfitto della circostanza per osservare ancora una volta come nei Paesi ispirati da civiltà più evolute, le cose sono vietate e punto. Da noi, le cose sono vietate severamente, rigorosamente, espressamente, qualunquemente. Perché il solo divieto, figurati se basta!
Ma dunque, i boers pallidi mi ricordavano acerbamente il divieto. Ma santa pace, dicevo io: uno, non ti levi da sotto l’albero nemmeno se hai riempito la memory card perché ti senti investito del diritto divino di aver conquistato quel posto e non mi fai spazio; due, ma ti sei accorto che non sono sceso in mezzo alla macchia, bensì al centro di un agglomerato di sei o sette fuoristrada da cui fuoriescono commenti che messi tutt’insieme fanno, nel silenzio arcaico dell’altopiano, una caciara non da poco?
Così avevo risposto con uno “yes” polemico, e avevo fatto la mia foto da una postazione similare a quella del tipo più ligio. E maleducato abbastanza, che proprio di spostare il suo all-terrain vehicle non lo concepiva. O egoista. O razzista. Insomma, un boer. Vil razza dannata!
Il più sensibile là in mezzo era il leopardo. Anzi, là sopra: dava aristocraticamente le terga al pubblico, si voltava col muso a valutare se prima o poi il chiasso sarebbe finito e riusciva a rimanere immobile per lassi di secondi incalcolabili. Il calcolo da brivido se ce l’avrebbe fatta a saltarci in testa credo che lo stessimo facendo tutti.
In realtà sembrava compatirci. Principe eroico e infastidito, magnanimo verso i giullari di se stessi che eravamo noi inquadranti la vita in un mirino. Lui, in nobile ombra, noi villanamente sotto il sole impolverati. In alto lui, e noi in basso: ma ci sapeva falsamente adoranti. La diffidenza traspariva dai movimenti della coda, che perlustravano le vibrazioni dell’aria e dei nostri petti.
Mi era venuta voglia di far allontanare tutti, di lasciarlo in pace. Sentii l’idiozia di quel vagolare in fuoristrada a cercare l’animale selvaggio. Era tutto un film, un parco-Disney; mi convinsi che la giraffa che ci aveva aspettato fuori del cancello di Skukuza al calare della sera era pagata dalla direzione. Sali sul camion, esci dal rest camp e subito la vedi, maestosa e ancora coi suoi colori di sole. Come può convivere la selvatichezza di questi animali con la forsennataggine di quest’altri mille insetti a motore lamierati che ronzano per strade troppo spesso anche asfaltate?

La premessa maestosa del leopardo sull’albero non condusse alla maestà. La cercammo a bruciarci gli occhi, a intendere lyon quando la secca-in-tutto boer aveva detto rhino, a confermarci fino a escludere ogni dubbio, ragionevole e irragionevole, che quello era proprio un masso e non il re. Niente.
Peccato. Sarebbe servita una presenza maestosa.
Sarebbe servita per dimenticare tante cose, perché il ricordo si incentrasse sulle belve animali e non su quelle umane. Per consegnare a un ipocrita oblio che questo è il Paese di Soweto, dei razzismi tra etnie nere, delle persone imprigionate in un copertone di camion calato a forza dalla testa e poi uccise incendiandolo; che questo è il Paese ancora in mano alle multinazionali colonialiste e razziste, delle miniere dalle condizioni di lavoro infami, dei bianchi che giocano a rugby e dei neri che giocano a football; che questo è il Paese con il più alto numero di malati di AIDS, o forse quello che sa contarli meglio, che respinge gli immigrati alla frontiera mozambicana e utilizza i mozambicani per il bracconaggio dei rinoceronti; che questo è il Paese di Mandela e di Desmond Tutu; e di Stephen Biko e di tante, troppe altre sofferenze e morti.
Ma invece forse è meglio. Perché si può spegnere una candela, ma non si può spegnere un incendio. Una volta che le fiamme cominciano a prendere, il vento le sospingerà più in alto.
“You can blow out a candle
But you can't blow out a fire
Once the flames begin to catch
The wind will blow it higher.”[1]
Forse con l’avvistamento della maestà avremmo soffiato sulla candela, appagati dal conseguimento dell’obiettivo di rapina, di nuovo turisti da due giorni e già dimentichi della propria coscienza. Invece restiamo nell’umiltà di essere costretti a ossequiare dal basso già solo il principe.
Una volta fotografavo alberi d’inverno con un grandangolare dal basso. Il tronco appariva più lungo e i rami spogli tendevano a confondersi col cielo, o come a costituire delle drammatiche sue ossature. “La visione da formica degli alberi”, la chiamai una volta. Soccorreva la mia ricerca d’umiltà.
Umiltà davanti a tanta Natura! Come può l’uomo concepire di passare al supermarket degli animali selvaggi e prelevare un’emozione incellofanata dentro i cristalli di un fuoristrada? Portare a casa un facile trofeo in megapixel? “Non puntare mai la luce negli occhi degli animali”, ha detto e ripetuto l’aitante guardaparco zulu prima di partire per il giro notturno, prima di consegnare senza cautela i fari portatili istallati tra i sedili del camion alla turistica smania di ricordo. E subito un asiatico dal rutto continuo, giapponese, coreano o che, la prima cosa che fa è abbagliare le povere gazzelle disturbate nella quiete ultima che precede l’alba, e poi gli ippopotami eccezionalmente sorpresi fuori dall’acqua a brucare l’erba, e poi poco ci manca che gli mollo un cazzotto. E dire che la vista della pianura a savana dai primi rilievi delle Lebombo Mountains è una manata sulla testa della tua superbia umana, che ti rimpiccolisce e ti annienta. Fortuna l’averla condivisa.
Lo scaffale del leone l’abbiamo mancato. Grazie al cielo.

Insomma, usciamo dal Crocodile Bridge Gate non prima di aver fregato la boer secca-in-tutto e partecipato da sopra un ponticello a un qualcosa tra ippopotami: un gioco, una danza d’amore, un duello, chissà. Rispetto alle bocche spalancate di due dei temibili animali, che fuoriescono dall’acqua per incrociarle l’una nell’altra, siamo a pochissimi metri. In mezzo al ponte. Il super-fuoristrada verde mimetico dei boers dai teleobiettivi che spuntano dai finestrini, dietro: aspetta, ci stiamo noi, col vecchio pick-up blu di Mamane, che ce l’ha prestato senza conoscerci e tu ti sei incavolata solo perché non abbiamo capito il tuo inglese da boera.
Usciti dal Kruger, Komatiepoort presenta verdi praticelli anglosassoni e un supermercato vero dove cerco disperatamente una bevanda gassata. Mi manca l’acqua leggermente frizzante da tanti giorni, e anche questa è un’altra storia, ma penso che inconsciamente senta solo il desiderio di aiutare la digestione, di liberarmi dalla pesantezza di stomaco del folle safari usa-e-getta.

La via del ritorno rende la miseria di Ressano Garcia ancora più devastante la coscienza. Di là, con tutto l’AIDS e i mille problemi, sembra la Svizzera, al confronto. Qui le cento catapecchie popolano una inconcepibile aridità del paesaggio. Forse è l’aridità dei sentimenti che lo contagia. Una frontiera tra disperazione e speranza è uno dei posti peggiori per credere nell’Uomo. Ammiro quelle suore scalabriniane che qui continuano a farlo.
Più facile fotografare dal basso un leopardo su un albero.



[1] Da “Biko”, in Peter Gabriel (III), 1980, di Peter Gabriel.

 

Slangerup

22.01.2014 19:31

Irene mi attendeva alla stazione di Copenaghen. Non scesi subito dal treno, ma l’avevo già scorta passare davanti al finestrino mentre il convoglio frenava. Volevo godermi fino all’ultimo le meraviglie delle reali ferrovie danesi. Vagoni eleganti, comodi ed efficienti che nemmeno i vari Pendolini ed ETR italiani avrebbero - in seguito, allora non c’erano - mai raggiunto. Figurarsi l’impressione che facevano su un italiano, uso alla puzza, allo sporco, ai cessi da maschera a gas e tutte le altre delizie che le nostre carcasse ferroviarie ci riservavano (e in parte continuano a riservarci). E poi il personale, gentile e informato, ma anche rigoroso, in piacevoli divise, precise, ordinate e complete.
Arrivavo stanco per uno strano itinerario che mi aveva sballottato qua e là e con il morale raso terra per le solite ragioni delle cose che non filano bene e intorpidiscono le meningi.
Non vedendomi scendere subito, Irene era già corsa fuori del marciapiede del binario 4 per controllare se non fossi nell’ambulacro della Hovedbanegård, poi era rientrata. Era visibilmente seccata. Me ne dispiacqui davvero, ma non credevo d’aver fatto niente di male; soltanto atteso che altri viaggiatori fossero scesi per poi farlo a mia volta. Ero, d’altronde, uno dei pochi con qualche bagaglio, quindi non volevo impicciare. Finalmente mi vide, si rasserenò, ci abbracciammo, ma si vedeva che restava contrariata per l’accaduto.
Mi portò subito a prendere contatto con la città, andammo ovviamente sullo Strøget, prendemmo un caffe e un gelato a Gammeltorv. C’era un bel sole, si poteva essere a Trieste o a Bordeaux. Ci riavviammo quindi verso la stazione, dove avremmo preso un treno metropolitano per Slangerup, il sobborgo dove vivono i suoi.
Irene abitava oramai in città, in Frederik VII’s gade, non lontano dall’Università: era in un quartiere carino, con edifici in mattoni non tristi. Nel suo, Irene aveva un piccolo cortile dove, dentro un semplice box in legno, poteva rimessare la bicicletta. Agli angoli degli isolati, smussati secondo l’uso di fine secolo, i negozi di alimentari, colorati e disordinati (secondo la concezione scandinava di disordine: da noi sarebbero esempi di compostezza). La sua famiglia stava invece fuori, appunto in questo paese di Slangerup. Andarci, ora, era per me di grande curiosità, dopo averne scritto il nome decine di volte sulle buste delle lettere che inviavo a Irene. Un sobborgo molto piccolo, su nessuna delle carte in mio possesso era riportato.
Irene pagò i biglietti col bancomat: un equivalente di poche migliaia di lire. In quel periodo, da noi, era difficile trovare uno sportello automatico che funzionasse quando effettivamente avevi bisogno del contante. Tanto meno era in vigore il sistema POS. Il vagone del treno era praticamente quello di una metropolitana, adatto a trasportare grandi quantità di persone per tragitti relativamente brevi. Iniziai a formarmi un’idea sulle dinamiche del pendolarismo locale, avendo anche dato un’occhiata al tabellone degli orari.
Scendemmo alla fermata; fuori, entro appositi recinti, fughe cromate di manubri. C’erano biciclette d’ogni tipo: da corsa, da passeggio, da uomo e da donna, mountain-bikes; con su montati gli aggeggi più strani, per portare numeri considerevoli di bambini, pacchi e pacchetti. C’erano anche i classici cestini in fascette di faggio intrecciate e anche tutto uno scintillio di catarifrangenti rotondi, a striscia, fissi e mobili, di frecce e altri segnalatori, di bandierine danesi attaccate al sellino. La macchina di Irene ci attendeva; ci mettemmo in marcia verso casa.
La strada principale fu lasciata piuttosto bruscamente per immettersi in una stradina bianca, ben battuta, che partiva sulla sinistra in prossimità di una macchia d’alberi. Percorse poche decine di metri, gli alberi divennero un vero bosco e la strada, con una piccola esse, vi si addentrò decisa. Era un bosco misto di latifoglie e aghifoglie, decidue e perenni. Una prevalenza di pini e betulle, ma anche pioppi, faggi, abeti e altre essenze in numero minore. A 40 metri sul livello del mare, a causa della già abbastanza alta latitudine, vegetavano specie che da noi vivono intorno ai 1500 e oltre. La strada continuava diritta. Dopo poco, iniziarono improvvisamente delle ville immerse in questo paesaggio fatato: presto Irene frenò e si infilò in un cancello a sinistra. Eravamo arrivati.
L’incontro con i genitori fu alquanto formale: di un formale amichevole. La madre aprì la porta e si ritrasse leggermente, quanto bastava per lasciare la visuale sul padre che aspettò l’attimo preciso in cui io stavo per varcare la soglia per alzarsi dalla poltrona, sorridendo discretamente. Seguirono presentazioni. Quindi fui invitato a sedermi in salotto. I fratelli di Irene non c’erano. Chissà perché, ebbi l’impressione che stesse per cominciare un esame. Bene, è sempre così. Persone che sanno di te solo per riporto, nel momento in cui ti conoscono de visu ti fanno sempre passare un esame. Ovvio. Il fatto è che quella volta la sensazione era che l’esame sarebbe stato una vera e propria interrogazione. Tant’è che iniziai a giustificarmi, come a scuola: “Sono stanco, un po’ confuso, ho girato molto prima di arrivare a Copenaghen, ho cambiato molti climi...”
E l’interrogazione ci fu. Materia: storia romana. Ahi! Difficile in italiano, figurarsi in inglese... Proprio a causa della lingua, della quale i termini meno conosciuti sono sempre quelli che servono nei momenti in cui ci si dovrebbe trarre d’impaccio, l’esito fu penoso. Nonostante in cuor mio fossi orgogliosamente convinto di saperne ben di più di quell’avvocato civilista danese, sembrai uno studentello impreparato che cercava di sbarcare un diciotto. “Ma, porca miseria, eppure sono addirittura a un livello maggiore di quello che c’è scritto sull’enciclopedia di questo qui”, pensavo. Stanco, ero stanco. Confuso, pure. Di pensare in inglese, non se ne parlava proprio, ma non riuscivo nemmeno a tradurre in tempi utili. Mi impappinavo, come chi non sa. Cercai di rifugiarmi nella topografia di Roma antica, dove sarei stato indubbiamente più forte: “Che diamine, ci ho vissuto quattro anni a stretto contatto!” Niente da fare. Il padre di Irene, avvocato civilista, sfogliò le pagine di quella sua maledetta enciclopedia che doveva conoscere a memoria, trovò la cartina di Roma antica e iniziò a controllare quanto dicevo.
C’era però una cosa che mi sfuggiva, in tutto ciò. Era la cosa in se stessa. Cioè: perché questo brav’uomo doveva accogliermi con un’interrogazione?
Lo capii in seguito.
Un indizio l’avrei avuto, se fossi stato più lucido, proprio alla fine di quel tormento. Fu quando riuscii a volgere la non completa padronanza dell’inglese a mio favore creando un turbine di concetti, un rimescolio di opinioni, mostrando di voler confutare quanto asserito sulle pagine in mano sua ma senza riuscire – a causa della lingua, appunto – a spiegarmi doviziosamente. Qui l’avvocato, anziché attaccarmi frontalmente come avrebbe fatto un vero professore, mostrò di perplimersi molto e rimase lungamente a cogitare. Aveva uno strano movimento quando pensava, l’avevo già notato: annuiva col capo. In quel momento, annuì molto.
Viaggiavo con poco bagaglio, così non avevo portato cadeaux di grandi dimensioni. D’altro canto, quelli piccoli, di solito, sono costosissimi: dunque, avevo optato per qualcosa di “simpatico”. Una confezione-regalo di pasta italiana lunghissima e multicolore. Una novità che alle porte della Scandinavia sarebbe stata apprezzata. Ritenevo.
Non suscitò, quando la presentai, gli entusiasmi, sia pure magari di circostanza, che immaginavo. Strano. “Oh, fine”, fu lo scarno commento della madre. Il successivo “Is it made in Italy? Yes, yes, it is” preferirei dimenticarlo.
Insomma, qualcosa non quadrava: anzi, più cose. La strana e repentina interrogazione. L’aver mostrato zero sorpresa per gli spaghettoni agli spinaci, alla carota, al nero di seppia e normali che avevo portato tutti belli infiocchettati di verde, bianco e rosso. Se vogliamo, una punta appena di maleducazione in gente di un popolo che dell’educazione e della forma fa una bandiera.
E un’altra cosa, che nel momento in cui stavo tirando le fila di quei primi minuti dentro la casa nel bosco di Slangerup mi si concretizzò. Preparato alla freddezza nordica, m’ero anch’io disposto – certo per quanto potevo in quello stato confusionale in cui ero stato cacciato – al controllo delle emozioni, alle esternazioni misurate, al lasciar parlare senza nemmeno osare pensare di poter interrompere. Tranne il terzo punto, peraltro, gli altri due mi riescono anche bene naturalmente: spesso non sono stato creduto italiano, infatti. Ebbene, l’impressione che stava prendendo corpo in me è che loro, i danesi, criticassero questo mio atteggiamento. Chissà!
Quando sei sotto di due gol e cerchi la rimonta, quello che assolutamente non devi fare è un autogol. Ti tronca le gambe, ti affossa definitivamente. Ovviamente, io spiazzai il mio portiere. Fu quando ci sedemmo a tavola, la maledetta enciclopedia ancora lì accanto. Avevo due gol nelle bisacce, giocavo in inferiorità numerica, la stanchezza mi segava in due, anche l’arbitro ce l’aveva con me. Ma la conversazione era tale, finalmente, l’atmosfera più gioviale. Mi fece vedere il vino (credo che fosse correttamente già aperto, trattandosi di un rosso), mi chiese se ne bevevo.
Yes, please, just a bit.”
Lo versò comodamente senza alzarsi, riempì tutti i bicchieri. Fortunatamente, era riapparsa anche Irene, che si era cambiata. Tutti eravamo a tavola, ormai. Una parola a destra, una a sinistra, un sorriso, un lavorio di meningi per capire Irene, che parla in slang a duecentoventi all’ora. Stress. Salvezza per quel ripiombare repentino nell’ansia: il vino. Ebbi l’idea che un sorso potesse ristorarmi. Presi il calice, lo portai alla bocca.
Proprio nell’attimo in cui le labbra si irroravano del frutto della terra e del lavoro dell’uomo, si fece il silenzio generale e l’avvocato si rischiarò la voce. Ero l’unico che avesse toccato qualcosa: non si poteva prima del discorso. Non si fa. Ovvio che non si fa, e chi l’aveva mai fatto prima? L’avvocato attese imbarazzato che riposassi il bicchiere, ormai però sverginato. Quindi, preso in mano il suo ma lasciatolo a mezz’altezza, imitato prontamente dagli altri, pronunciò un flemmatico preambolo del quale non capii un acca. Figura barbina. La forma! 3-0, partita persa.
Dopo cena, scendemmo in giardino. La casa era in pietra, nemmeno tanto grande, vista da fuori. Dall’interno, me l’ero figurata più spaziosa: tutta rivestita in legno, pavimenti e pareti. Non so che legno fosse (figurarsi, nello stato confusionale in cui boccheggiavo...); era piuttosto tendente al rossiccio, ma forse più per le sostanze che lo impregnavano che non per il suo colore naturale. Gli ambienti principali erano tutti al primo piano. Le finestre del salone incorniciavano angoli del bosco e i rami degli alberi bussavano dolcemente, spinti dal vento, ai vetri. Nel giardino, dall’aspetto “naturale”, con i medesimi alberi del bosco, trovai l’unico essere dal quale ebbi solidarietà e comprensione: il cane. Lo abbracciai; peraltro mi mancava il mio.
Non posso nascondere che, andando a letto, pensai di aver sbagliato a essere andato fin lassù.
Mi risvegliò un tenero cinguettio di uccelli. Ripreso contatto con il mondo, sintonizzati i sensi su “giorno”, sospirai: mi sentivo bene. Le scorie della pesante giornata precedente, superate. La stanza si era riempita di una luce che i riflessi delle foglie, ondeggianti al vento lì appena fuori dei vetri, rendevano vagamente verdognola. Con il salire del sole - ormai era già abbastanza levato - le chiacchiere dei volatili stavano aumentando. Prima di scendere dal letto, volli controllare che ore fossero, nel timore di aver fatto l’ennesima brutta figura, destandomi troppo tardi. Cercai l’orologio sul comodino di faggio, lessi l’ora.
Le tre e cinquanta!
Le corte notti estive del Nord avevano colpito. Passai una mezz’ora con gli occhi sbarrati e il cervello che rimuginava sulla sera precedente (i cattivi ricordi erano riaffiorati non appena avuta cognizione dello sbaglio), poi riuscii a riprendere sonno.
La seconda volta che mi alzai, l’orario era giusto. Non è che il sole apparisse molto più alto, in verità. Ci incontrammo in cucina per la colazione e mi chiesero cosa intendessi fare nella giornata. Ci si accordò per visitare subito Copenaghen: poi saremmo passati a fare un po’ di spesa e a raccattare l’ingegnere e uno dei suoi figli (l’altro lavorava a Rotterdam) alla stazione, poiché saremmo stati noi due, Irene e me, i primi a prelevare la macchina dal parcheggio.
Partimmo, la madre ci guardava con prematura nostalgia dalla finestra. Io feci un vago gesto, a metà strada tra l’intesa, la conferma del saluto già lasciato a voce e l’O.K., il programma è confermato, e montai in macchina. Guidava Irene: il padre mi cedette cortesemente il posto davanti. Appena seduto, cominciai istintivamente a scrutare il sottobosco, per rendermi conto di come fosse costituito. Per fortuna, mi ero ricordato d’allacciare la cintura di sicurezza. Ingranata la prima, ebbi come l’impressione che ci fosse agitazione a bordo, ma non me ne curai, finché non vidi quattro occhi che mi puntavano, mentre le mani di loro appartenenza si svitavano freneticamente fuori dei finestrini in segno di saluto. Dalla finestra, la madre ricambiava con enfasi. Sembrava che partissimo per la Siberia: invece si andava semplicemente in città, come (loro) tutti i giorni. L’ordine di quei quattro occhi era perentorio: “Fallo anche tu!”. Lo feci, con fervore da neofita.
Il Porto dei Mercanti (Køben havn) si mostrò in un’altra magnifica giornata di sole. Vedemmo le architetture di Amalienborg, facemmo l’interessante giro dei canali sul barcone turistico, con Irene che mi mostrava navi e magazzini, spiegandomi che questa l’aveva venduta, quell’altro affittato, di quell’altra ancora ne avrebbe curato la trasformazione... Mi illustrava, cioè, gli oggetti del proprio lavoro commerciale. Registravo le informazioni senza però impicciarmi dei particolari della sua attività. Non mi spettava sapere chi avesse comprato o venduto, a quanto, ecc... Discrezione: questa ritenevo di dover mostrare. Irene sembrava però attendere qualche mia incursione e quasi sembrava volerle provocare. Strano.
Tornati fuori città, prendemmo l’auto davanti la stazione e ci spostammo al centro commerciale. Dovevamo fare pochi chilometri di superstrada. Irene vi si immise, ma vedevo che qualcosa non andava: parlottava tra se, faceva piccoli gesti - molto contenuti - di disappunto, poi alzò poco poco la voce: “Ma guarda questo, che fa?”. E poi: “È matto?! Eh!”. Quindi: “E allora?”.
Tremai pensando che ce l’avesse con me. Cos’avevo combinato? D’altronde, non c’era nessuno sulla strada, solo una vettura un 60-70 metri più avanti: viaggiavamo sui 70 orari, non vedevo altro colpevole se non me. E poi c’era un problema in più. L’inglese lo parlo abbastanza, ho girato il mondo senza mai eccessivi problemi linguistici, quelli che non sono di madrelingua inglese li capisco perfettamente quando usano l’idioma di Shakespeare. Tutti. Tranne Irene. Credo che Irene pensi che io sia negato per le lingue.
“Ancora?”.
E no, adesso non avevo davvero fatto nulla. Osai: “Ma che succede?”.
“Guarda questo qui, ti pare il modo di guidare?”
Incredibile: se la prendeva proprio con quello che ci precedeva che, effettivamente, seguiva una traiettoria un po’ sinosuidale: ma niente che, a quelle velocità e distanza, potesse impensierire me, abituato al traffico romano e italiano in genere. Neanche a volerlo fare apposta ci si sarebbe riusciti a tamponare. Secondo me, non secondo le regole della safety scandinava.
Niente da fare, proprio un Paese lontano...
Subito, il supermarket sconfessò brutalmente questa opinione. Semplicemente perché, spingendo il carrello tra i corridoi ricchi di scatole d’ogni genere, improvvisamente fui colpito da un enorme scaffale. Non potevo crederci. Eppure no, non ero a Ciampino, ero nei dintorni della capitale di Danimarca.
In cima, campeggiava un bel cartello con su scritto: “Buitoni”. Sotto, più qualità di pasta che non accanto a casa mia. Lunga e corta, liscia e rigata, da pastasciutta e da minestra, da lasagna e da cannelloni, agli spinaci, al pomodoro, al nero di seppia, normale e integrale! Centinaia di confezioni dei vari pesi: buste da mezzo chilo, sacchettini per il brodino, pacchi da cinque chili. Un altare trionfale per la cucina italiana. Addobbato di tutto punto. Ora capivo perché il mio “originale” presente non aveva suscitato grandi entusiasmi. Di confezioni di ‘pasta tricolore’ ce n’erano quante se ne volevano! E pensare che in Francia o in Spagna, ad esempio, nostre sorelle o cugine latine, non avevo mai visto niente di simile. Qualcosa cominciava a non quadrarmi.
Poche sere dopo, tutta la famiglia era attesa alla festa di compleanno di una cugina di Irene. Fui associato all’invito. Andammo a Lyngby, un vero sobborgo di Copenaghen: il party si teneva in una villetta monopiano. Ce ne sono tantissime, in Danimarca, di queste villette con il solo piano terra, il tetto piatto e le grandi finestre scorrevoli che lasciano entrare tanta luce. Tipiche dell’architettura americana degli anni ’60. Spesso hanno la bandiera nazionale, stretta, lunga e a coda di rondine, piantata nel giardino. Dicono sia la più antica del mondo, dicono di esserci molto attaccati.
Venni presentato a Lizette, la padrona di casa festeggiata. Gli ospiti erano in larga maggioranza abbastanza agés e costituivano una sorta di grande famiglia, nella quale però erano forse più coloro che appartenevano alla categoria “grandi amici di vecchia data” piuttosto che alla categoria “parenti”. Irene mi spiegò che molti dei presenti avevano vissuto lunghi periodi all’estero. D’altronde, come sapevo, anche la sua famiglia era “estera”: suo padre, a Rodi, aveva sposato la madre, greca (Irene è infatti mezza danese e mezza greca: ha carnagione un po’ scura e capelli corvini, e la cosa, lassù in quella terra algida, trova i suoi ammiratori...). Lizette, invece, era stata sposata con un libanese. Tra gli amici, c’era un ragazzo sudafricano, un fotoreporter, unico altro straniero oltre me presente. Due su circa sessanta.
Al lume di parecchie candele, la festa cominciò. L’inizio fu formale. Una signora con la gonna lunga fino a terra come quelle delle cameriere nella bigotta Disneyland si fece al centro della sala e pronunciò una lunga frase piena, come sempre, delle vocali e dei gorgheggi che caratterizzano l’idioma danese. Poi fece una pausa e riprese: “I begin to speak in that I am Lizette’s godmother. We have two foreign guests between us, so we shall speak English tonight...”
“Prendo la parola in quanto madrina di Lisetta. Abbiamo due ospiti stranieri, dunque stasera parleremo in inglese...” E si continuò in quella lingua per tutto il suo discorsetto, per tutti gli applausetti e per tutta la replicuccia di Lizette. Dopo di ché, supponevo, la cosa sarebbe finita. Mi si formò in mente l’immagine che sia Lizette che la sua madrina fossero due frigide ossessionate dal rapporto con il sesso. Ma forse era solo l’educazione protestante e l’incapacità di accoppiare gusto moderno nei vestiti alla pretesa solennità. Ora si concedevano come vergini sacerdotesse allo scodinzolamento dei parenti. Pensiero cretino, figlio di un protratto obnubilamento dell’intelletto.
Lasciati sfogare i danesi, avanzai verso il tavolo del buffet, davanti al quale ogni popolo è uguale. C’era una coppia che tentava i soliti strani equilibrismi con i piattini e i bicchieri di carta in mano mentre conversava. Passai vicino e, però!, parlavano in inglese. Due signori rubicondi attaccati al tavolo si facevano i complimenti, in inglese. Attorno a un tavolinetto s’era accesa una discussione, credo sulla passione marinara di uno dei partecipanti, in inglese! Tutti quanti parlavano con me, con il fotoreporter e soprattutto tra di loro in inglese (o piuttosto in americano). Lo trovai incredibile.
Passi il bilinguismo: un popolo di commercianti impara per forza l’idioma che si parla sui mercati. Però tanta estrema cortesia: era forse troppa.
Ma ero io che la vedevo da italiano...
In quella sera che avrebbe potuto benissimo trascorrersi nel Maryland, mentre sbirciavo la compagnia sottraendomi ai loro sorrisi invitanti, mentre riuscivo a mettermi in finestra libero da obblighi comportamentali, mi si aprì lo spiraglio per leggere correttamente tante cose di quei pochi giorni danesi. Capii il mio errore: era come se leggessi l’arabo da sinistra a destra invece che, correttamente, al contrario.
Sapendo di dover ricevere un italiano, i danesi si erano “settati” sull’Italia. Della quale tutta la Danimarca ha già un’alta opinione, a cominciare dal cibo: vedi il grande scaffale per la pasta al supermercato. Per i nordici danesi l’Italia è la calda terra dell’armonia, del buon vivere. Dei latin-lovers ridicoli, sì tanto; però, in fondo…
È strano, ritenni in quello scorcio improvviso di verità, il rapporto dei danesi con l’Italia: ne sanno ogni cosa, ma gli sfugge il senso ultimo. Anche Irene: ama la solida genialità architettonica del Pantheon, ma non riesce ad apprezzare la seduzione di Trinità de’ Monti (anche se commise un errore madornale, o meglio, lo commisi io: non le prescrissi di andarci verso il tramonto; e lei andò di mattina).
E allora, ecco svelarsi il senso dell’atteggiamento da parte dell’avvocato civilista, la prima sera.
Era per lui!
L’interrogazione era per lui: doveva chiarire se era all’altezza dell’ospite, proprio sul terreno di questi. Aveva passato giorni interi a ripassare e approfondire le nozioni del liceo sulla sua maledetta enciclopedia, e adesso era preparatissimo. Per questo non mi aveva contraddetto nel momento in cui io parevo confutare quanto riportato sul suo fedele tomo, ma anzi si era messo a pensare con perplessa e ciondolante espressione.
Ma non era tutto.
Cominciavo ad avere chiari un po’ tutti i tasselli di quel rapporto iniziato in modo difficile. Irene che s’aspettava che mi precipitassi giù dal treno, la sorpresa perché non mi sbracciavo in coloriti saluti partendo con l’automobile, la critica evidente alla compostezza del mio atteggiamento, con il mio parlare poco e a bassa voce. Dall’altro lato, la nordicità loro che riemergeva nei discorsetti, nella safety stradale, nelle troppe bandiere. Anche la madre di Irene, greca di Rodi, dopo una lunga vita in Danimarca, superata la dura prova d’accettazione iniziale (che forse, però, non era ancora finita), era divenuta, o si mostrava, più danese dei Danesi.
Insomma, a me italiano chiedevano di fare l’italiano. Volevano che portassi la confusione, l’irruenza mediterranee. Dove si sa vivere bene: ma che casino!
Meno male la gaffe del vino: li avevo appagati un po’.
Tuttavia, anziché sbloccarmi, questa raggiunta consapevolezza, unita al difettivo inglese rispetto a quello di Irene (che parla sei lingue: la sua, inglese, francese, tedesco, greco, svedese) mi intimidì molto. Nonostante tutto, continuavo a sentirmi costantemente sotto esame, come uno scolaro che si sente tenuto d’occhio dall’insegnante.
Parlavo molto poco, intento a misurare e misurarmi. Certo non dovetti risultare di grande compagnia. Irene giustamente se ne immusonì; e mi accorgo ora che non le ho mai spiegato il perché del mio atteggiamento.
(Spero di aver rimediato quando venne in Toscana e, di ritorno da San Gimignano, le insegnai a cantilenare in romanesco “Onzi, onzi, onzi – a Poggibbonzi so’ tutti stronzi”: ameni versetti che mi inimicheranno la cittadina...
Credo che li ricordi ancora. Me li ha ripetuti divertita più volte, anche al telefono; sento ancora la sua voce poliglotta ripetere “Onzi, onzi, onzi...”
– Vado a telefonarle.
No, mi precede, mi sta telefonando lei.
Si sposa.

E poi Irene si sposa.
Nonostante conosca solo me, invita tutta la famiglia, anche più di quanti lei stessa stia immaginando.
Andremo a Copenaghen. Decidiamo subito. Andremo e ci vestiremo alla grande, per non sfigurare. Ci saranno i Danesi e i Greci, non saranno gli Italiani a vestirsi come se non onorassero la cerimonia.
È bello essere invitati a un matrimonio all’estero. È bello che ti chiamino a partecipare a una festa così importante. È ancora più bello quando non sei nemmeno un parente. Senti che ti vogliono bene davvero, anche se una volta hai bevuto troppo presto il vino e ti sei un po’ chiuso…
Anche se il rito si svolgerà alla Sankt Johannes Kirke e sarà luterano. Bè, comunque protestante. Insomma, capiremo quando inizierà, perché quando entra la sposa inizia. Con ogni probabilità comprenderemo anche quando sarà finito, perché quando gli sposi escono è finito. Sarà più difficile capire cosa accade nel frattempo. Molto a causa della lingua, e il celebrante addirittura sembrerà parlare in giapponese. Molto anche a causa del fatto che costui parlerà di continuo e più o meno sempre con lo stesso tono. Lui parlerà, si canteranno canti, ci sarà uno scambio di posizioni tra nubendi e tra loro accompagnatori all’altare, lui parlerà, si canterà, parlerà, parlerà, si canterà, parlerà e gli sposi si avvieranno all’uscita tra le ali sorridenti ed emozionate di tutti noi. Sì, ma quand’è che si saranno sposati? Niente “puoi baciare la sposa”. Niente applauso (meno male!).
Sankt Johannes Kirke è all’interno dell’angolo acuto tra Nørre Allé e Blegdamsvej, che confluiscono nella Sankt Hans Torv. È il quartiere dove già vivono Irene e Carl con il figlio Paul, il piccolo Paul che sarà il paggetto del matrimonio in un completino azzurro. In un sala del complesso parrocchiale retrostante la chiesa neogotica in mattoni rossi, appena terminata la cerimonia religiosa, sarà dato un rinfresco per gli amici meno intimi, i vicini di casa, i conoscenti. E una cosa salterà fuori. Da noi, ai matrimoni ci si veste con abiti da competizione; da loro, con abiti da cerimonia. La differenza sarà visibile. Ma i nostri abiti avranno avuto anche un riflesso divertente. Ma, ordine: prima il rinfresco per la cerchia esterna, quelli che al ricevimento della sera non ci saranno. Una piacevole atmosfera di gente contenta della felicità degli sposi e delle loro famiglie. Noterò che gli ambienti parrocchiali hanno tutti la stessa luce, quale che sia la confessione. La torta con la foto glassata di lei e di lui lascerà un po’ d’imbarazzo: mangiarsi un pezzo di Irene mi metterà a disagio! Conoscerò finalmente il fratello di Rotterdam, rientrato in Danimarca, anche lui davvero simpatico. Rincontrerò Lizette, per niente cambiata. Purtroppo Irene già non frequenta più l’amica Simone, peccato, mi stava simpatica con la sua anima pronta a perdersi. I genitori saranno gentili come anni prima e non ricorderanno la disastrosa interrogazione. La mamma sarà rimasta mediterranea nonostante tutti gli anni al freddo, il papà sarà orgoglioso della bella figlia che ha cresciuto e mi sembrerà davvero contento che siamo venuti. Entrambi, come tutti, non potranno non notare come siamo vestiti.
Lo avranno notato già in mattinata gli abitanti di Copenaghen.
Capiterà che quello stesso sabato di fine maggio ci sarà un matrimonio reale.
Uscire dall’albergo a un angolo di strada davanti al Kastellet per fumare una sigaretta col viso messo in penombra da un graziosissimo cappellino nero a tesa larga, con scarpe Les Tropéziennes tacco 12 e un adorabile vestitino appena rinforzato da un cache-cœur che scalda le spalle con innata eleganza richiamerà l’attenzione. Non appena uscirò anch’io, udirò i click delle macchine fotografiche. Un’invitata al matrimonio del principe in attesa della vettura che la condurrà all’eliporto (det Kongelige Bryllup era a casa di lei, nello Jylland) la si fotografa. Ed io riderò.
Noi invece avremo la fortuna di partecipare a quello di Irene e Carl e di poter conoscere tanta gente simpatica. Dopo un pomeriggio libero - che gran buona idea - la sera ci sarà il ricevimento ufficiale in un palazzo storico nemmeno lontano dal nostro albergo. Mi piacerà molto la fotografia degli sposi con tutti noi invitati sullo scalone d’onore, che sale al piano nobile con un paio di girate. Al tavolo con gli Italiani saranno previsti Danesi, ovviamente, Greci, Svedesi, Colombiani. Unico problema condividere i canti, ma ciò rivelerà molto della lingua danese, che scrive abbastanza consonanti ma ne pronuncia poche. E l’unica volta che cercherò di partecipare al coro urlerò ”Urrà! Urrà!” avendo letto sul libretto dei canti Hurra. Peccato che tutti gli altri non avranno praticamente pronunciato le erre e, dunque, le mie, belle arrotate, avranno stonato in mezzo al generale ”Uà, uà!”.
Ma quella notte andrò a dormire felice dopo aver fumato il sigaro offertomi dal fratello di Rotterdam. La sera dopo Irene verrà a cena con noi, così come lei, la sposa, era venuta a prenderci all’aeroporto.
Irene, sei grande. Spero che ricorderai ancora ”Onzi, onzi, onzi...”)

Honolulu, HI

17.01.2014 13:46

Esisteva o no un misterioso disegno sulle pareti del gigante di fuoco Mauna Loa sull’isola di Hawaii, la più meridionale e orientale dell’omonimo arcipelago? O soltanto credevo di averlo scoperto io dall’aereo? Il mondo è pieno di strani disegni di popoli scomparsi: l’Inghilterra ne è piena (ma quanti sono autentici?); famosi anche quelli della valle di Nazca, in Perù, che sembrano affiancarsi a vere piste di atterraggio per velivoli. Ce n’è o no uno anche qua in mezzo al Pacifico?
Non riuscivo a discernere tra realtà e fantasia. Qui, in questa parte di mondo polinesiana ma americana, succedevano altre cose che stordivano la mia (talora scarsa) capacità raziocinante.

La sera del 17 gennaio 1991, Kalakaua Avenue, la main street di Waikiki Beach, risuonava delle marcette allegre delle bande scolastiche, al cui ritmo incedevano ballando centinaia di ragazzine vestite da “majorettes”. Ogni scuola con i propri colori e i propri abiti luminescenti di paillettes. Tra una scuola e l’altra, qualche banda di marines a riposo o altre con le immancabili cornamuse: e figurarsi l’effetto che potevano fare ai 30 gradi delle Hawaii, tra palme e ficus alti 40 metri. Sfilavano anche automobili scoperte da dove il sindaco o l’equivalente del provveditore agli studi benedicevano la folla fumando il sigaro. Passò anche, con un sottofondo sonoro magniloquente, la vettura di Miss Honolulu, sponsorizzata da un concessionario d’auto. La ragazza agitava le braccia salutando i supposti fans e rischiava l’artrosi per le posizioni innaturali che assumeva, tese a mettere in mostra il sedere e, più che le tette in se, la scollatura. Ogni tanto, come ricordandosi improvvisamente di un dovere, mandava baci cinematografici a destra e a manca, sponsored by Ross Norton Waikiki Car Service, Your Favourite Car Dealer!
O.K., cosa c’è di strano? Solo un piccolo particolare.
Quel pomeriggio, sulla spiaggia di Waikiki, questo finto sobborgo di Honolulu dove tanti mezzi grattacieli hanno soffocato una costa e un arenile probabilmente in un altro tempo fantastici e infinite ville e villette hanno deturpato orrendamente i fianchi verdi delle colline all’interno, dove la cosa più “naturale” che c’è è un golf club, su quella spiaggia, dunque, tra decine di giapponesi che l’abbronzatura aveva reso color merda e una coppia di danesi in luna di miele che giocava a racchettoni, su quella cavolo di spiaggia dove la plastica buttata in acqua si mischiava alle alghe morte, stavo ascoltando la musica dalla radio di uno accanto a me.
“Interrompiamo la programmazione per annunciare che circa mezz’ora fa le nostre truppe hanno iniziato l’attacco all’Iraq...”
No, non poteva essere, dovevo aver capito male: infatti, nessuno s’era mosso. Il proprietario della radio insisteva nel tentare di morire sotto il sole per prendere l’abbronzatura, i surfisti continuavano a lisciare le loro tavole vivaci, le varie donne con prole a ripetere i loro “Don’t” ai figli, i ragazzi a scherzare tra loro. La radio trasmetteva di nuovo musica. La palla dei danesi sbatteva avanti e indietro rilasciando schizzi di sabbia e salsedine. Così, rimasi almeno altri cinque minuti in relativa pace, finché lo speaker non ripeté l’annuncio. E no, avevo capito bene. La guerra era iniziata.
Quello che volevo fare era urlare, urlare a più non posso, far capire al mondo che io no!, io non consideravo inevitabile quella guerra, o per lo meno non più inevitabile di tante altre che erano state evitate. Io non volevo che dall’altra parte della Terra si rischiasse l’ecatombe.
Insomma, nel primo pomeriggio (ora del Pacifico centrale) di quel 17 gennaio 1991 era iniziata la guerra del Golfo, quella maledetta – da ogni lato – Desert Storm Operation che avrebbe scosso qualche coscienza e appagato chi, adulto, non vuole smettere di giocare con i soldatini.
Già la mattina seguente, i giornali nei distributori agli angoli delle strade avrebbero riportato dei primi aerei abbattuti. Chiamando casa, sarebbe arrivata la notizia che anche un Tornado italiano (anzi, sul primo momento sembrava due) era stato abbattuto e i piloti erano missing in action: geniale locuzione per dire “forse morti”.
Ebbene, in quella sera turbata da sensazioni che non si pensava più di dover provare, loro, gli Americani, non avevano nulla di meglio da fare che quella spensierata parata. Era questa l’idea della guerra che avevano? Una parata di paillettes?
Non riesco a descrivere lo stato d’animo di quella sera, di quei giorni. Per carità, avevo già vissuto il Vietnam, El Salvador, il Nicaragua, l’Irlanda del Nord, Grenada, l’Afghanistan, le Falklands - Malvinas, le varie guerre d’Israele, quella Iran-Iraq, ogni fottuta guerra in ogni parte del pianeta raccontata dai giornali. Ma erano altri. Da noi la guerra, dopo l’esperienza totale dell’Ultima, era ormai una situazione da libri di storia, nella quale non ci saremmo mai più trovati coinvolti. A casa mia si diceva proprio così, parlando della Seconda Mondiale: “L’Ultima Guerra”, e si avvertiva che non era ultima prima di un’altra successiva, ma proprio l’Ultima, dopo di che non ce ne sarebbe più stata una.
Invece adesso, mentre mi trovavo nel suo Stato federale nel quale il Paese più guerrafondaio del pianeta si era lasciato attirare (o era stato Churchill?) in quell’Ultimo Conflitto (non per loro) proprio qui, ebbene, dall’altra parte della Terra, in una guerra ideata da questo Paese, persino degli italiani uccidevano ed erano stati abbattutti; “forse morti”. Però qui quel Paese se ne fregava.
Potevo godermi le Hawaii?
Quando capitai in un ristorante italiano dove una bottiglia di Soave costava 28 dollari, conobbi Tony. Era un canadese che lavorava all’aeroporto di Vancouver, era di origine italiana e parlava un po’ la lingua. Della guerra se ne fregava anche lui o, per meglio dire, la considerava all’incirca come gli altri in giro: una cosa che accadeva dentro la TV, di cui interessarsi tra un boccone e l’altro, tra una telefonata e un lavoretto. Fuori di casa, senza televisore, business as usual. Mi consigliò di andare a Hanauma Bay, dove avrei potuto nuotare in un acquario.
Così era. E Tony aveva avuto ragione a darmi quel suggerimento. La natura contrastante di quel posto a poche miglia da Waikiki mi svuotò un po’ la testa dallo sconforto. Era un cratere vulcanico spento o quiescente dove, ora, si celebrava l’incontro tra il mare e la roccia, tra la vita dai mille colori nascosti nel blu e un’antica morte magmatica che prometteva di rinascere; ma bella anch’essa! Questa cintura di rocce effusive era crollata da un lato e il Pacifico l’aveva penetrata. In quei bassi fondali disegnati di spigoli taglienti e di scogli funerei, l’acqua poteva scaldarsi più del normale, come dentro un atollo: presso l’unica spiaggetta, contrapposta all’apertura sull’oceano, una popolazione numerosa di pesci multicolori si offriva su un fondale molto basso, talvolta quasi affiorante, alla contemplazione di chi avesse affittato l’occorrente per lo snorkeling in certi casotti di legno seminascosti dalla vegetazione. Lungo la discesa dalla strada all’arenile, sul fianco interno del cratere, era tutto un fiore di bouganvilles. Anch’io affittai pinne e maschera e sguazzai nell’acquario. Bravo Tony.
Ripresa la jeep, proseguii verso la punta meridionale dell’isola di Ohau. L’oceano era di un azzurro intenso e, ossequiante verso il proprio nome, ispirava pace. Già. Ma dall’altra parte della Terra figli di queste isole erano anch’essi missing in action. L’avevo letto su USA Today: C’erano anche le foto e le interviste ai familiari. Lo show-business, o per meglio dire il news-business, si era messo in moto all’istante.
Doppiata la Makapuu Point, la strada sovrastava Waimanalo Beach. Lo spettacolo era mozzafiato: la costa fiorita, la spiaggia, il mare, due isolotti a rompere la fuga turchese verso l’orizzonte aperto. Solo verso destra, quindi in direzione della punta appena superata, la corsa sopra il blu era interrotta dalla massa dell’isola di Molokai, distante meno di trenta miglia. Molto più dietro, dopo Maui, sapevo ribollire Hawaii con i suoi Mauna, il Kea, estinto, e il Loa, gonfio di magma, pronto a bruciare tutto e incendiare persino il mare; e i miei dubbi da risveglio.
Improvvisamente, l’emozione di scorgere, nitido e solenne, lo spruzzo di una balena. Vai, vai in pace, gigante buono! I sentimenti di quelle ore mi lasciavano preda delle parole retoriche.
Più oltre, la strada si scansa a poco a poco dalla costa, cominciando a salire. Ad un certo punto la 72 cede il passo alla 61, che punta trasversalmente verso l’interno dell’isola. Poco dopo il paese di Mauwawili, c’è una biforcazione, da dove la 83 prosegue verso nord riguadagnando la costa e la 61, piegando a sinistra, taglia la dorsale per rientrare a Honolulu. Arrivandoci, davanti mi ritrovai di colpo una collinetta, che con il pendio ricoperto di erba lussureggiante incombeva e costringeva al trivio. E lì, come su un enorme schermo gigante apparso per magia, a contrasto sul verde, una gigantesca scritta bianca fatta – credo – di sassi: “Peggy don’t go”.
Inchiodai.
A questo non ero pronto. La jeep sobbalzò, eccessivamente sollecitata dai freni. “Peggy don’t go”.
Qualcuno non la pensava con le paillettes e implorava ‘Peggy non andare’, che è come dire: Margherituccia, non andare. Non attraversare due oceani per fare la guerra, non rischiare di morire nel deserto, piccola Margherita.
Questo sì, che era un disegno misterioso ricamato su un pendio. Dovetti abbandonare le mie fantasie. Misterioso rispetto all’aspetto dominante delle cose che vedevo in giro: ma vero, reale, lì davanti a me all’improvviso.
Esisteva dunque una coscienza dentro quella strana America giapponesizzata, qualcuno pensava, qualcuno dissentiva, anche solo per umile paura personale dettata dall’amore per una persona cara. E faceva appello a questa, che pure era una militare, dunque usa a obbedire senza domande; proprio a lei s’appellava, ché disobbedisse e non andasse. Don’t go, piccola dolce Peg. Scegli l’amore e non la guerra.
Strano popolo ancora una volta, ‘sti americani. Mentre ripartivo, realizzai che molte cose negative sull’America le avevo apprese dai films americani.
Ma un conto è un film, per quanto “indipendente”, un altro è raccogliere dei sassi bianchi e scrivere sul fianco verde di una collina hawaiana “Peggy don’t go”.
Rientrai nell’assurdità di Waikiki, tra la pallosissima musica turistica delle chitarre hawaiane diffusa in ogni dove da invisibili altoparlanti. Lo straniamento culturale s’assommava allo straniamento dell’anima. La sera ci fu una piccola manifestazione pacifista. Più poliziotti che dimostranti. Ci partecipai, misi sù una maglietta con tante bandiere, il planisfero disegnato in azzurro e sotto la scritta: “peace, n., quiet, freedom from war.”
Dei ragazzi in mutande con la tavola da surf al braccio mi guardarono senza capire.

 

Caporetto

12.01.2014 18:36

Questo ricordo è del mio amico Marco R. piuttosto che mio. Me ne fece parte, però, assieme alla sua amicizia, proprio lungo la strada che ci recava al paese, così che esso, legato alla strada percorsa, si lasciò vivere anche da me.
Marco R., sebbene ami la costa tirrenica, ha la predestinazione adriatica: pugliese il padre, della provincia di Lecce, friulana, o forse slovena, la madre. In mezzo, appunto, il grande golfo dell’Amarissimo (sic & sigh!).
Gran soffritore del caldo, era solito passare le vacanze estive nel paese materno, nelle valli del Natisone. È un territorio dove le estreme propaggini della pianura hanno già lasciato il posto ai primi rialzi delle montagne, che però sono ancora soltanto piccoli rilievi incisi e grattati dai fiumi e dai ruscelli che dalle montagne più alte, già oltre il confine, scendono a confluire, nella pianura oltre Cividale, nel Tagliamento. Sono allegri e sinistri insieme. Tanti boschi rivestono di tonalità di verde queste colline, a gara con quelle dei prati e della vegetazione riparia.
Qua e là, su pianori in cima a rupi d’erosione, su conoidi di deiezione, o semplicemente abbarbicati su qualche fianco meno scosceso, si aprono paesi e frazioni dai nomi talvolta impronunciabili: sempre rivelanti la posizione prossima al confine tra mondo latino, slavo e, non molto distante, germanico. Villaggi absburgici, senza dubbio: sia quando costituiti da case in pietra disposte tutte lungo la strada, con le finestre a sorridere fiorite ai passanti, sia quando formati dagli ordinati ammassi delle villette bianche post-terremoto.
Anche in queste valli tranquille, sebbene un poco scostanti, il terremoto del ’74 provocò morti e distruzioni. Ma a vederle oggi, consumate le lacrime (il tempo, si sa...), piene di piccolissime imprese che costruiscono sedie, che imbottigliano slivovitz, che impastano gubane, non se ne vedono, del dolore di qualche anno fa, che le tracce. “Poi venne Santo Terremoto”, disse una trentenne, intendendo che quella gente si è ricostruita casa con le proprie forze e le proprie mani: e quando, con i soliti ritardi, vennero i soldi della ricostruzione, li usarono per avviare quelle centinaia di imprese familiari che hanno trasformato la realtà sociale del Friuli.
Ebbene, durante una di queste vacanze, un giorno Marco R. prende la bici del cugino e decide di andare di là, in Yugoslavia. Lo faceva spesso, di uscire in bicicletta. Guarda la carta su un vecchio libro di scuola, vede che il circoletto indicante Caporetto non è tanto distante dalla linea verde del confine e sceglie quale meta questa che, era una località, ora è un luogo comune.
“Ma chissà com’è fatta ‘sta Caporetto!”
Parte, portandosi la carta d’identità e qualche soldo. Vedrà se comprare un po’ di carne, che di là costa veramente poco, anche se la madre pretende di riconoscerla, e magari la riconosce davvero: dice che non è tanto buona, viene da di là. Forse, per quella generazione che ha vissuto le lotte intestine e non intestine della guerra e del dopo guerra, con i grandi dolori collettivi e le piccole immense tragedie personali, i drammi intimi delle coscienze, che si è separata in zone A e B, forse per quella generazione l’unico torto della carne di di là è di venire da di là! La osserva come se esaminasse un cadavere, poi sentenzia: “Questa viene dalla Yugoslavia”. Come se venisse dalla Cina, dove, è vero, mangiano i cani e i nidi di rondine, figurarsi.
È un buon pedalatore, è abituato: si metta che non ha nemmeno la macchina, le gambe sono allenate. Risale la valle del Natisone; una salita morbida ma comunque stancante, immagino. Pedala tranquillo fino al posto di confine, sotto la mole massiccia e apparentemente sterminata del Mataiùr.
“Otto ore senz’acqua, una volta, lassù!” mi disse mentre ci passavamo sotto.
A sinistra, più basso ma forse più ripido, il Mia. I frontalieri sorridono un po’ di questo ciclista occasionale, che entra in territorio yugoslavo convinto di fare ancora pochi chilometri e tornare indietro. La frontiera degli Slavi del Sud sta subito dopo una curva a destra, un quattro chilometri più avanti. L’ispezione è appena un po’ più accurata. Riparte.
Non può vedere quello che vedremo insieme quando ripercorreremo queste strade e lui mi racconterà la storia: i fori dei proiettili sui cartelli e sui vetri del gabbiotto del controllo passaporti. Saranno passati pochi anni, ma molto sarà cambiato. Parole nuove, o che sembrano tali, si saranno affacciate nella geografia dei telegiornali. Gli sloveni, in quei giorni, staranno versando le rate del costo della loro indipendenza. Probabilmente in marchi.
Altre separazioni saranno in atto, altri dolori collettivi, altre tragedie personali, altra indifferenza: solo che stavolta tutti, tutti lo sapranno. Gli sarà spiattellato in faccia all’ora di cena, e allora anche quelle stesse persone che soffrirono all’epoca e piansero i loro morti, come continuano a piangerli ancora, quelle stesse persone che videro con i loro occhi giovani quegli orrori ora diranno: “Eh, però, certe cose non dovrebbero farle vedere mentre uno mangia!”
Come ha sempre fatto, il Natisone continua a scendere sulla sinistra della strada, assorto nei propri gorgheggi, ma un cartello che lo indica reca la scritta Nadiža. Marco R. arriva finalmente a una sella, il fiume piega da una parte, la strada invece dall’altra, a destra, verso est. Caporetto non si vede. Subito (ora la strada spiana, forse scende un po’, dolcemente) inizia un’altra vallata, con un fiumiciattolo che passa sotto le montagne a sud. Il paesaggio è meno arido, meno o nient’affatto carsico, si direbbe. Il fondo valle, piatto, è completamente coperto di erba o di coltivazioni, la carreggiata è fiancheggiata da alberi sicuri di se, i fianchi sono ugualmente rigogliosi. In fondo, lontani, dei monti abbastanza alti da perdersi tra le nubi.
In fin dei conti, sono pochi chilometri, ma è come valicare decenni di sviluppo. In quei campi a lato della strada, tanti sono i carretti di legno che trasportano legna, patate, qualcosa. Qualche trattore che brucia fumo pestifero si sposta lento: sono grandi macchine traballanti che sembrano sprecare più energia per tirare se stesse che non per lavorare. E c’è qualcosa che manca in quei gruppuscoli di case che ogni tanto s’incontrano: lì per lì non si capisce, forse si capisce quando si torna di qua. Ecco, mancano le antenne della tele sui tetti.
Insomma, Marco R. sta pedalando per questi rettilinei e queste improvvise “esse”, e aspetta di vedere Caporetto. Aveva già passato un paesino chiamato Staro Selo, ora ce n’è un altro un po’ più grosso che si chiama Kobarid, arriva un po’ all’improvviso, ci si entra con un curvone verso destra. All’interno della curva vede una macelleria, ma decide che se la comprerà, la carne, la comprerà a Caporetto: ormai dovrebbe quasi esserci. Prima del curvone c’era stata una biforcazione, gli era venuto istintivo prendere questa strada, che pare la più grande, la più dritta. In realtà, finite le case si rende conto che punta decisamente a sud.
Ancora un fiume, stavolta più grande. È a sinistra, come si chiama? Ah, Soča, come la Soca Dance di Raffaella Carrà... “Ma guarda un po’ che vai a pensare con la fatica! E poi, sopra la ci c’è quel segno strano, come c’era prima sopra la zeta di Nadiža...”
Pedala, e si chiede dove diavolo sia mai questa benedetta Caporetto. Possibile che tanti morti siano morti in un paese che non esiste? Che la rotta totale in cui caddero, in quel grigissimo autunno del ’17, le malcondotte armate italiane abbia coinvolto nelle sue cifre gigantesche (70.000 fra morti e feriti, 300.000 dispersi, altrettanti sbandati, più di un terzo degli effettivi dell’esercito fuori combattimento) anche lo stesso centro abitato? Un mistero.
Non molto dopo il paesone con la macelleria, un altro borgo; Idrsko, tipico nome slavo zeppo di consonanti.
“Perché, tu lo sai come si dice Trieste in sloveno?” mi chiese Marco R. interrompendo il racconto.
Ero stato nel capoluogo giuliano, ma non ricordavo.
“Si dice uguale, ma senza vocali: Trst. Come faranno a pronunciarlo... In tedesco, si toglie solo l’ultima vocale, e però si pronuncia ‘trist’ anche se si scrive Triest. In sloveno, solo consonanti!”
Insomma, dopo Idrsko ancora una decina di chilometri sul fianco del fiume e nessun paese. Avesse sbagliato strada? Comincia a sentire la stanchezza, occhio e croce ha percorso ben più chilometri di quanti non ne avesse calcolati, sia pur approssimativamente, sulla cartina del libro di scuola. Si ferma e sente le gambe dure, scende al fiume per rinfrescarsi un po’, tra salici e pietre. Sorpresa! Su una zolla erbosa in mezzo alla gelida corrente, un pescatore. La speranza che parli italiano... In fondo, qui era Italia, qualche decennio fa... Qui da qualche parte c’è l’Isonzo, un fiume italiano, e da qualche altra parte, per la miseria, Caporetto.
Non parla italiano. Però è ben disposto a capire e farsi capire, purché questo curioso italiano in bici se ne vada e lo lasci pescare.
“Ca-po-retto?” chiede Marco R. aiutandosi con i gesti.
“Zsc vo zcny z drupvnoi”, o qualcosa che suona così.
“Ca – po – re – tto... Caporetto, di qua?” e fa cenno con la mano come a proseguire la strada.
“Uh?!”
“Caporetto, di qua?”, iterando il gesto.
Also!” fa, chissà perché in tedesco. “Che bart...”, o qualcosa di simile, prosegue in un linguaggio che potrebbe sembrare quasi italiano. Ma con la mano indica decisamente la direzione opposta.
“Di là?” chiede conferma Marco R.. Era da dove veniva!
“Che bart” o qualcosa di simile ripete il pescatore, e si apre in una risata che vorrebbe essere rassicurante ma che invece inquieta di più il ciclista smarrito. “Che bart!” insiste convinto, ormai sganasciandosi.
Decide di dargli retta, ha capito. Prima del paesone con la macelleria avrebbe dovuto girare a sinistra, è evidente. Caporetto starà appena lì dietro. Ormai, invece, ha fatto troppa strada, le ore sono passate. Ha solo il tempo di tornare a casa, è consigliabile lasciare il territorio yugoslavo prima che imbrunisca; sulla bici non ha luci, non si fida, meglio essere in Italia, a luci spente.
Chilometri ancora, la strada sale leggerissimamente.
Arriva al paesone: uscendone, all’interno della curva, la macelleria. Vabbè, cinque minuti per la carne... Avrà fallito con Caporetto, almeno riporta il manzo, avrà dato un senso alla giornata.
Entra, a gesti spiega quale tagli vuole, paga e esce con la sua bustina di plastica azzurra. La assicura alla canna della bici e riparte. Il vallone, la frontiera dei “plavi”, la strada che scende, quella italiana. Le ore passano, Caporetto una curiosità rimandata. In dogana, sul far della sera, chiedono, tanto per passare un po’ il tempo, cosa ci sia nella busta azzurra.
“Ho preso su un po’ di carne...” e distende la busta per farne capire il contenuto.
Quasi cade dalla bici ferma. Sbianca. Lascia andare la busta che inizia a pendolare da un lato all’altro della canna, poi la riafferra nevroticamente. A lettere rossicce, piccole, mezze scolorite, il nome della macelleria e l’indirizzo, con il nome del paese cortesemente scritto tanto in sloveno che in italiano: Kobarid - Caporetto!
“Qualcosa non va?” chiede premuroso o insospettito un agente.
“No, niente: non va la Storia!”

Venezuela *

07.01.2014 21:31

(* Le battute del personaggio di Iraima sono state scritte insieme a Claudia Valvo,
che ringrazio anche per il lavoro di revisione di alcune parti del testo)

 

Quella notte giocai a domino col ragazzetto della posada alla luce della lampada a gas e, incredibilmente, visto che io non praticavo mai quel gioco mentre per lui doveva essere compagno di più di una sera, vinsi.
S’era in un isolotto de Los Roques, un arcipelago vulcanico di circa 300 grumi nel Caribe meridionale, al largo delle coste venezuelane. Uno solo era abitato da una comunità di pescatori, su altri due o tre, forse quattro, c’era qualche casa di villeggiatura (d’appoggio per la pesca, credo) e rudimentali strutture di ospitalità e turistiche. Da lì, ragazzi di città che lavoravano per raggranellare due soldi per pagarsi l’università o semplicemente le uscite della sera ti portavano su barche alla scoperta delle spiagge migliori. E che spiagge!
I colori del mare sono i più intensi e corposi che abbia mai visto. Tutto l’arcipelago si sviluppa all’interno di un cordone corallino cresciuto, ritengo, sul bordo della caldera esplosa del vulcano, e che fa da barriera ai marosi. Sembra di entrare, anziché in acqua, in un fluido vitale capace di rigenerare. Il brodo primordiale non doveva essere troppo diverso. È un liquido magico e arcano, caldo, col quale ebbi un rapporto sessuale dolce e lento. Sì, proprio questo: sospinto dal ritmo discreto ma incessante della risacca minima della spiaggia bianca, incantato dalla melodia del silenzio timidamente ventoso, mi abbandonai rilassato all’elemento turchese dagli indefiniti riflessi smeraldo, diedi libertà al desiderio e fui corrisposto, provando la stessa emozione e lo stesso appagamento di un rapporto sessuale d’amore. Non volevo smettere più.
Il mare e le spiagge de Los Roques sono indescrivibili: non si può far altro che viverli. Ogni isolotto ha le sue caratteristiche. C’è quello con la barriera corallina a portata di mano, dove ti immergi in apnea e, stando attento a non toccare il temibile coral de fuego, simpatizzi con i pesci dai mille colori. Quell’altro dalla vegetazione particolare, con i fiorellini poco espansivi ma dalle intense tonalità. E uno dove puoi vedere l’innocuo squalo martello, l’unico che penetri nel recinto dell’arcipelago, un altro...
Su una spiaggia tra le più belle, si era posto il problema di mangiare. Fu immediatamente risolto dal ragazzo pilota della barca (un gommone azionato da due motori da 75 cavalli l’uno che gli facevano raggiungere velocità niente male, permettendo di visitare più isolotti in una sola giornata). Si cavò fuori dalla tasca un tre-quattro metri di filo di nylon, cui agganciò un amo che portava con se. Scavò un po’ dove la sabbia cominciava a diventare terra, infilò un vermetto all’amo e, così con la mano, gettò la rudimentale lenza in acqua. Nel giro di mezz’ora avevamo un bottino di cinque o sei grandi pargos.
Un’isola è l’aeroporto. No, non “c’è” l’aeroporto: “è” l’aeroporto, in quanto è tutta e unicamente occupata dalla pista per aerei da turismo, che inizia e finisce in mare. Scesi dall’aereo, anziché sul bus-shuttle si viene caricati in barca. Atterrando col piper 4 posti, mi era veramente sembrato di scendere sull’azzurro dell’acqua.
Ripensai a tutto questo, nell’effimero momento in cui assaporai il piacere di quella futile vittoria. Sì, effimero e futilità caratterizzano le cose umane in quel mondo fertile, in quella espressione di vita dai cicli lunghissimi, dal tempo primigenio.
Oh, il tempo! Quanto tempo c’è a Los Roques. Il posto ideale per nasconderti con la donna che ami, dove fare, dare e ricevere amore. Crogiolo di elementi vitali, tutti bellissimi. L’aria purissima e luminosa, l’acqua sessuata, la limpida terra incontaminata: il fuoco celato, ma origine eruttiva di tutto, e presente nella passione.
Il tempo! È incredibile come ci manchi nelle nostre pratiche quotidiane (sempre di corsa, sempre a dover rimandare qualcosa) e come non si sappia in che modo riempirlo quando, come in una lunga sera tropicale a Los Roques, non c’è altro che lui.
Così, dovendo passare una notte a Los Roques senza la tua donna, giochi a domino con il ragazzetto della posada. E vinci pure. Poi ti corichi nella branda e sei felice. Finché non pensi a lei che non c’è.

E dire che in Venezuela di donne belle ce ne sono: anzi, bellissime. Non a caso è spesso una di loro a vincere il becero, ma tuttavia indicativo, titolo di Miss Mondo. Girando per Caracas, andando nei bares de El Hatillo, il sobborgo coloniale incassato in una conca più elevata della città (che sta già a una bella quota anch’essa), se ne incontrano da impazzire. “Es la mezcla” dicono i locali, la mescolanza di razze diverse che affina e arricchisce i tratti.
– Iraima incarnava splendidamente la bellezza della mezcla.
Padre persiano, madre metà bianca e metà india: ottimo risultato. Non era di quelle che pensi di mettere in copertina, ma di quelle da portare a Los Roques sapendo che non ti annoierai. E la maniera eccitante che aveva lei, di dire questo nome de Los Roques... Affascinante e intelligente, era al tempo stesso fresca e gioiosa: la pelle ambrata, sembrava perennemente abbronzata; i lunghi capelli molto ondulati ma senza alcun segno di crespo o di secco, anzi ricchi e morbidi; le sinuosità giuste, sode e naturalmente femminili; il modo di muoversi che rivelava un fuoco interiore in grado di sciogliere un ghiacciaio della Patagonia o di far evaporare tutta l’acqua dell’Orinoco. Tutta l’energia le usciva fuori dai tizzoni che teneva per occhi: quando ti afferravano, ti sentivi passato da parte a parte, rivoltato, afferrato e sbattuto giù.
Sapeva essere dolce, Iraima. Sì. Quando voleva, diveniva sensuale. Però…

– La chiamai. Era ancora al lavoro. Mi chiese:
“¿Qué hiciste hoy?”
“Bueno, he ido a El Hatillo, y...”
Non mi lasciò finire. La mia risposta alla domanda “Cosa hai fatto oggi?” era sbagliata. Sbagliato dirle che ero stato a El Hatillo senza di lei.
Esplose. Pure dal telefono vedevo i suoi occhi sparare palle esplosive.
¡Vamos a vernos ahora mismo!”
L’ordine d’incontrarla subito lo eseguii, cercando di scongiurare ire maggiori. Vedendola, temetti di aver sbagliato.
“¿Como es qué me hiciste esto?”
“¿Eh?”
Non avevo capito, mitragliava le parole e mi perdevo qualcosa dello spagnolo. Aveva frequentato il Club Italiano, così riuscì a ripetere in italiano.
“Come è che mi hai fatto esto?”
Non seppi rispondere. Sì, aveva detto che mi voleva portare a El Hatillo, è vero, ma all’ora di pranzo non sapevo che fare e così intanto ero andato a fare un giro, ero entrato in un bare a dissetarmi con una Polar ed ero risceso in città, niente di male.
“¿Como que no hay nada malo con eso, chico?
C’era, qualcosa di male, c’era. Le sue labbra, che sapevo morbidissime, parevano lame pronte a uccidere. Non capii una parola, parlava a raffica, ma il senso era chiarissimo. El Hatillo era un luogo bello, umano, rilassato. Ma di più: lei di quel luogo doveva essere la regina e, nel suo regno di dolcezza, voleva essere lei a portarmici. Esserci andato da solo, da maschio elefante, le aveva impedito di fare questo per me.
Mentre faceva fuoco sulla mia insensibilità muoveva i fianchi e mi parve come se ballasse un merengue. Mi sentii un muchacho di un barrio, la loro versione delle favelas, solo sulla strada a vedere questa merenguera e a sentirmi più solo per non poter ballare con lei.
Ma poi si calmò, ridivenendo promessa di miele.

La pace mi costò la cena. Ordinai una canoa de mariscos.
Non sapevo cosa fosse esattamente, ma la presenza dei frutti di mare, i mariscos, mi invogliava. In fondo, avevo già sperimentato il mangiare creolo, alla fine me l’ero anche fatta piacere, quella comida criolla; cos’altro poteva capitarmi? Il cameriere si presentò dopo un debito tempo recando, in un trionfo culinario, sopra un vassoio, una mezza piña fumante. La canoa de mariscos era appunto una mezza ananas spaccata secondo la lunghezza, scavata e riempita di una zuppa ai frutti di mare. La sola vista mi estasiò. La superficie liquida era semi-solidificata, sembrava essere lievemente gratinata. Questo morbido velo manteneva parzialmente sommersi vari molluschi e altre delizie marine. Un vapore profumato di pesce, di spezie, di erbe e di frutta emanava da questo paesaggio culinario.
Con un riluttante colpo di cucchiaio, ruppi l’equilibrio e iniziai ad assaporare. Si rivelò una vera delizia! Il succo che ancora sprigionava dalla polpa rimasta si mescolava con il brodo, unendo il sapore del mare a quello della terra, il dolce al salato. La polpa stessa, via via che mangiavo, si scopriva e si rivelava intrisa del gusto della zuppa, già di suo eccellente. La asportai forsennatamente con il cucchiaio.
Ecco, mi chiedo ora perché attribuisca tanta importanza a questo piatto. Forse perché mi sorprese troppo. L’America Latina non mi era mai sembrata una terra da raffinatezze culinarie. Pensavo piuttosto alla carne, tanta e generosa: dal Messico all’Argentina manzi e mucche forniscono quanto di meglio si possa chiedere. Ristoranti di lusso, sì, quanti se ne vogliono: ma lusso yankee o europeo. Certa cucina messicana, intrigante, mi è sempre sembrata un’elaborazione d’oltre Rio Bravo: e comunque, ci va giù pesante, con i sapori decisi. Sicuramente dai sapori decisi è la cucina latino-americana esportata, sebbene, per quanto mi riguarda, l’abbia conosciuta prima sul posto e solo dopo in Europa: chorizos in ogni variante d’oltremare, feijoadas, asados, chili con carne, carne do sol, nachos, eccetera eccetera. Insomma, vuoi per la povertà, vuoi per il colonialismo perdurante, non l’avevo mai figurata capace di offrire una canoa de mariscos.
E in effetti, non è un po’ simbolica? L’accostamento brutale di sapori, che eppure si fondono ma lasciano intendere le proprie origini, l’ingegno a creare il bello partendo dalle cose più semplici; tutto molto emblematico dell’America Latina. O almeno di una sua metà. È vero: avrei dovuto ordinare anche l’altra metà della piña, conoscere l’altra realtà del continente. Avrei dovuto; ma probabilmente quella mezza ananas era già marcita.
Perché già il Venezuela è tante cose, non solo queste. È anche presentarsi in un locale giovanile alla moda - stile Hard Rock Café - e vedersi l’ingresso impedito perché si è in scarpe da ginnastica: no, niente da fare, devi andare... finché non mostri che risiedi all’Eurobuilding, ad esempio, e allora ti lasciano passare, valutando che, se puoi spendere un minimo di 180 dollari a notte, sei un tipo che spenderà abbastanza anche nel locale.
A Caracas c’è il Club Italiano. Per entrare devi mostrare il passaporto italiano: davvero. La ragazza di Gian Luigi, anfitrione italo-venezuelano, di famiglia asturiana, poteva entrare perché il suo nome era registrato come fidanzata di italiano. Naturalmente, per italiano e spagnolo si deve intendere la nazionalità di provenienza: metà Paese, o forse più, ha la doppia cittadinanza. All’interno, si svolgeva un torneo di calcio con le squadre che avevano le maglie del nostro campionato. C’era la gelateria, la pizzeria e ogni simbolo di italianità all’estero. Todos hablaban español. Claro.
In una elegante libreria della zona commerciale alcuni tipi brindavano davanti ai quotidiani che annunciavano il primo avviso di garanzia a Craxi. Non sembravano dei fans dell’onestà: piuttosto mi diedero l’impressione d’essere vecchi nostalgici convinti che quei socialisti fossero ancora parenti stretti dei comunisti. “Rossi”, tutt’e due.
La signora Dina Franchi, una manager d’azienda, fu molto gentile nell’invito a casa sua, in un condominio di un elegante quartiere sulle alture: purtroppo quello che stava fuori dell’appartamento non aveva nulla di gentile. Doppi cancelli, telecamere: e a questo ci si è pure abituati. Poi le scale, il pianerottolo: qui la sorpresa. La porta blindata con doppia serratura era preceduta da uno sgraziato ma efficace cancello. Non solo i ricchi, ma anche i benestanti di Caracas vivono barricati in casa, terrorizzati che la gente dei barrios tenti una ruspante ridistribuzione di ricchezza.
Tensione sociale ce n’era. Da pochi giorni era andato in scena l’ennesimo tentativo di golpe: ogni tanto, qualcuno ne riesce pure. Nelle strade, la polizia (ma sembravano militari) presidiava ogni dove tenendo il mitra o il fucile a pompa spianato. Aerei ricognitori militari sorvolavano costantemente la città, annoiando con il loro tuono sgarrato e prolungato. I danni di qualche bomba venivano riparati qua e là, ma era come se niente fosse mai successo. Il sabato e la domenica, gli aerei per l’Isla Margarita erano sempre pieni, con l’aeroporto di Maiquetia che diventava una specie di posteggio taxi: qual è il prossimo libero?
In città diventavano ancora più evidenti i poveri che non sapevano cosa aspettare: però l’aspettavano con silente tenacia.
Nemmeno un passo di merengue sapeva scrollarli via dalla loro mancanza di prospettiva. In Brasile o samba puoi ballarlo da solo, nella folla o a un angolo di strada: el merengue devi ballarlo in due. Così il dolce ritmo, anziché lenire i mali della solitudine, li intensifica. Vedere ballare una merenguera è certo uno spettacolo che non si scorda. Io non lo scordo.
A Caracas fui con sorpresa portato dentro un museo, un ambiente moderno e rarefatto, accogliente, poco frequentato. Vagavo nelle sale fingendo competenza - quella si attendeva da me - quando m’imbattei in una meravigliosa scultura di Lucio Fontana. Mi tolsi le scarpe e vi entrai dentro. Si poteva. Si doveva. Ne ebbi un appagamento tanto intenso quanto era stato inatteso. Accarezzavo quel concetto in forme spaziali e mi sintonizzai su quel Paese che si lascia penetrare ma non capire, rigido e asciutto ma pieno di squarci. Ma ci volle mezza ananas svuotata e riempita per ricevere il segnale giusto.

Tutto questo lo penso adesso, a migliaia di chilometri, a dieci ore di volo e a un tempo mentale infinito di distanza. Allora, ero soltanto, semplicemente, totalmente estasiato davanti a una mera pietanza. L’emozione, il calore che saliva dalla canoa, la temperatura ambientale anch’essa elevata, l’ammirazione e l’invidia degli altri commensali e clienti: mi sentivo al centro del mondo, soltanto per una squisita ricetta. E, sì, ne avrei chiesta volentieri l’altra metà: ma solo per golosità, se già la prima e il buonissimo pane caldo strofinato d’aglio che sempre in Venezuela portano in tavola non mi avessero saziato. Ma la gola avrebbe voluto ancora, ancora...
Il sapore irripetibile di quel piatto mi rimase, forse lo serbo ancora, piacevole compagno, sulle labbra.
Non smettevo di pensare a Iraima. E alla promessa delle labbra sue.

Guadalajara

30.12.2013 06:19

Non ricordo nulla. Ho provato a cercare con Google Earth e Street View ma è come se guardassi una città inesplorata.
È strano che sia tornato a pensarci solo adesso. Adesso che ho rivisto lei, mamma con una figlia grandicella ancora a lei appesa, dopo che lì l’avevo lasciata sul procinto di appendere la vita sua a qualcosa di certo. Poco più che bambina, direi con frase scontata. Ma ecco perché non riconosco nemmeno quella chiesa, perché le poche sensazioni relative ai luoghi mi portano a immaginare un paesino e non già una città, perché quasi mi confondo e mi chiedo se non fosse la più equidistante Sigüenza dove voleva incontrarmi lei. È perché mi sovrasta l’immensa misura del fallimento.

L’unica immagine che ricordo bene è talmente prosaica da rasentare la volgarità. Il piazzaletto delle corriere, e la mia che parte, dopo la sua, e i miei occhi fissi sul bagno che passa da sinistra a destra nel momento esatto in cui la vescica mi segnala d’essere piena.
Ahimé, di quella grigia giornata invernale è questo il ricordo più forte, l’unico nitido.
Ebbene, è inutile parlare delle cause di fallimenti già avvenuti. Più divertente e cinico raccontare gli effetti di quello, banale, intercorso quel 31 dicembre.
Sì, era l’ultimo giorno dell’anno e per quell’incontro si era sottratto tempo, soprattutto lei, ai preparativi e alle attese dei rispettivi veglioni, in due città diverse, nelle due direzioni opposte rispetto a dove ci si era dati appuntamento. Per rivedersi. Se n’era creata occasione.

Sono sicuro che andammo a mangiare in un ristorante. Saremmo stati entrambi in grado di cavarcela con tapas o un bocadillo. Invece no, di questo sono certo a causa delle conseguenze: pranzammo in un ristorante. Può darsi che avesse i muri in pietra. Può darsi. Insomma, il freddo piovosetto di quel San Silvestro mi indusse a ordinare una minestra fumante. Forse per scaldarmi, che cosa chissà, forse per inconsapevolmente autopunirmi. Era buona, sì, sì. Cos’altro mangiai non so. Rammento la minestra per le sue conseguenze. Di cosa fosse, non m’è più dato di sapere. Probabilmente di qualcosa che aveva stuzzicato la mia curiosità. Era anche abbastanza salata, non tanto da rovinarne la bontà, però di cloruro di sodio ce n’era.
Finito il pranzo, il momento dell’addio era incombente. Solo il tempo di andare a piedi, sempre nel freddino umido, alla partenza delle corriere. Strada troppo corta, abbracci, grazie per i reciproci regalini, ennesimo interrogarsi sul significato preciso attribuito dagli spagnoli al loro dire ¡Adiós!, ancora abbracci, poi la sua corriera era pronta a partire. E partì.
La mia l’avrebbe fatto non molti minuti dopo, per fortuna.
Come impiegare quel breve troppo lungo tempo? Passeggiatina fino alla strada di sopra, forse la feci. Quando i minuti erano ormai pochi, guardai la piccola costruzione delle toilettes e mi dissi di andare al bagno. Mi risposi: “Ma non mi scappa.”. E poi il viaggio era di nemmeno un’oretta. E così la corriera partì con i miei umori sopra.
Sempre, in tutto il mondo, nel momento esatto in cui le portiere si chiudono e l’autista ingrana la marcia e le ruote iniziano a muoversi, si sente un sospiro collettivo, sommesso ma deciso. Tra il finalmente e il di già. Talvolta è accompagnato da un ultimo sguardo, un’impressione finale sulla retina del luogo dove si è stati. Partire è un po’ morire… Non so chi morisse tra gli altri occupatori di posti. Li guardai, erano vestiti in modo discutibile per i canoni italici. L’aria vagamente sfigata, di chi il fine d’anno prende una corriera sotto la pioggia. A causa della stressata condizione psicologica, io optai per il pacchetto completo sospiro-sguardo, e sospirai e guardai di nuovo la casetta dei bagni e la vescica urlò.
Fu un urlo lacerante, un rimprovero, un’invocazione di soccorso. La brodaglia calda salata era stata aiutata dal freddo. Era piombata giù tutta insieme, con la complicità dell’ansia regalata dalla constatazione che il bagno stava andando. Se gli altri sono appannati, questo ricordo è nitido come se lo vivessi adesso.

“Magari è come in Brasile, c’è il cesso di servizio a bordo.”
Non è come in Brasile. Devo resistere. Facile quando non ci pensi, e soprattutto quando non hai bevuto un’abbondante scodella di sopa, de sopa de algo! Resistere. Provo a guardare fuori dal finestrino. Ci sono ancora i semafori. Ancora le case della periferia, accanto a qualche capannone d’officina, dietro le quali si intravvede una linea ferroviaria. L’andatura sommessa e i rallentamenti aumentano il nervosismo e, con esso, il bisogno. Che fare? Serve una soluzione, ma qual è la soluzione a un impellente stimolo fisiologico su un bus di linea che non prevede il bagno tra le sue dotazioni? Divagare la mente, non pensarci, fissare l’attenzione su qualcosa. Ah, già. Peccato che senta il liquido premere sul condotto, l’unico che abbia a disposizione.
Finalmente il pullman esce dall’agglomerato urbano, ponendosi su una statale veloce che scende piano piano. Il percorso corrisponde alla bisettrice del grande angolo composto dalla Sierra de Guadarrama, a nord-ovest, e dalla Serrania de Cuenca, a novanta gradi verso est rispetto alla prima. Due catene non particolarmente rilevate e anche un po’ separate da quello che pare come un larghissimo passo: appunto quello scavalcato da questo percorso antico. La Sierra la vedo a destra, in fondo alla grande piana digradante solcata dalle non frequenti acque. No: acque, che brutta parola…

Perché non avevo preso il treno? Il treno ha i gabinetti. Forse non andavano bene gli orari. Sul treno mi sarei liberato facilmente. Forse avevo voluto risparmiare. Magari pochi soldi. Per quel poco denaro in più ora mi sarei svuotato senza problemi.

Invece di problemi ne ho. Caspita, se ne ho! Il desiderio preme forte sulla morale, anzi sulla moralità. Voglio farla. Sì. Chi se ne importa, la faccio! E se poi non esce? L’ho sentito dire, che se la trattieni troppo poi non esce. Forare la vescica. Dovrei farlo.
Quanto tempo è passato? Da quanto siamo in movimento? Scappa. Uhm, non c’è tanta gente dietro. Vado dietro. Cerco posizioni che diano sollievo, un po’ ci riesco. D’improvviso, inaspettatamente, l’autobus accosta e si ferma. Scendo, scendo! Ma non è una sosta, soltanto una fermata rapidissima per far salire una poveraccia in attesa sulla larga strada tra i campi. Sì, da un po’ ci sono campi, luoghi ideali per scendere ed espletare. Se fa un’altra fermata, scendo, eseguo, e poi aspetto paziente il prossimo autobus.
Non è tardi, ma l’uggia della giornata anticipa la sera, in un crepuscolo prolungato. È l’ultimo dell’anno. E se non c’è un’altra corsa dopo di questa? Rimango nella campagna della Meseta. Magari faccio autostop. Sono ben vestito, poiché m’ero stupidamente ben vestito per l’incontro, e un tipo incravattato desta fiducia. La speranza mi dà qualche brandello di sopportazione. Ma sparisce rapidamente. Lo stimolo spinge, gonfia, dilata, brucia. Il cervello prova a combattere contro lo stimolo, ma perde. Lo stimolo è forte. La disfatta sembra alle porte.
La cravatta è invece maledetta, la allento, mi soffoca. La allento di più. La tolgo. Devo reggere fino al capolinea, non è proprio dentro la città, quindi non si incontrerà molto traffico. Le stazioni della metro – non è Roma – hanno spesso i bagni. Avenida de América è l’interconnessione con le corriere, vuoi che non ce l’abbia? Magari ce la faccio. No, non ce la faccio. La busta del regalo! Il pacchetto lo porterò a mano, sai che problema. La faccio nella busta! Mi nascondo bene dietro il sedile, e via…
Si riaccosta, la corriera. Seconda fermata, andata: e con essa la possibilità del piano di evacuazione campagnola e quella di passare la notte sotto un albero castigliano. Ma io ho la mia busta, ora ci penso io. Come mettermi? Non devono vedermi, sennò sai la vergogna e poi se so che mi vedono mi blocco e dopo è pure peggio e devo pure fare attenzione a non sporcarmi che poi metti che sale uno e viene a sedersi dietro mi vede bagnato. E non è facile trovare una posizione. Ci penso più dal punto di vista teorico che pratico. Non è che possa armeggiare coi pantaloni prima di essere sicuro di non essere visto e di non aver fatto capire quali intenzioni abbia. Non m’è mai successo in vita mia, di trovarmi in questa situazione!
Il pullman va. Ma non potrebbe andare un po’ più veloce? Sudo, freddo o caldo non so. Preme, il liquido preme. Se solo immagino la soddisfazione di liberarmene, la consapevolezza provata di non poterlo fare rende la tortura insopportabile. Tortura, ecco: è proprio una tortura. La busta, la busta! Ma come fare? In realtà il pensare alla soluzione-busta è un ottimo rimedio contro le conseguenze della prefigurazione della soddisfazione liberatoria. Le inibizioni del come tappano la falla imminente.
La cinta l’ho slacciata da tempo, ma se sbottonassi i pantaloni sarebbe irreparabile: l’associazione gesto-minzione farebbe scattare immediatamente un comando che non sarebbe possibile ritirare. La voce che già batteva in testa si fa più prepotente: “Falla, falla, che ti frega, falla!” Quasi gli do retta. Ma chi li conosce questi qui, questi poveretti che il pomeriggio dell’ultimo dell’anno se ne stanno ancora in corriera. Mi biasimeranno, e allora? Perché, state meglio voi, con un futuro banale e senza un passato come il mio, magari doloroso, ma grande, alto, pure nobile? Io sto su questo stramaledetto pullman senza bagno – oddio, non è che stava sulle scalette? Una volta, a Torino, ce l’aveva sulle scalette. No, non c’è, non c’è – ci sto perché ho avuto l’incontro, io non sono di qui, ma voi, che cosa mi guardereste schifati? Siete dei poveracci. E poi, mica l’ho fatta in terra, che cavolo, ho riempito la busta. Adesso scendo e la butto, embè?
Deliro. E ché, forse ho la vescica infetta ed ora che è troppo piena l’infezione risale le vie urinarie? Infezione delle vie urinarie: esiste. Sudo. È la febbre. Sì, è febbre, che altro?
C’è un tipo senza età, o il lavoro l’ha invecchiato precocemente oppure ha molto di più di quello che i jeans e lo zainetto – non da studente, da manovale – farebbero pensare. È un uomo possente, dai muscoli duri. Pelato, con i capelli bianchi – precocemente bianchi? – solo sui lati e sul basso della nuca, ha un naso importante e gli occhi grandi ed espressivi. È indecifrabile. Oltre all’età, anche la condizione. Rammento che prima di salire aveva un berretto di lana in testa. Il volto esprime consapevolezza, potrebbe essere un professore di filosofia distaccato dalle cose del mondo, sebbene l’arrossamento delle sclere mi indirizzi verso la polvere dei cantieri. Lui ha capito, sì, perché si volta a scrutarmi. Figurati! Deve averlo fatto sentendomi muovere. Non come la cicciona che occupa due posti e aveva girato il suo viso porcellanato solo per fastidio. Ma in fondo è proprio lei quella da temere di più. Da come ostenta l’obesità, dev’essere disposta a considerare soltanto le sue, di esigenze. L’altro no: se ha capito, saprà anche comprendere! Magari fa filosofia sulle impalcature.
Spinge. Provo la posizione parto, che dà sollievo per un poco. Dopo qualche minuto, scopro che così la prostata è lasciata sola e improvvisamente si ribella. Mi suggerisce il paragone con un vecchio otre stappato. Se sta in piedi, tutto teso, l’acqua preme sul fondo e allarga le cuciture, ma come lo poggi, si affloscia e l’acqua straripa dal tappo mancante. Non c’entra niente questo paragone con la prostata, però l’otre con la vescica sì, e non credo che la vescica abbia cuciture ma forse è stata progettata per sopportare carichi minori e sta a vedere che qualche danno mi si procura, e insomma. Cambio posizione, scivolo con le ginocchia verso terra, torcendomi all’indietro, così che mi incastro nello spazio per le gambe prono con il petto sul cuscino e la fronte che tocca lo schienale. Mi costringo con gli occhi chiusi schiacciati sulla tappezzeria, quando li riapro devo per forza girare il capo e lo faccio in direzione del finestrino e vedo un aeroporto, siamo vicini! Però è piccolo, e gli aerei laggiù piccolissimi. Mi paiono aerei militari, sì, è un aeroporto militare. Dannazione, ma dove stiamo? Ah, c’è un altro aeroporto, questo è grosso. E quell’aereo che atterra è un trimotore, forse un 727, è un aeroporto civile, è L’Aeroporto. Siamo vicini.
Gli ultimi chilometri sono forse i più difficili. Ricominciano i semafori. “Verde, ti prego, resta verde!”. Piccola la soddisfazione se riesce, grande la delusione se il rosso scatta. Gli scossoni della circolazione urbana sono tremendi. Sento uno spillo confitto nell’uretra che ogni volta punge più forte. Afferro con le mani il sedile di fronte e cerco di ammortizzare: qualche risultato lo ottengo. L’autobus imbocca la Avenida de América e ne ricavo una blanda soddisfazione, che aumenta appena scorgo la fermata della metro omonima.
Panico! All’improvviso, di nuovo. Ho pensato che devo riallacciare la cinta, ma mi sono reso conto che è impossibile. I pantaloni sono leggermente larghi, senza cinta hanno lasciato andare la pancia. Era quello che cercavo, d’altronde. Ma adesso ristringere la cinta provocherebbe lo zampillio. Anche sotto attacco, il cervello lavora, per fortuna. Così mi allaccio la cinta all’ultimo buco, tiro fuori la camicia dai pantaloni per coprirla e chisseneimporta se è spiegazzata. La cravatta era già volata via. Mi metto in piedi e faccio i conti con la nuova posizione. Sbrigatevi a scendere, dai! La cicciona si fa scivolare dal sedile e blocca il passaggio. Con sguardo cattivo raccatta lentamente borse, borsette, pastrano, sciarpa, cappello, soppesando ogni cosa come a riconoscerne la funzione. Scavalcarla è impossibile, anche a ucciderla occuperebbe troppo spazio. Il filosofo da cantiere guarda, vede e urla con voce autoritaria qualcosa all’autista. La porta posteriore si apre. Mi giro un secondo a intercettargli lo sguardo. Grazie.

Finalmente sono sul marciapiede e con passo giusto – cioè non troppo lento a perdere tempo, ma nemmeno particolarmente veloce perché insostenibile – vado alla scala mobile, che scendo. Arrivato sotto, con piglio sicuro mi metto a cercare il bagno. Non vedo il simbolo. Imbocco alcuni passaggi, certo di trovarlo. Niente. Ma ci deve essere!
La capacità decisionale è una delle principali risorse, in una vita. Poi, quasi sempre sbagliamo: ma se non scegliamo non viviamo la vita nostra. E allora, scelgo. Sono solo due fermate fino a Príncipe de Vergara. Mi precipito nel tunnel della linea 9, direzione Pavones, e becco un treno quasi al volo. I successi danno forza. Reggo. Un posto libero. No, non posso più sedermi. Però, reggo. Núñez de Balboa, ed ecco Príncipe de Vergara. Sono fuori dal treno. Gli occhi scansionano le icone. Quella della toilette latita. Che sia diversa? Ma no, me la ricordo, quando non mi serviva, la vedevo in tutte le stazioni. È uguale. Non c’è, punto. Decisione, decisione. Mi infilo nel corridoio che conduce alla linea 2, arrivo alla banchina. Fosse qui, il cesso? Nemmeno quaggiù. Intanto, sento l’aria spinta a stantuffo, arriva il treno. Ostento calma, e ci monto. Solo tre fermate per Sevilla. Non dura tanto. Arriva, una scala mobile è ferma, tutti utilizziamo l’altra, metto il naso in strada. È definitivamente buio.
L’albergo è davvero a pochi metri. Sento i pantaloni calare, cammino a pancia in avanti, capisco di essere spettinato. Il concièrge mi guarda finto affabile ed è come se si domandasse cosa voglia da lui. La chiave, ¡tonto! Si gira con calma e prima di consegnarmela si assicura che abbia notato il suo sorriso da servo infedele. Sindrome di bontà da periodo natalizio. Bi-tonto. Afferro la chiave imponendomi di non dare valore alla cosa. Non sono ancora in camera. Sarebbe interessante, ora, mollarla in ascensore. Non sulla corriera, non nella busta, non in una tasca della cicciona. Nemmeno ad Avenida de América o a Príncipe de Vergara, né a Sevilla dove non ha avuto nemmeno senso cercare il bagno. No: invece, qui, in ascensore.
Forse guardarmi sfatto nello specchio mi dissuade dal folle gesto. Entro in camera, butto a terra tutto quanto avevo in mano, anzi, lo lascio cadere giù, apro la porta del bagno, entro, mi accosto al water, apro i pantaloni e…

Gli allarmi si montano nella casa dove si sono ori da difendere. Ma i ladri sanno rubarli lo stesso. La sirena suona, ma nessuno corre. Così la casa rimane senza ori, ma con l’allarme. Dopo, un topino entra da una fessura. La sirena suona, e stavolta tutti accorrono. Si agitano, controllano, la frenesia li prende, circondano, perlustrano. Non trovano i ladri. E allora li assale il panico, e ricominciano le operazioni. Quando stanno per cedere, da sotto un tappeto salta fuori il topolino, che scappa via e fugge dalla stessa fessura.

Solo un flebile getto tintinnò nella ceramica sanitaria, come se i muscoli della vescica si fossero paralizzati. Tutto qui?
Avevo una vescica senza oro. Il sorcio del malessere aveva fatto scattare l’allarme. La tangibilità del fallimento. Ecco perché di quel giorno non ricordo i luoghi fisici ma solo una volgare esigenza fisiologica.
Perché avevo visitato una casa senza più ori. Perché non avevo visitato Guadalajara. Avevo visitato lei. Un luogo dove ero stato felice. Errore.

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