Ricordi di viaggi di un italiano nascosto

di Enrico Proietti



silenzi@live.it

Kruger Park

29.01.2014 19:40

La mia immagine del Kruger Park è il leopardo sull’albero. Due volte, due botte.

La seconda è subito. Guido un attrezzo, il pick-up della Ford di Mamane che frena poco, butta di brutto a destra, arranca un po’ e ogni tanto gli si inserisce l’allarme. Però ce l’ha prestato con rara generosità, grande Mamane, e allora bene anche senza air conditioned. Poco importa se a Ressano Garcia ci siamo accorti di non avere il certificato di assicurazione. Sarebbe obbligatorio produrlo. Una appropriata astuzia femminile ci ha salvato, una specie di finta di corpo, un colpo da “tre carte”. Siamo anche riusciti a non farci taglieggiare da una agente di frontiera sudafricana che voleva cambiarci i meticais in rand. Chissà con quale commissione.
Già abbiamo visto una giraffa con un figlio grandicello in una proprietà a sinistra della highway che scende dal confine, sembra un miracolo, la grande aspettativa subito esaudita. Li riempiamo di foto, poi entriamo a Malelane. Anche stavolta si dorme a Skukuza.
Odio i safari. L’altra volta mi sono divertito solo al giro notturno sul camion, per il resto due scatole paurose. Però al ristorante si mangia bene e tanto a prezzi stra-ragionevoli. E poi non potevo negare la gioia di incontrare gli animali selvaggi. Oltre a me, intendo dire. Non mordo, parlo poco, ma ringhio sentenze.
Insomma, all’ingresso pago entrata e confermo pernotto, a seguire qualche uccello, e quegli alberi bassi sempre in una sorta di perenne inizio autunno in mezzo ai quali devi cercare gli animali. Pochi chilometri solo con un paio di mangustine in mezzo alla strada. Devi stare attento, all’inizio ti sembrano sassi o smerdate di qualche mammifero, poi vedi quest’escremento alzarsi dritto e ti dici che non è possibile che gli escrementi si alzino senza vento. Infine, all’improvviso noti gli occhietti un attimo prima che schizzino via dalla carreggiata e si infilino nell’erba, scomparendo.
Il modo migliore per avvistare animali dentro al Kruger è di osservare rallentamenti e fermate delle altre macchine. Meglio di tutte, le jeeppette guidate dal personale del parco. Sono i giri a pagamento, loro conoscono le abitudini degli animali, stimo che si abbia un 25% in più di possibilità di buoni incontri. Così, ne noto una ripartire dalla parte opposta alla mia carica di bimbe biondine, madri biondine, tutte così biondine e così rigorosamente vestite da safari che mi fanno chiedere una volta di più se ‘sti boers hanno davvero accettato il nuovo corso delle cose. Ma quella è un’altra storia. In questa, le biondine controllavano i visori delle macchine fotografiche.
Rallento, mi accosto sulla sinistra e guardiamo tra la vegetazione. Niente. Quindi, un sovvenimento. Alzo lo sguardo e vedo la coda.
“Sta sull’albero”, dico. E’ una bestia molto bella, nobiltà da felino ostentata. L’apparizione del leopardo appena entrati nel parco è un buon segno: infonde gioia, insieme alla soddisfazione. Foto, foto, foto. Sbadiglia, alza un sopracciglio ad ogni scatto, stiracchia la coda, lunghissima.

L’autovettura non è un obiettivo, per le belve. Te lo ripetono all’infinito. Se rimanete in macchina, non vi attaccheranno mai. Ma, se scendete, diventate una preda. Non scendete mai.

La prima volta ero sceso subito.
Non era stato all’inizio, anzi dopo aver lasciato Skukuza. Avevo già visto la giraffa, l’elefante, l’ippopotamo e soprattutto il rinoceronte. L’elefante è più grosso e alto, la giraffa molto più alta, l’ippopotamo certamente più pericoloso, ma il rinoceronte fa veramente impressione. È un carro armato, un Transit animato e imbottito di piombo. Lo vedi, e ti rendi conto che “meno-male-la-macchina-non-è-un-obiettivo”: altrimenti, capisci al volo, il tuo fuoristrada è destinato a una fine ingloriosa, e tu con lui. Quando prende un po’ di corsa, senti il terreno rimbombare. Fortunatamente, li ho visti correre solo per andarsene via scocciati. Il rinoceronte ti lascia ipnotizzato, con la bocca spalancata. Capisco Ionesco, ma non fino in fondo. Il rinoceronte sulla piazza del paese è quanto di più in grado di creare scompiglio, di sovvertire le proporzioni delle cose percepite. In parallelo, la sua possanza, le sue corazze e anche il suo sguardo senza dubbi attraggono quanti non chiedono di meglio che accodare i propri comodi e interessi a chi appare possente, corazzato, senza dubbi.
Però il rinoceronte, dopo l’impressione iniziale, ti suscita sentimenti positivi, ti viene quasi la voglia paradossale – che poi non lo è – di proteggerlo, lui relitto di una Terra antica: ti sembra a disagio in questo mondo più minuto, è una minoranza. Parteggi per lui. I rinoceronti non saranno mai una maggioranza, men che meno urlante.

Allora, quella prima volta al Kruger, ero sceso subito non appena visto il leopardo sull’albero. E subito ligi boers mi avevano ricordato che ciò era vietato.
Nonostante una infantile propensione ad amare ciò che è vietato, approfitto della circostanza per osservare ancora una volta come nei Paesi ispirati da civiltà più evolute, le cose sono vietate e punto. Da noi, le cose sono vietate severamente, rigorosamente, espressamente, qualunquemente. Perché il solo divieto, figurati se basta!
Ma dunque, i boers pallidi mi ricordavano acerbamente il divieto. Ma santa pace, dicevo io: uno, non ti levi da sotto l’albero nemmeno se hai riempito la memory card perché ti senti investito del diritto divino di aver conquistato quel posto e non mi fai spazio; due, ma ti sei accorto che non sono sceso in mezzo alla macchia, bensì al centro di un agglomerato di sei o sette fuoristrada da cui fuoriescono commenti che messi tutt’insieme fanno, nel silenzio arcaico dell’altopiano, una caciara non da poco?
Così avevo risposto con uno “yes” polemico, e avevo fatto la mia foto da una postazione similare a quella del tipo più ligio. E maleducato abbastanza, che proprio di spostare il suo all-terrain vehicle non lo concepiva. O egoista. O razzista. Insomma, un boer. Vil razza dannata!
Il più sensibile là in mezzo era il leopardo. Anzi, là sopra: dava aristocraticamente le terga al pubblico, si voltava col muso a valutare se prima o poi il chiasso sarebbe finito e riusciva a rimanere immobile per lassi di secondi incalcolabili. Il calcolo da brivido se ce l’avrebbe fatta a saltarci in testa credo che lo stessimo facendo tutti.
In realtà sembrava compatirci. Principe eroico e infastidito, magnanimo verso i giullari di se stessi che eravamo noi inquadranti la vita in un mirino. Lui, in nobile ombra, noi villanamente sotto il sole impolverati. In alto lui, e noi in basso: ma ci sapeva falsamente adoranti. La diffidenza traspariva dai movimenti della coda, che perlustravano le vibrazioni dell’aria e dei nostri petti.
Mi era venuta voglia di far allontanare tutti, di lasciarlo in pace. Sentii l’idiozia di quel vagolare in fuoristrada a cercare l’animale selvaggio. Era tutto un film, un parco-Disney; mi convinsi che la giraffa che ci aveva aspettato fuori del cancello di Skukuza al calare della sera era pagata dalla direzione. Sali sul camion, esci dal rest camp e subito la vedi, maestosa e ancora coi suoi colori di sole. Come può convivere la selvatichezza di questi animali con la forsennataggine di quest’altri mille insetti a motore lamierati che ronzano per strade troppo spesso anche asfaltate?

La premessa maestosa del leopardo sull’albero non condusse alla maestà. La cercammo a bruciarci gli occhi, a intendere lyon quando la secca-in-tutto boer aveva detto rhino, a confermarci fino a escludere ogni dubbio, ragionevole e irragionevole, che quello era proprio un masso e non il re. Niente.
Peccato. Sarebbe servita una presenza maestosa.
Sarebbe servita per dimenticare tante cose, perché il ricordo si incentrasse sulle belve animali e non su quelle umane. Per consegnare a un ipocrita oblio che questo è il Paese di Soweto, dei razzismi tra etnie nere, delle persone imprigionate in un copertone di camion calato a forza dalla testa e poi uccise incendiandolo; che questo è il Paese ancora in mano alle multinazionali colonialiste e razziste, delle miniere dalle condizioni di lavoro infami, dei bianchi che giocano a rugby e dei neri che giocano a football; che questo è il Paese con il più alto numero di malati di AIDS, o forse quello che sa contarli meglio, che respinge gli immigrati alla frontiera mozambicana e utilizza i mozambicani per il bracconaggio dei rinoceronti; che questo è il Paese di Mandela e di Desmond Tutu; e di Stephen Biko e di tante, troppe altre sofferenze e morti.
Ma invece forse è meglio. Perché si può spegnere una candela, ma non si può spegnere un incendio. Una volta che le fiamme cominciano a prendere, il vento le sospingerà più in alto.
“You can blow out a candle
But you can't blow out a fire
Once the flames begin to catch
The wind will blow it higher.”[1]
Forse con l’avvistamento della maestà avremmo soffiato sulla candela, appagati dal conseguimento dell’obiettivo di rapina, di nuovo turisti da due giorni e già dimentichi della propria coscienza. Invece restiamo nell’umiltà di essere costretti a ossequiare dal basso già solo il principe.
Una volta fotografavo alberi d’inverno con un grandangolare dal basso. Il tronco appariva più lungo e i rami spogli tendevano a confondersi col cielo, o come a costituire delle drammatiche sue ossature. “La visione da formica degli alberi”, la chiamai una volta. Soccorreva la mia ricerca d’umiltà.
Umiltà davanti a tanta Natura! Come può l’uomo concepire di passare al supermarket degli animali selvaggi e prelevare un’emozione incellofanata dentro i cristalli di un fuoristrada? Portare a casa un facile trofeo in megapixel? “Non puntare mai la luce negli occhi degli animali”, ha detto e ripetuto l’aitante guardaparco zulu prima di partire per il giro notturno, prima di consegnare senza cautela i fari portatili istallati tra i sedili del camion alla turistica smania di ricordo. E subito un asiatico dal rutto continuo, giapponese, coreano o che, la prima cosa che fa è abbagliare le povere gazzelle disturbate nella quiete ultima che precede l’alba, e poi gli ippopotami eccezionalmente sorpresi fuori dall’acqua a brucare l’erba, e poi poco ci manca che gli mollo un cazzotto. E dire che la vista della pianura a savana dai primi rilievi delle Lebombo Mountains è una manata sulla testa della tua superbia umana, che ti rimpiccolisce e ti annienta. Fortuna l’averla condivisa.
Lo scaffale del leone l’abbiamo mancato. Grazie al cielo.

Insomma, usciamo dal Crocodile Bridge Gate non prima di aver fregato la boer secca-in-tutto e partecipato da sopra un ponticello a un qualcosa tra ippopotami: un gioco, una danza d’amore, un duello, chissà. Rispetto alle bocche spalancate di due dei temibili animali, che fuoriescono dall’acqua per incrociarle l’una nell’altra, siamo a pochissimi metri. In mezzo al ponte. Il super-fuoristrada verde mimetico dei boers dai teleobiettivi che spuntano dai finestrini, dietro: aspetta, ci stiamo noi, col vecchio pick-up blu di Mamane, che ce l’ha prestato senza conoscerci e tu ti sei incavolata solo perché non abbiamo capito il tuo inglese da boera.
Usciti dal Kruger, Komatiepoort presenta verdi praticelli anglosassoni e un supermercato vero dove cerco disperatamente una bevanda gassata. Mi manca l’acqua leggermente frizzante da tanti giorni, e anche questa è un’altra storia, ma penso che inconsciamente senta solo il desiderio di aiutare la digestione, di liberarmi dalla pesantezza di stomaco del folle safari usa-e-getta.

La via del ritorno rende la miseria di Ressano Garcia ancora più devastante la coscienza. Di là, con tutto l’AIDS e i mille problemi, sembra la Svizzera, al confronto. Qui le cento catapecchie popolano una inconcepibile aridità del paesaggio. Forse è l’aridità dei sentimenti che lo contagia. Una frontiera tra disperazione e speranza è uno dei posti peggiori per credere nell’Uomo. Ammiro quelle suore scalabriniane che qui continuano a farlo.
Più facile fotografare dal basso un leopardo su un albero.



[1] Da “Biko”, in Peter Gabriel (III), 1980, di Peter Gabriel.