Ricordi di viaggi di un italiano nascosto

di Enrico Proietti



silenzi@live.it

Caporetto

12.01.2014 18:36

Questo ricordo è del mio amico Marco R. piuttosto che mio. Me ne fece parte, però, assieme alla sua amicizia, proprio lungo la strada che ci recava al paese, così che esso, legato alla strada percorsa, si lasciò vivere anche da me.
Marco R., sebbene ami la costa tirrenica, ha la predestinazione adriatica: pugliese il padre, della provincia di Lecce, friulana, o forse slovena, la madre. In mezzo, appunto, il grande golfo dell’Amarissimo (sic & sigh!).
Gran soffritore del caldo, era solito passare le vacanze estive nel paese materno, nelle valli del Natisone. È un territorio dove le estreme propaggini della pianura hanno già lasciato il posto ai primi rialzi delle montagne, che però sono ancora soltanto piccoli rilievi incisi e grattati dai fiumi e dai ruscelli che dalle montagne più alte, già oltre il confine, scendono a confluire, nella pianura oltre Cividale, nel Tagliamento. Sono allegri e sinistri insieme. Tanti boschi rivestono di tonalità di verde queste colline, a gara con quelle dei prati e della vegetazione riparia.
Qua e là, su pianori in cima a rupi d’erosione, su conoidi di deiezione, o semplicemente abbarbicati su qualche fianco meno scosceso, si aprono paesi e frazioni dai nomi talvolta impronunciabili: sempre rivelanti la posizione prossima al confine tra mondo latino, slavo e, non molto distante, germanico. Villaggi absburgici, senza dubbio: sia quando costituiti da case in pietra disposte tutte lungo la strada, con le finestre a sorridere fiorite ai passanti, sia quando formati dagli ordinati ammassi delle villette bianche post-terremoto.
Anche in queste valli tranquille, sebbene un poco scostanti, il terremoto del ’74 provocò morti e distruzioni. Ma a vederle oggi, consumate le lacrime (il tempo, si sa...), piene di piccolissime imprese che costruiscono sedie, che imbottigliano slivovitz, che impastano gubane, non se ne vedono, del dolore di qualche anno fa, che le tracce. “Poi venne Santo Terremoto”, disse una trentenne, intendendo che quella gente si è ricostruita casa con le proprie forze e le proprie mani: e quando, con i soliti ritardi, vennero i soldi della ricostruzione, li usarono per avviare quelle centinaia di imprese familiari che hanno trasformato la realtà sociale del Friuli.
Ebbene, durante una di queste vacanze, un giorno Marco R. prende la bici del cugino e decide di andare di là, in Yugoslavia. Lo faceva spesso, di uscire in bicicletta. Guarda la carta su un vecchio libro di scuola, vede che il circoletto indicante Caporetto non è tanto distante dalla linea verde del confine e sceglie quale meta questa che, era una località, ora è un luogo comune.
“Ma chissà com’è fatta ‘sta Caporetto!”
Parte, portandosi la carta d’identità e qualche soldo. Vedrà se comprare un po’ di carne, che di là costa veramente poco, anche se la madre pretende di riconoscerla, e magari la riconosce davvero: dice che non è tanto buona, viene da di là. Forse, per quella generazione che ha vissuto le lotte intestine e non intestine della guerra e del dopo guerra, con i grandi dolori collettivi e le piccole immense tragedie personali, i drammi intimi delle coscienze, che si è separata in zone A e B, forse per quella generazione l’unico torto della carne di di là è di venire da di là! La osserva come se esaminasse un cadavere, poi sentenzia: “Questa viene dalla Yugoslavia”. Come se venisse dalla Cina, dove, è vero, mangiano i cani e i nidi di rondine, figurarsi.
È un buon pedalatore, è abituato: si metta che non ha nemmeno la macchina, le gambe sono allenate. Risale la valle del Natisone; una salita morbida ma comunque stancante, immagino. Pedala tranquillo fino al posto di confine, sotto la mole massiccia e apparentemente sterminata del Mataiùr.
“Otto ore senz’acqua, una volta, lassù!” mi disse mentre ci passavamo sotto.
A sinistra, più basso ma forse più ripido, il Mia. I frontalieri sorridono un po’ di questo ciclista occasionale, che entra in territorio yugoslavo convinto di fare ancora pochi chilometri e tornare indietro. La frontiera degli Slavi del Sud sta subito dopo una curva a destra, un quattro chilometri più avanti. L’ispezione è appena un po’ più accurata. Riparte.
Non può vedere quello che vedremo insieme quando ripercorreremo queste strade e lui mi racconterà la storia: i fori dei proiettili sui cartelli e sui vetri del gabbiotto del controllo passaporti. Saranno passati pochi anni, ma molto sarà cambiato. Parole nuove, o che sembrano tali, si saranno affacciate nella geografia dei telegiornali. Gli sloveni, in quei giorni, staranno versando le rate del costo della loro indipendenza. Probabilmente in marchi.
Altre separazioni saranno in atto, altri dolori collettivi, altre tragedie personali, altra indifferenza: solo che stavolta tutti, tutti lo sapranno. Gli sarà spiattellato in faccia all’ora di cena, e allora anche quelle stesse persone che soffrirono all’epoca e piansero i loro morti, come continuano a piangerli ancora, quelle stesse persone che videro con i loro occhi giovani quegli orrori ora diranno: “Eh, però, certe cose non dovrebbero farle vedere mentre uno mangia!”
Come ha sempre fatto, il Natisone continua a scendere sulla sinistra della strada, assorto nei propri gorgheggi, ma un cartello che lo indica reca la scritta Nadiža. Marco R. arriva finalmente a una sella, il fiume piega da una parte, la strada invece dall’altra, a destra, verso est. Caporetto non si vede. Subito (ora la strada spiana, forse scende un po’, dolcemente) inizia un’altra vallata, con un fiumiciattolo che passa sotto le montagne a sud. Il paesaggio è meno arido, meno o nient’affatto carsico, si direbbe. Il fondo valle, piatto, è completamente coperto di erba o di coltivazioni, la carreggiata è fiancheggiata da alberi sicuri di se, i fianchi sono ugualmente rigogliosi. In fondo, lontani, dei monti abbastanza alti da perdersi tra le nubi.
In fin dei conti, sono pochi chilometri, ma è come valicare decenni di sviluppo. In quei campi a lato della strada, tanti sono i carretti di legno che trasportano legna, patate, qualcosa. Qualche trattore che brucia fumo pestifero si sposta lento: sono grandi macchine traballanti che sembrano sprecare più energia per tirare se stesse che non per lavorare. E c’è qualcosa che manca in quei gruppuscoli di case che ogni tanto s’incontrano: lì per lì non si capisce, forse si capisce quando si torna di qua. Ecco, mancano le antenne della tele sui tetti.
Insomma, Marco R. sta pedalando per questi rettilinei e queste improvvise “esse”, e aspetta di vedere Caporetto. Aveva già passato un paesino chiamato Staro Selo, ora ce n’è un altro un po’ più grosso che si chiama Kobarid, arriva un po’ all’improvviso, ci si entra con un curvone verso destra. All’interno della curva vede una macelleria, ma decide che se la comprerà, la carne, la comprerà a Caporetto: ormai dovrebbe quasi esserci. Prima del curvone c’era stata una biforcazione, gli era venuto istintivo prendere questa strada, che pare la più grande, la più dritta. In realtà, finite le case si rende conto che punta decisamente a sud.
Ancora un fiume, stavolta più grande. È a sinistra, come si chiama? Ah, Soča, come la Soca Dance di Raffaella Carrà... “Ma guarda un po’ che vai a pensare con la fatica! E poi, sopra la ci c’è quel segno strano, come c’era prima sopra la zeta di Nadiža...”
Pedala, e si chiede dove diavolo sia mai questa benedetta Caporetto. Possibile che tanti morti siano morti in un paese che non esiste? Che la rotta totale in cui caddero, in quel grigissimo autunno del ’17, le malcondotte armate italiane abbia coinvolto nelle sue cifre gigantesche (70.000 fra morti e feriti, 300.000 dispersi, altrettanti sbandati, più di un terzo degli effettivi dell’esercito fuori combattimento) anche lo stesso centro abitato? Un mistero.
Non molto dopo il paesone con la macelleria, un altro borgo; Idrsko, tipico nome slavo zeppo di consonanti.
“Perché, tu lo sai come si dice Trieste in sloveno?” mi chiese Marco R. interrompendo il racconto.
Ero stato nel capoluogo giuliano, ma non ricordavo.
“Si dice uguale, ma senza vocali: Trst. Come faranno a pronunciarlo... In tedesco, si toglie solo l’ultima vocale, e però si pronuncia ‘trist’ anche se si scrive Triest. In sloveno, solo consonanti!”
Insomma, dopo Idrsko ancora una decina di chilometri sul fianco del fiume e nessun paese. Avesse sbagliato strada? Comincia a sentire la stanchezza, occhio e croce ha percorso ben più chilometri di quanti non ne avesse calcolati, sia pur approssimativamente, sulla cartina del libro di scuola. Si ferma e sente le gambe dure, scende al fiume per rinfrescarsi un po’, tra salici e pietre. Sorpresa! Su una zolla erbosa in mezzo alla gelida corrente, un pescatore. La speranza che parli italiano... In fondo, qui era Italia, qualche decennio fa... Qui da qualche parte c’è l’Isonzo, un fiume italiano, e da qualche altra parte, per la miseria, Caporetto.
Non parla italiano. Però è ben disposto a capire e farsi capire, purché questo curioso italiano in bici se ne vada e lo lasci pescare.
“Ca-po-retto?” chiede Marco R. aiutandosi con i gesti.
“Zsc vo zcny z drupvnoi”, o qualcosa che suona così.
“Ca – po – re – tto... Caporetto, di qua?” e fa cenno con la mano come a proseguire la strada.
“Uh?!”
“Caporetto, di qua?”, iterando il gesto.
Also!” fa, chissà perché in tedesco. “Che bart...”, o qualcosa di simile, prosegue in un linguaggio che potrebbe sembrare quasi italiano. Ma con la mano indica decisamente la direzione opposta.
“Di là?” chiede conferma Marco R.. Era da dove veniva!
“Che bart” o qualcosa di simile ripete il pescatore, e si apre in una risata che vorrebbe essere rassicurante ma che invece inquieta di più il ciclista smarrito. “Che bart!” insiste convinto, ormai sganasciandosi.
Decide di dargli retta, ha capito. Prima del paesone con la macelleria avrebbe dovuto girare a sinistra, è evidente. Caporetto starà appena lì dietro. Ormai, invece, ha fatto troppa strada, le ore sono passate. Ha solo il tempo di tornare a casa, è consigliabile lasciare il territorio yugoslavo prima che imbrunisca; sulla bici non ha luci, non si fida, meglio essere in Italia, a luci spente.
Chilometri ancora, la strada sale leggerissimamente.
Arriva al paesone: uscendone, all’interno della curva, la macelleria. Vabbè, cinque minuti per la carne... Avrà fallito con Caporetto, almeno riporta il manzo, avrà dato un senso alla giornata.
Entra, a gesti spiega quale tagli vuole, paga e esce con la sua bustina di plastica azzurra. La assicura alla canna della bici e riparte. Il vallone, la frontiera dei “plavi”, la strada che scende, quella italiana. Le ore passano, Caporetto una curiosità rimandata. In dogana, sul far della sera, chiedono, tanto per passare un po’ il tempo, cosa ci sia nella busta azzurra.
“Ho preso su un po’ di carne...” e distende la busta per farne capire il contenuto.
Quasi cade dalla bici ferma. Sbianca. Lascia andare la busta che inizia a pendolare da un lato all’altro della canna, poi la riafferra nevroticamente. A lettere rossicce, piccole, mezze scolorite, il nome della macelleria e l’indirizzo, con il nome del paese cortesemente scritto tanto in sloveno che in italiano: Kobarid - Caporetto!
“Qualcosa non va?” chiede premuroso o insospettito un agente.
“No, niente: non va la Storia!”