Ricordi di viaggi di un italiano nascosto

di Enrico Proietti



silenzi@live.it

Baja California

04.02.2014 21:09

La Baja...
Di Tijuana, la cittadina appena passata la frontiera a sud di San Diego, ricordavo uno scemo filmotto con un Tom Cruise ragazzino nel quale questi collegiali ipervitaminici ne favoleggiavano. Forse attratti dalla rima con marijuana, organizzavano una puntata a Tijuana per una vacanza di sano sesso e droga (la droga dei colleges: spinelli!). Sapendola posta esattamente a ridosso del confine, quindi pronta ad assorbire colate di dollaroni, me l’immaginavo come una sorta di Las Vegas in miniatura, anche se Las Vegas non la conoscevo.
La prima reazione fu di serrare le chiusure dell’automobile. Un posto da Terzo Mondo che vive degli escrementi della grande California, quella Alta: ma qui inizia la Bassa, e inizia nel modo peggiore. Uomini-avvoltoi stazionavano col piede appoggiato ai muri di sordide catapecchie organizzate, si fa per dire, in un reticolato ortogonale di strade sabbiose. Chi conosce, a Roma, lo schifoso viottolo di Porta Portese dove, tutti i giorni (non rientra nel discorso del mercato delle pulci domenicale), sono venduti ricambi di auto e motorini perlopiù di provenienza furtiva può capire l’impressione che ne ebbi. Nel cielo si vedono perennemente gli elicotteri del Servizio Immigrazione degli States, lugubri. Pattugliano la frontiera per impedire che il reddito medio di quelli della Alta (che però si chiama solo California, come se fosse l’unica legittima) venga abbassato dall’afflusso di quelli della Bassa. L’uscita dagli States verso il Messico è una di quelle normali frontiere sonnacchiose, dove ti guardano in fretta e furia incalzati dalla fila. Varcandola, compresi perché in tanti films si vedono quei lunghi inseguimenti a cercare di bloccare quello di turno che fugge verso il Messico. A parte la possibilità di fare un gigantesco blocco stradale, ma se non lo individuano prima, se non sanno in anticipo che faccia abbia, non avranno mai la capacità di impedirgli l’espatrio.
È l’inverso che è assai complicato. Entrare negli Stati Uniti. Io lo sperimentai, tempo dopo, a Mexicali, più o meno dall’altra parte dell’attacco della lunga striscia di terra chiamata Baja.
Il primo shock fu durante la coda per passare, che si sviluppava per una strada parallela alla linea di confine. Ebbene, questa linea era fisicamente rappresentata da un muro di cemento armato sormontato da filo spinato. Esattamente come quello di Berlino. Mancavano i graffiti e la terra di nessuno, ma il concetto era lo stesso: non si deve passare. Arrivò finalmente il momento di sottoporsi al check-point: forse Carlos?
Le grigie guardie messicane sorrisero alla macchina che tornava a casa.
Il pistolero gringo, con i suoi baffoni rosci assolutamente fuori luogo in quel luogo semidesertico, chiese i documenti. L’automobile aveva targa della California (quella senza aggettivi geografici). I passaporti consegnati erano italiani. L’equazione non gli tornava. Perché degli italiani, o piuttosto delle persone che esibivano passaporti italiani, tentavano di introdursi nel sacro suolo nordamericano (che poi, volendo, sarebbe quello del melting pot...) alla guida di un’auto statunitense, o piuttosto che recava una targa statunitense? No: c’era qualcosa sotto. Si innervosì.
Per fortuna era stupido. In genere gli stupidi sono la più grande iattura: notoriamente più pericolosi dei cattivi. In quel caso la stupidità del frontaliere gringo si risolse in una fortuna.
Voleva assumere un atteggiamento intimidatorio. Teneva i documenti in mano e strillava frasi precotte che, evidentemente, gli si formavano in mente rinvenendo da qualche manuale. Per mia buona sorte, non capivo granché. Era troppo concitato, la pronuncia doveva essere più verso la texana che altro: il caldo che, con il motore spento (e quindi anche il condizionatore) e il finestrino aperto, iniziava a opprimermi più ancora del gendarme, faceva il resto. Capii che stava ripetendo per la terza volta la stessa domanda.
“The car was hired in Los Angeles some days ago. We’re now going back there.”
Sapere che la macchina era stata locata a Los Angeles e che si tornava lì non lo soddisfece. Dubitava della veridicità della cosa. Qualcosa, ancora, non gli tornava. Gli mostrai il contratto di noleggio. Uhm. D’improvviso, cominciò a girare intorno all’auto in senso antiorario, esaminandola con apparente cura.
In verità, quello che doveva notare l’aveva in mano già da un po’ di tempo. Ma era stupido.
Stette un bel tempo a rimirare il posteriore della Kadett, poi risalì il fianco destro. Quindi, si mise meticolosamente a osservare il frontale. Tutto a un botto, scoprì il bollino della Hertz sul paraurti. Potei notare un accenno di qualcosa che somigliava a soddisfazione.
Si riavvicinò al mio vetro e chiese nuovamente. La seconda volta, capii che mi chiedeva dove e quando fosse stata affittata l’automobile. Senza parlare, per non ripetermi, allungai il braccio e gli indicai luogo e data del noleggio. Niente, ancora non tornava qualcosa.
Fece un altro giro della macchina. Lo segui con la testa fuori del finestrino, quanto bastò per incrociare con lo sguardo i componenti della vettura dietro, che aspettavano il proprio turno. Feci loro un sorriso complice. Ne ricevetti in cambio sguardi di pietra. Erano una famigliola yankee che rientrava da una gita nella natura. Guidava la moglie, biondina e rinsecchita. Condividevano apertamente lo zelo della guardia e avevano, loro giuria popolare, già deciso la nostra colpevolezza. Non potevamo che essere colpevoli: altrimenti, perché tanto lavoro da parte del guardiano della Sacra Frontiera? Guardai bene, sul loro paraurti anteriore c’era l’odioso adesivo “I’m proud to be an American”, “Sono orgoglioso di essere un Americano”: del Nord, devo ritenere.
Intanto, il nostro gringo de la frontera aveva completato il suo giro. Disse altre cose in quel modo da cerbero di provincia, che non capii, stette un altro momento a cercare di far funzionare quanto teneva dentro la scatola cranica: poi, con uno scatto del braccio, riconsegnò le carte e intimò di ripartire. Hasta luego, tonto.
Quello che doveva notare, era sui passaporti: mancava il visto di uscita dagli States. Al San Ysidro Border Crossing, lungo la 805, prima di Tijuana, scambiandoci per yankees neanche ci avevano fermato, nessuno aveva vistato i passaporti di stranieri che uscivano. La situazione era illegale, si era alieni. (Proprio così li chiamano, i disgraziati che per libera volontà, disperazione o coattamente penetrano nel sacro suolo senza visto: illegal aliens.)
Ma, in ultima analisi, quel che ora importava al gringo era che ci fosse il timbro d’ingresso del Servizio Immigrazione che qualificava, implicitamente, come turisti. Italiani. Dunque non chicanos.
Non saremmo andati a lavorare in nero, inguattati dentro fabbriche nascoste in qualche arida valle più interna intorno San Diego o Los Angeles, a produrre sottocosto per rendere più competitiva l’economia della California e dell’America (del Nord), per migliorare il loro politically correct welfare. Non saremmo andati a servizio in qualche villone volgare abbarbicato sulla costa o disteso su qualche poggio.
Ho studiato la storia: quando i Romani, gli Americani dell’antichità, dominavano per davvero il mondo, non alzarono una sola palizzata del più misero legno. Chi veniva a Roma, bastava che gettasse terra e frutti del proprio Paese nell’Umbelicus Urbis per essere accolto nel cuore dell’Impero. Fu quando quella società era già minata nelle radici che ebbe la necessità di porre muri di cemento e mattoni: ma si rivelarono inutili sotto la spinta dei popoli affamati, e dopo ci volle più di un millennio per raggiungere di nuovo un pari livello di progresso.
Oddio, questa fetta di Messico (il resto non lo conosco) non è che stia alla fame, ma certo non allo stesso livello di progresso di a nord del muro. Uscendo da Tijuana e dirigendosi verso la strada costiera, ai margini dell’abitato, si compì l’esperienza del rifornimento di benzina. Serviva. Pensando che di là costasse ancora meno, non s’era fatto negli Stati Uniti.
La pompa era una vera pompa, nel senso che gli apparecchi erogatori erano quelli vecchi con la leva sul fianco da azionare a mano per far salire il carburante in un recipiente posto sulla sommità della colonna. Una volta riempito, il liquido energetico è fatto scendere nel serbatoio dell’automobile grazie alla buona, antica legge di gravità. Dalle nostre parti solo i più vecchi li ricordano. Tre chilometri prima, a nord, l’ultima stazione di servizio era l’usuale fiera della tecnologia, con le pompe – si chiamano ancora così, e lo sono – scintillanti di cromature e di vernici metalizzate dai colori accesi. Qui, tutto era coperto da un velo di sabbia, talvolta sottile, talvolta più spesso, legato a macchie di idrocarburi leggere ma estese ovunque: i due elementi, la roccia triturata e il liquido minerale, uniti in quella simbiosi, davano l’impressione di pretendere di vivere. Per sempre, oltre la caducità dei viventi conclamati, asfissiati proprio da quella bava puteolente.
C’era un ragazzetto sui 14 anni: era l’unico inserviente. Chiesto il pieno, iniziò lo spettacolo del lento pompaggio della benzina e della sua successiva calata. Riempito lo stomaco della macchina, chiesi quanti pesos dovessi. Capii subito che quello che si era svolto fino ad allora era stato solo il prologo dello spettacolo.
Il ragazzetto sembrò sorpreso dalla domanda. Mi guardava con aria come assonnata. Entrambi dovemmo pensare (io sicuramente) che c’era qualcosa che non funzionava con la lingua. D’altronde, il mio spagnolo, allora, era di formazione spagnola: e mi accorgevo rapidamente di come fosse differente la pronuncia latinoamericana. Furono lunghi momenti quelli che passarono mentre cercavo di fargli capire che volevo pagare, ma non sapevo quanto. Finalmente, si scosse da quello strano torpore che almeno apparentemente lo vinceva e si mosse verso il casotto retrostante, che subito si qualificò come “ufficio”. Nell’andare, mi fece un pigro cenno di seguirlo. Lo feci, anche se non capivo la difficoltà.
Vi entrò e sembrò non sapere se poi io dovessi introdurmi all’interno a mia volta. Senza dargli tempo di pensarci, varcai deciso la porta.
Era un prefabbricato più o meno di tre metri per cinque. In quei 15 metri quadrati stavano non so quanti uomini indaffarati a non far niente. Proprio di fronte all’entrata c’era una scrivania, altre due si contrapponevano sulla sinistra. Dietro la prima, un tipo arruffato scorreva lentamente ma con palese bramosia le pagine di una rivista pornografica, girandosela tra le mani per comprendere meglio alcuni particolari, decifrare qualche posizione o semplicemente aumentare l’eccitazione, rendendo più realistica l’inquadratura. O la mia presenza non la riteneva rimarcabile oppure non l’aveva neppure percepita. Continuò sudando a documentarsi.
Nel frattempo il ragazzetto, dopo aver atteso che i grandi finissero di applicarsi – con cura – al nulla, introdusse a bassa voce la questione. Un tipo giovane, dal viso cotto ma non ancora abbrustolito, con un ciuffo di capelli chiari che gli conferiva, anche per il naso rispettabile, un aspetto da vecchio condor mi si fece sotto, apostrofandomi con voce gracchiante, appunto.
Spiegai che volevo pagare e quindi volevo conoscere la cifra esatta da corrispondere.
Capì. Io compresi che la cosa lo infastidiva davvero parecchio. Ci pensò un po’, poi si decise; non c’era via d’uscita. Obbligò il ragazzetto a seguirlo e ci portammo tutti e tre sul luogo del fatto. Interrogò il subordinato, facendogli ripetere l’intera dinamica dell’accaduto. Infine, pensò ancora.
Si appoggiò alla pompa con il braccio sinistro e alzò il destro fino al punto del recipiente in alto che sapeva essere il livello massimo dove arrivava la benzina e, muovendolo poi verso il basso, chiese conferma:
“Da qui a qui?”
Parlò non so veramente in quale lingua, ma il suono e il significato erano comprensibili, lo sarebbero stati dal polo all’equatore. “Da qui a qui?” accompagnando con la mano stesa
Sí.
Si rivolse a me.
¿Pesos? ¿Dólares?” Aveva acquistato un po’ di energia.
Dólares.”
¡Ay, dólares!…” Aveva una risatina vagamente sarcastica.
Dólares. ¿Cuánto pago en dólares?
Ecco, finalmente il nodo era venuto al pettine. Rimuginò a lungo, per secondi e secondi. Interminabili.
Eh… Uhm… Uhm… Como quince dólares…
Non saprò mai se quei quindici dollari, così precisi, così senza spicci, così aleatoriamente determinati, siano stati il prezzo giusto: ma siccome dentro c’era anche il costo del biglietto per lo spettacolo…
Si riprese il cammino, inforcammo la Mex 1 che discendeva la costa. Dopo poche miglia, all’altezza di Rosarito, apparve. Era di una bellezza forte ma soffocata: urlava in silenzio, mi verrebbe da dire. D’altronde, c’è poco da fare: certe frasi fatte, come quest’ossimoro, si evitano a fatica di fronte a visioni che toccano qualcosa dentro di noi.
Roccia pelata violentata dal sole si tuffava a strapiombo dentro l’azzurro. Era tutto un susseguirsi di crani rossastri imprigionati dall’acqua dell’oceano, che se avessero avuto vita avrebbero gridato per vincere quell’immobilità. Io volevo gridare per vincere l’immobilismo.
66 miglia a sud di Tijuana si incontra Ensenada, adagiata in fondo a un’insenatura (da cui il nome, suppongo), la Bahia de Todos Santos. A vederla sulla cartina pubblicata sul Baja Sun (giornale turistico in inglese, al pari del Baja Times e probabilmente di altri fogli simili), sembrava una bella cittadina: tutto un regolare reticolo di vie, affacciata sul porto, percorsa da strade di scorrimento veloce...
La stragrande maggioranza delle vie erano ricoperte o addirittura costituite di sabbia. Le case che le contornavano erano casupole appena un po’ più dignitose delle baracche di Tijuana. Però la gente faceva molta meno impressione che nella città di confine. La sensazione di stare nel Terzo Mondo, magari in qualche povero Paese africano, era tuttavia netta.
A Ensenada entrai in una banca, a meridione, mi pare dalle parti del monumento a Juarez. Posteggiammo sulla strada asfaltata in prossimità di un curvone con il quale si usciva dalla città. Radiale rispetto all’esterno della curva, una striscia di polvere affrontava dritto per dritto la montagna, pretendendo di condurre in tal modo a un minuto pueblo che si intravedeva lontano.
Di fuori era tutto uno splendere di marmi; dentro pure. Pavimento in morbida moquette azzurra, mura color panna o champagne (con questi nomi inventati di colori non ci capisco niente) che bene si abbinava, staccando, all’altro. Banconi nero lucente. Piante ornamentali ovunque. Aria condizionata da standard statunitense. Impiegati in camicia maniche corte e cravatta.
La gente in fila: tre in giacca, di cui uno con gli stivali; due donne in tailleur; dodici o tredici coi vestiti logori e impolverati.
Ero mezzo impolverato anch’io, d’altronde: solo per essere sceso al distributore e per aver attraversato la strada. Espletai quel che dovevo, uscii e mi reimmersi nel baraccume.
La costa pacifica è solo uno degli aspetti della Baja California. Un altro è l’interno.
L’interno era un susseguirsi di montagne e amplissimi pianori leggermente viventi: come una peluria verde che sporcava enormi distese di sabbia terrosa. Le rocce erano rosse e sembravano di plastilina. Sensazione che fossero molli e modellabili, impressione che ne spuntasse fuori Pecos Bill o un altro personaggio di un simpatico fumetto western, voglia di morderle.
Ci fermammo a mangiare in una casa azzurra dove una giovane signora procace e sua figlia un po’ bruttina si masturbavano le orecchie con sdolcinate canzoni d’amore diffuse a un livello di decibel inaccettabile. Erano gentili e servizievoli. Amabili. Non so quanti affari potessero fare in un posto dove incontrammo sette macchine in 155 miglia (250 chilometri), però apparivano felici. Fuori della finestra, dal tavolo, si vedeva un uomo minuto che con calma, solo sotto il sole, scavava una trincea. Non se ne comprendeva apparentemente motivo. Pensai: “Si sta scavando la fossa!” Forse era per questo che lasciava il mucchio di sabbia e pietra giusto a fianco del bordo sinistro della fossa: così da poterla ricoprire facilmente.
Le due cultrici dell’amore romantico servirono delle limonate, cioè proprio spremute di limone allungate con acqua e ghiaccio. Poco accorte: l’acre del limone seccò le ghiandole, esaurendo la sensazione della sete, per cui non consumammo la quantità di liquido che si sarebbe addetta al viaggio e al caldo (non eccessivo ma protratto). Forse solo oneste.
Ripartimmo, e furono ancora di quelle distese enormi coronate dalle montagne. Il fondo era talmente lontano che, zoomando con la telecamera, non si apprezzava l’ingrandimento. Dalla strada asfaltata che percorrevamo si dipartivano ogni tanto carrarecce fumanti di polvere biancastra che si inoltravano dritte in queste estensioni, scomparendo alla vista intonse. Erano l’unico segnale effettivo della presenza di attività umane, per un principio induttivo. Altrimenti, all’osservazione nulla si rilevava.
Al termine di una di queste larghe vallate, la strada risaliva, cominciando ancora il gioco con le rocce morbide, tra curve non protette e pezzi di plastilina caduti sulla carreggiata. Tagliato l’ennesimo sperone e osservato ancora l’interno della strana materia cercandovi un qualche personaggio dei fumetti, mentre la voglia di addentarla si riaffacciava in bocca, ecco stagliarsi una lunga striscia di intenso blu. Il mare, di nuovo. La Baja era stata traversata. Non è una grande impresa, però…
Il ricordo più nitido è il ruvido accostamento tra il rosso della roccia e il blu del mare. Da lassù, non si vedeva l’interposizione della sabbia grigio-bianca. Sembrava un grande schermo attraversato da queste due bande, luminescenti per il sole ormai basso dietro le spalle.
Di questa costa del Mar de Cortés (non voglio chiamarlo Golfo di California) ricordo un ristorante in un paesotto lungo la strada. Cattedrale del deserto. La polvere sabbiosa che ricopre ogni cosa, da quelle parti, si fermava miracolosamente fuori della porta. La sala era enorme, credo che avrebbe potuto contenere tutta la popolazione del posto, compresi quei maialini magri con i quali dei bambini scalzi giocavano nel pomeriggio cinquanta metri più in alto, come fossero cuccioli di cane.
Sedie di bel legno scuro si affollavano intorno a tavoli dalle coperte a scacchi bianchi e rossi, ornati da vasetti di fiori, in prevalenza roselline rosse, di un’eleganza appena un po’ esibizionista. Molti camerieri, in pantaloni e gilet nero su camicie rosse si intonavano ai colori dell’ambiente, con l’unica nota, solo a prima vista stonata, dei tovaglioli bianchi che portavano perennemente con se; chi ben ripiegato a cavallo del braccio sinistro, chi in mano, chi appoggiato sulla spalla. Un paio di televisori tenuti in aria da staffe pendenti dal soffitto davano un aria gringa all’ambiente. Alcuni camerieri languivano messicanamente inerti, altri erano in preda al moto perpetuo, come elettroni eccitati attorno a un nucleo che non vedevo.
Non c’era nessun cliente, a parte uno strano tipo che stava appoggiato al bancone della zona bar. Era ovvio. Chi poteva esserci, in un qualsiasi giorno d’inverno in quel posto sabbioso di deserto lungo la costa orientale della Baja California?
Il nostro ingresso fu dunque salutato a dovere. Persino uno dei camerieri inerti sembrò risollevarsi un attimo. Lo spin elettronico di molti inservienti raggiunse, sottoposto all’energia del nostro ingresso, livelli inaspettati. Mi parve evidente che un nucleo intorno a cui ruotare doveva pur esserci: ma non lo identificavo. Perché questi elettroni restavano a orbitare là dentro, dove non c’era scopo apparente, e non si sganciavano per uscire fuori, divenendo portatori di energia a quella landa inerte? Perché rimanere inerti loro senza prospettive?
Qualche forza doveva costringerceli. Mi decisi per l’osservazione scientifica, registrando tempi e movimenti. Ma non potevo tracciare, così (come apparve chiaro dopo) non riuscivo a evidenziare i picchi, in verità lievi e spesso non appartenenti al movimento principale. Fu così ancora una volta l’intuizione a porgermi la chiave.
L’attenzione mi fu richiamata dall’unico elemento anomalo della scena: lo strano tipo che penzolava con la testa dietro al bancone, avendone i piedi davanti. Ebbi l’impressione che dietro di lui ci fosse qualcosa, qualcun altro. Nonchalentement, iniziai a dondolare la sedia fino a farla appoggiare con la spalliera al muro.
Tutto mi apparve chiaro quando vidi lei.
Stava dietro il bancone, occultata da un vecchio registratore di cassa con i tasti in metallo sporgenti. Da quel poco che scorgevo dal precario equilibrio, era la quintessenza della femminilità. Avrà avuto vent’anni, eppure il volto, che si intuiva dolcissimo e malizioso, mostrava recondite maturità precoci. Questo lo capii meglio quando mi alzai, falsamente vinto dal bisogno di andare al bagno.
Teneva un fiore di stoffa rosso nei capelli neri. Aveva una ampia camicia, forse da uomo, bianca. Era lei il bilanciamento cromatico dei camerieri.
Gli occhi? Ma neri, ovviamente. Forti, intensi, disperati.
Erano in lei i colori dell’intera sala, ma in proporzioni apparenti opposte. Tuttavia, il tanto rosso delle tovaglie, degli addobbi e delle camicie riceveva colore da quel suo fiore rosso intrappolato nei capelli; il nero dei camerieri e i camerieri stessi erano tenuti accesi dai suoi occhi ardenti; il poco bianco distribuito intorno era come un pegno o un vincolo che, legato alla sua camicia imposta – così poco femminile, quella – l’obbligava a rimanere per vitalizzare il posto.
Mentre tagliavo il locale e mi si rivelava tutto ciò, alla TV finiva una telenovela americana. Colsi i suoi occhi, si spensero per un infinitesimo di secondo: basta sognare, sei prigioniera di questo ristorante per ricchi gringos!
Seppure incalcolabile, la caduta di tensione dei suoi occhi fu avvertita almeno dai capi-cameriere, che si riconoscevano perché le loro camicie erano arricchite da pacchiani jabots. Ebbero come una leggera esitazione. Se ne accorse lo strano tipo, quello che mi aveva tenuto coperto il nucleo atomico, disse qualcosa a lei in malo modo.
Ormai dovevo entrare al bagno. Sugli schermi iniziò un telefilm di Hollywood.
Quando uscii, questo tipo pencolante, con i capelli lunghi e sudati, le teneva un braccio; ma lei non mostrava di potersene liberare, anche se di fatto l’avrebbe potuto facilmente. Un “jabot” si stava avvicinando frettoloso, ma si accorse della scena e si bloccò deferente. Fu visto chiaramente da lei ma non si mosse. Soltanto quando lo vide lui, quello si rimise in movimento. Lo schifoso l’interpellò sgraziatamente e il capo-cameriere rispose preoccupato. Insomma, quel letame era il padrone del locale e di lei.
Ma giuro che lei avrebbe meritato anche più della telenovela: protagonista di un sogno hollywoodiano. Altro che sprecarsi a ingentilire e dare anima a quel grottesco ristorante. Avrei voluto essere l’eroe che la salvava, il cavaliere che sconfiggeva il malvagio e portava via la fresca rosa sul cavallo bianco. Tornai al tavolo.
Un tratto della strada costiera sul Mar de Cortés mi rimase particolarmente impresso, perché fu lì che presi consapevolezza di un particolare. Anche qui, su questi rettilinei lunghi fin oltre l’orizzonte sperabile, ma larghi appena quanto basta a far passare due camion nei rispettivi sensi (quando mai passassero), il ciglio stradale era costellato di croci. Uso comune alle nostre statali, pensai distrattamente all’inizio: anno dopo anno, il mezzo di trasporto più pericoloso che esista, l’automobile, chiede il suo tributo. Certo, le nostre strade sono percorse da migliaia, milioni di vetture: qui, nel silenzio implacabile, senti ogni tanto un rombo lontano, come di un aereo – forse un quadrimotore a elica – che si avvicina, poi scorgi un punto luminescente in fondo, fino a scoprire, quando ti saetta accanto, che si trattava solo di una carretta di lamiera. Già questo mi lasciava inquieto.
Ma fu solo lungo quel tratto che mi sconvolsi del tutto quando, osservando con maggior cura, mi si rivelò la vera natura di tante di quelle croci. Non erano un pio ricordo. Erano il segnale cristiano di una sepoltura!
Molti ci morivano e molti che morivano venivano sepolti direttamente lì, nella sabbia accanto all’asfalto! Si vedeva chiaramente, una volta capito, tutto il perimetro del tumulo che ricopriva la fossa, con la croce non confitta in terra, dunque, ma posta in cima alla ricopertura. Mi chiesi che fine facessero le carcasse delle vetture, ma ricordai di averne viste alcune tra le baracche dei paesi attraversati. Un corpo non serve più a niente, la lamiera, il ferro, i vetri, la gomma, quelli valgono.
E purtroppo, in questa parte di Messico troppo a ridosso del muro, c’è anche chi viene fatto morire vivo, condannato nella tomba di un ristorante. Perché, inerte anch’io, non ero stato un eroe da film?
Sarei stato solo capace di divertirmi come un giuggiolone con un frontaliere dai baffi rossicci…