Ricordi di viaggi di un italiano nascosto

di Enrico Proietti



silenzi@live.it

Olanda

26.02.2014 20:35

Capii l’attitudine degli olandesi all’acqua osservando ammirato modalità e velocità di svuotamento della vasca da bagno nella camera dell’albergo, ad Alphen aan den Rijn, in Olanda. L‘Olanda.
È l’Olanda un concetto di difficile comprensione. Evoca trionfo dell’uomo sulla natura, ma unito a spettro di rivincite immani. Dita dentro la diga, non sempre vi si potrebbe riuscire.
Ma intanto è già difficile alle latitudine latine definire l’Olanda, nome che sbadati o ignoranti diamo talvolta a uno Stato che invece si chiama Paesi Bassi. Ora, è vero che tale nome un granché non è; però così si chiama. Nederland, la terra bassa: ma non una sola, perché sono più d’una e con la nostra Olanda c’è pure la Zelanda e poi ci sono la Gheldria, la Frisia e le parti nord del Limburgo e del Brabante, che in verità poi basso non lo è tanto, anzi arriva addirittura a delle specie di colline: e infine altre ancora, tra cui l’Overijssel, la regione sopra il fiume Ijssel che nessuno è mai riuscito né a tradurre in italiano né tanto meno a pronunciarla bene.
Ma certo che il cuore di questi Paesi è proprio l’Olanda, che è il più basso di tutti. Si può vivere, si può decidere che il futuro dei propri figli e discendenti sarà sotto minaccia di sommersione? Gli olandesi lo fecero e continuano a farlo. Hanno acqua dappertutto: perché se stai sotto il livello del mare, quando piove dove va la pioggia? Dove sboccano i fiumi? Così, nel corso dei secoli, hanno come tutti sappiamo imparato a trattare l’acqua un nemico da far diventare amico.

E la vasca da bagno della camera d’albergo ad Alphen aan den Rijn si svuotava come se l’acqua trovasse improvvisamente una breccia nella linea del fronte e, da ostaggio che era, di corsa e di nascosto se ne tornasse dalla sua parte. Mantengo in me una specie di fascino evocativo di quella cittadina dell’Olanda del Sud. In effetti non mi accadde nulla, ne serbo solo un ricordo un po’ dolce e un po’ di una tristezza ambientale. Anche se bello, quel mondo nordicheggiante ha insiti i caratteri della tristezza
Consono a essa, andai comunque in giro alla scoperta dei luoghi e delle idee. Cercai la strada principale; ce n’era una che la sembrava, di traverso a quella che attraversava il paese. Però era troppo anonima e si desertificò nel giro di un quarto d’ora alla chiusura delle attività commerciali. Allora osservai meglio. Dovevo rivolgere l’attenzione più in basso di pochi metri. Era come a Venezia: Venezia ha il Corso, solo che non puoi attraversarlo a piedi, ma in barca. Così Alphen.
La vita notturna, seppur scarna come è normale che fosse date le dimensioni del paese, si allungava compiaciuta sulle sponde di un canale, principalmente su quella più occidentale, ma non solo. Cafés, ristorantini di tendenza, un cinese, tutti con i tavoli all’aperto per la stagione favorevole, macchiavano di luci e colori la banchina grigia, accompagnandosi a strisce di vegetazione domestica o addomesticata nella ricerca di un’immagine idilliaca che manteneva in sé, però, quella componente triste che la costituiva. Forse erano i mattoncini a vista, mattoncini ovunque.
Ciò nonostante, l’insieme era gradevole e disponeva bene l’animo, invitando a scendere i pochi gradini accanto alle testate del ponte che scavalcava il non largo canale di Alphen aan den Rijn, Alphen sul Rijn.
Va detto subito che io sapevo non essere, quel Rijn, il Reno, come si potrebbe pensare, anche perché questa singolare gente lo chiama Waal. No, il Rijn sapevo esserlo un fiume ben più piccolo ma che riesce ugualmente a contribuire alla generazione di un labirinto. La sua acqua, se avevo capito bene, si perde in mille canali, canaletti, gore, fossi. Capire l’orografia dei Paesi Bassi non è facile, né i nomi dei corsi d’acqua aiutano granché.
Così come il Reno diventa Waal (ma poi sulle carte neerlandesi il tratto a monte di Nimega, allo stesso modo di quello che scorre in Germania, è chiamato Rijn!), altri fiumi cambiano nome a seconda del tratto. O almeno questo compresi, ma insomma: il Lek, che sta lì, tra Arnhem e Rotterdam, da dove viene? Pare essere una diramazione del Waal, o meglio del Rijn, ma chissà.
Di Ijssel ce ne sono almeno tre: la “liscia”, la Oude, cioè vecchia, e la Hollandsche, olandese. E se il Maas (la Mosa) viene da più a sud del Waal e insieme a questo, ma sempre alla sua sinistra, forma lo Holland Diep, perché poi, ancora più verso il mare, Dordrecht e Rotterdam – che sono più a nord e dunque a destra del Waal – si affaccerebbero sul Maas, come recitano le enciclopedie? Hanno costruito un cavalcavia d’acqua? Non lo vidi.
Insomma, anche il Rijn (quello di Alphen) non ho individuato bene da dove venga, so solo che tra centinaia di dighe e dighette arriva stremato a riposarsi nel Noordzee dopo Leida, nei pressi delle due contigue Katwijk: aan den Rijn e aan Zee.
Che poi non è semplicemente Rijn, bensì Oude Rijn; ma non ho trovato nessun Nieuwe Rijn.
Tutto questo turbinio di nomi, che crea sicuramente una buona confusione, spero renda l’idea di quanto possa essere difficile capirsi con l’acqua nei Paesi Bassi. E io spesso ne ho fatta, di confusione. La prima volta, ho girato quasi tutta l’Olanda del Nord in cerca dell’Ijsseldijk. Volevo andare a vedere la lunga barriera che dal Mare del Nord, o meglio dal Waddenzee, il tratto di mare compreso tra la costa e la corona delle Isole Frisone, separa e protegge l’enorme specchio interno dell’Ijsselmeer e i polderen che dal suo prosciugamento sono sorti. Non la trovavo, chiedevo e la gente non lo sapeva e mi mandava a destra, a sinistra, a destra ancora, poi richiedevo e mi mandavano avanti per chilometri.
Ijsseldijk?” si chiese sbigottito un perticone calvo. “That is Ijsselmeer…”, disse a se stesso più che a me puntando col naso l’azzurro poco distante e sottolineando con la voce il meer. “Well, Ijsseldijk… It must be somewhere…”, “Dev’essere da qualche parte…” continuò pensando invece a come dirmi che non credeva proprio esistesse una qualsiasi cosa corrispondente a quel nome.
The long dike where you have on one side the Waddenzee and on the other side, some meters lower, the Ijsselmeer”, puntualizzai scolasticamente.
Allora parve capire, però starnutì.
Afsluitdijk!”
“Salute!”
Invece no, quell’accozzaglia di suoni, pronunciate dall’olandese che parevano un’unica sillaba, era il vero nome della diga, che non si chiamava per niente come m’ero messo in testa io. Solo che non lo capii, per cui la conversazione continuò brevemente nel reciproco malinteso e non ne ricavai nulla di utile, senza capire le giuste indicazioni che il perticone stava fornendo. Come Dio volle, prima o poi ci cascai sopra e finalmente mi resi conto di quale fosse la sua denominazione.
È che l’Olanda non è semplice.

La vita è calma ma produttiva. Non so se è un bene, ma lo è. È calma come quegli immensi stagni ai quali loro, gli olandesi, accedono in barca direttamente da casa: la calano dal cancello sul canale, pochi metri e via su quei piani azzurri spesso litigati dalle brume e di cui altrettanto spesso s’innamora il ghiaccio. Ed è anche produttiva, Rotterdam sta lì a testimoniarlo, così indaffarata, così ricostruita, scuola di tanta architettura contemporanea. Però fondamentalmente a me gli olandesi sembrano godersela, la vita. Non so, è qualcosa nei loro gesti, nel loro camminare, in quel loro parlare come francesi che s’esprimono in tedesco. Chissà che non sia proprio così e che la spiegazione non dimori nelle dighe. Non sempre un bambino fa in tempo a regalare il suo dito alla leggenda. Allora il mare riporterebbe all’inizio la costruzione della vita, spianando ogni realizzazione del disegno umano. L’intima precarietà allena ad apprezzare le concessioni quotidiane dell’esistenza.
In questa terra bassa ci sono stato più volte. Non ne ritengo una sensazione univoca.
Distillo colori da immagini fermentate in un’imprecisa memoria delle cittadine lungo l’Ijsselmeer, ognuna una cartolina con zoccoli, formaggi e gabbiani. E barche ornate di sartiami, vele e bandierine, con galleggianti arancioni che, troppo moderni, stonano leggermente sebbene siano un amore per come si riflettono sull’azzurro. Certo Van Gogh, ma anche l’impressionista puro Monet ne avrebbe tratto splendide pennellate. Forse ho veduto anche Alkmaar e Volendam, credo di sì ma non posso esserne certo.
Filtro altre immagini dal verde di una campagna anche monotona ma per iperbole rasserenante in cui erano intinte. Ci sono le mucche pezzate, i molini veri e quelli finti, le mille e mille gore: ogni tanto s’incaglia un grumo, il bianco o l’argento di qualche serra. Amici treni sfacchinano sulle loro massicciate protetti da filari di alberi selvatici. Il cielo vi scivola sopra intensamente blu oppure lattiginoso o talvolta di minacciosa crudeltà nera, quando anche i prati devono diventare quelli grigi del primo Van Gogh.
Raccolgo infine gocce ad alta gradazione visuale, come perle scartate significanti invece per chi le ha vissute, per chi le ha sorseggiate allora e le riassapora ogni volta, inebriandosene. Di esse si imbibiscono lentamente i tessuti della memoria, sono per questi una sorta di concime. È uno stillare necessario che fertilizza un qualcosa indefinibile, come un pegno d’amore da ricaricare ad ogni delusione dell’uomo.
Perché concentrato in quelle piccole sfere c’è l’ingenuo sogno dell’armonia, della misura, del paesaggio piegato e però rispettato, degli atti consapevoli, dell’uomo capace di grandi opere che contrastano la durezza del mondo e al tempo stesso di inserirsi con i tempi e i modi giusti. Un sogno, appunto, anche un’illusione, eppure vitale.
Una di queste perle distillate riguarda la sosta in un ristorante, da qualche parte dell’Olanda, a poca distanza da uno svincolo autostradale ma distante da tutto, perché protetto da gentili quinte arboree. Quasi isolato.
Questo ristorante permeato dal verde, quello della campagna umida e quello degli alberi che lo circoscrivevano quale elemento, non estraneo, direi provvisorio; e quello della moquette stesa a rendere ovattato un interno che mai avrebbe potuto essere chiassoso. Non potrei classificarlo elegante. O forse sì, di sicuro non lussuoso. Non ostentava, ecco. Insomma, era ordinato e i tavoli stavano distanziati. La realtà è che sono abbastanza impreciso nel ricordo dell’ambiente perché ciò che mi colpì furono i contenuti.
Era come se quegli occhi volessero uscire e rifarsi di ragazza, tornare quelli di una giovane simpatica e gioviale, invece che stare incastonati in quella divisa composta. Parlo della cameriera che si avvicinò al tavolo per ricevere le ordinazioni mordendo parole incomprensibili. Era altissima, bellissima, dolcissima. Un po’ troppo alta, troppo bella per stare costretta in un abito puritano, dolce mai troppo. Così quando la carta si rivelò l’unica priva della versione inglese, supplì la sua dolcezza. Ci ordinò la terza cosa dall’alto di quelli che, per la posizione, dovevano essere i piatti principali. Noi lasciammo fare, soggiogati. Quella volta ero con un amico dell’epoca, e non badammo molto a salvare le apparenze. Il mio amico era felice; e anch'io.
La terza cosa dall’alto, quando giunse, la scoprimmo leggendola in quello sguardo cui poche ciocche bionde fuoriuscenti da una cuffia stolida davano profumo di grano. Non era che un pollo intero, ma aperto e riempito di pere, prugne e almeno un paio di salse che non saprei dire quali. Anticipato dall’aura seducente com’era stato, rimase diversi secondi sulla tavola senza che mano maschile vi si avvicinasse. Anche perché gli sguardi nostri seguirono il miele, sperando di poter diventare api od orsi. Poi s’accorsero che d’orsi era pieno. Gli altri clienti, olandesi. Tutti correttamente seduti. Tutti compostamente pranzanti. Nessuno che alzasse la voce, nessuno che riempisse l’aria di gesti. Però per chiedere il miele non rivolgevano sorrisi, bensì occhiate di comando. Questo mi infastidì.
Il bello della vita, dicono alcuni, è che si cambia. Personalmente, credo che sia però un fatto di livelli: puoi cambiare gusti, non valori. Ma insomma, quanto a gusti io l’ho fatto. Si fanno esperienze, si conoscono abitudini diverse: si impara persino a bere caffè durante i pasti. Sì, durante, non dopo. In fondo, se mangi una cosa calda, perché ne devi bere una fredda? Gli orientali ce lo insegnano. Ora, il punto è che quando mi trovai in questo ristorante nel verde, per me a tavola si bevevano acqua, vino, concessa la birra, qualche volta bevande gassate. Invece quegli olandesi tenevano tazze alte e strette davanti ai loro piatti, colme di caffè. E lo sorseggiavano tra una forchettata e l’altra, data sempre con i gomiti aderenti al busto, mentre conversavano gaudenti a voce bassissima. Nel più totale sconvolgimento, somma di uno d’un segno e di un altro d’un diverso segno, imparammo per via sperimentale il disossamento del pollo a forchetta e coltello. Fu uno spettacolo penoso, che cercammo di nascondere ai controlli di lei. Riuscimmo comunque a non alzare la voce.
Qualche olandese sorprese il nostro sbigottimento che verificava quanto acquoso fosse il loro caffè, e senza schiuma, ma come restasse fumante in quelle tazze a sviluppo verticale! Poi tornò lei.
Io credo tutt’oggi che i suoi sguardi fossero di nostalgia. Una nostalgia per qualcosa che sapeva di possedere dentro il suo corpo florido ma che probabilmente non s’era manifestato: forse mai o piuttosto non ancora. Lo spero, al tempo sperai che l’avesse fatto in quell’attimo e s’unisse a noi che le facevamo provare quel sentimento con la nostra indomita scompostezza, la nostra curiosità, il nostro essere giovani, la nostra infatuazione subitanea per lei. Ma aria modulata non uscì dalle nostre bocche. Con la sua, con le sue labbra turgide, rammendava silenzi che coltelli distratti tagliavano contro il fondo dei piatti.
Come uscirne?
Veramente non lo so, non oggi come allora, né ricordo come uscimmo dall’incanto di quel ristorante immerso nel verde della campagna olandese per tornare nel reale dello stesso verde della stessa campagna. Come potemmo? Eppure era olandese come i bevitori di caffè. Ecco, in verità avremmo dovuto salvare anche loro.
Credo davvero che gli olandesi si godano la vita, per quel senso di provvisorietà, per quel carpe diem continuo. Ma dentro di loro: o comunque sono convinti che fuori debbano manifestarlo con la calma, come un’azione contemplativa della meraviglia di esserci ancora. Salvo preservare la corsa per tappare la diga. Sperando che mai.

Gente tosta, gli olandesi. A Zandvoort c’è un noto circuito automobilistico che mi piacque provare. Poi, al mare. La pista è infatti appena all’interno della duna costiera che fortunatamente corre per buona parte dell’Olanda, diga naturale e perfetta.
Era estate. Certo, il sole non picchiava come sul Mediterraneo, ma pure quella spiaggia del Mare del Nord somigliava a Castelporziano e a Carnon e in quelle ore centrali della giornata si mostrava evocando gli inganni morganici delle distese calde. Non tanta gente, però diversi costumi colorati sembravano coriandoli su un pavimento chiaro, sul quale si mimetizzavano i bianchicci corpi olandesi. Due ragazzoni alti e magri giocavano a racchettoni dentro l’acqua, erano immersi fino a metà coscia e alternavano la tipica tranquillità a repentini tuffi laterali per cercare la respinta della palla a ogni costo. Tutto appariva di apollinea virtù. Vi apportai un po’ di dionisiaca confusione. Spogliato in fretta, gustai al volo l’ebbrezza della nudità, la pelle reagì subito alla temperatura, lo sguardo si abbeverò all’istante di quell’acqua scura e il corpo vi corse incontro con sguaiato entusiasmo finché vi saltai dentro come un pirata avrebbe abbordato un galeone ricco d’oro come il mare di vita e, porca puttana, urlai.
L’acqua era glaciale.
Non per i due ragazzoni che imperterriti schiaffeggiavano l’aria. Olandesi, loro. Tosti.

Molto meno tosti sono i formaggi che la verde campagna produce, complici le mucche e le pecore. Amo i formaggi olandesi: anche quelli olandesi, cioè. Mi piace scoprire le gradazioni di giallo che variano a seconda del paese dove ciascuno è prodotto. Osservare le diverse fette nei banconi, siano addirittura quelli dei duty-free negli aeroporti o nelle stazioni, mi fa vedere come su una mappa fantastica la geografia dell’Olanda e dei Paesi Bassi tutti. Anche nell’orgia consumistica, in quel modo so riconoscere un qualcosa di intimo, come un racconto di favole. Ancora una volta.

Il connotato fiabesco è sempre latente nei miei approcci con l’Olanda.
L’organetto di Haarlem è fisso nei miei ricordi, semplice, bello, ammiccante antichità probabilmente inesistenti. Un organetto di quelli che ne avevo letti sui romanzi che divoravo da bambino, quella letteratura per ragazzi dagli intenti edificanti che a me suscitava rabbia, costretto a non poter scegliere altri comportamenti. Sbagliati, ma eroici. Appena lo vidi, mi rammentò la ribellione verso questi palliativi per i poveri: un po’ di musica per dimenticare il freddo, ma nessuno che risolve i problemi! E il povero continua a perdere. Ero certo ben vecchio da bambino…
Questo sentimento durò poco. Lo vinse la malìa, me ne feci vincere, forse anche perché si abbinava alla bionda zazzera della commessa del negozio davanti. Era di legno ma sembrava di zucchero: l’organetto, la ragazza era proprio di una bella carne. Dalla cassa di zucchero montata su ruote usciva una musica banale ma allegra; dalle labbra morbide, risate che terminavano nelle fossette delle guance facendole diventare rosse. Intanto le tette si issavano ancora più su! Era bella, l’Olanda.
Sì, era bella, sebbene fredda, compassata, un po’ triste. Sebbene l’acqua sia un problema non solo geografico con il quale uno straniero deve mettersi il cuore in pace. Tutto questo lo sapevo comunque già, quella sera ad Alphen aan den Rijn.

La fioritura di caffé e ristoranti lungo il canale principale di Alphen aan den Rijn era degna di una primavera mediterranea, ma la cucina del “Choices” chiudeva alle 21:15. Lamentarsi degli americani, poi! Così mi buttai sul cinese, dove feci una scorpacciata di vegetali involgarendoli con una birra scura dalla consistenza e alcolicità, e forse un po’ anche dal sapore, di una birra e gassosa (fatta però, come ormai avviene sempre più frequentemente, con Sprite o 7up). Era una birretta al caramello, altro che malto tostato, però era perfetta e buona, tanto buona dopo tanto verde. Mi chiesi, senza rispondermi, perché la Oud Bruin della Heineken non fosse commercializzata in Italia. Posso azzardare ora che sia per lo stesso motivo per cui la lager di quella marca da noi è una birra dozzinale mentre in patria ha un suo rispetto.
Sull’altra strada retrostante il canale, però, gli olandesi passavano la sera sorseggiando con o senza competenza del vino: francese, ovviamente, e tedesco, con accenni di California e Cile e una presenza importante, in effetti attendibile, di prodotti sudafricani, che si proponevano in wit, rood en rosé. Colpevolmente, da entrambe le parti, nessuno italiano.
Poi, fu solo su un treno per L’Aja che me ne resi conto. Avevo commesso un imperdonabile errore, solo in parte giustificabile dall’abitudine mia al regime torrentizio, sconosciuto dalla natura in queste piatte terre. Me lo rivelò prima d’un ponte il cartello che ebbi il tempo di leggere, essendo i treni olandesi mai troppo di fretta.
Rijn rivier”.
Sotto, esattamente la stessa acqua e gli stessi argini, lì appena fuori l’abitato. Giustamente, quello lungo il quale avevo cenato non era il canale principale del paese. Era il Rijn, dritto e regolare, sostenuto e ubbidiente, ma pur sempre un fiume. E se no perché Alphen sarebbe aan den Rijn?
E così basta attivare l’intelligenza, documentarsi un po’, riflettere sul passato di queste terre in perenne lotta con troppa acqua. L’Oude Rijn, il Vecchio Reno, è appunto l’indebolito antico percorso del grande fiume, che probabilmente apportava troppa acqua, appunto, nelle depressioni olandesi. Da cui la necessità di trovargli altri sbocchi, giù verso la Zelanda. Lo fecero i veneziani con il Brenta e con il Sile. Il caro Reno ha oggi un delta che inizia a decine di chilometri dal mare, in pratica esattamente nel momento in cui entra nei Paesi Bassi. Da lì, ogni ramo ha un nome. Dopo mille manipolazioni, ricostruire il corso naturale dei fiumi è impresa forse tanto ardua quanto quella di convivere con migliaia di dighe e di pompe aspiranti.
I fiumi, pacificati e sorvegliati, somigliano a canali, i canali non si distinguono da quelli, i nomi restano amici della storia piuttosto che seguire la geografia, il mare scompare e fa posto alla terra ma persiste incombente dall’alto. Poi arriva il gelo con la sua capacità di uniformare in un unico riflesso di fiaba.

Su vie d’acqua così, ti aspetti di veder passare da un momento all’altro Gretel coi suoi pattini d’argento già vinti o Hans filare veloce nonostante i suoi poveri pattini di legno.
Corre via, Hans Brinker: l’aspetta un finale da eroe. Non vincerà la corsa. Non quello del romanzo. Ma il vero Hansje mise il dito nella falla della diga e così pure le sue improprie lame di legno già mandano bagliori, non d’argento, d’oro.
A Spaarndam c’è una statua a lui dedicata, sulla base c’è scritto:
“Opgedragen aan onze jeugd als een huldeblijk aan de knaap die het symbool werd van de eeuwigdurende strijd van Nederland tegen het water.”
“Dedicata alla nostra gioventù, per onorare il ragazzino che simboleggia la perpetua lotta dei Paesi Bassi contro l’acqua”.