Ricordi di viaggi di un italiano nascosto

di Enrico Proietti



silenzi@live.it

Slangerup

22.01.2014 19:31

Irene mi attendeva alla stazione di Copenaghen. Non scesi subito dal treno, ma l’avevo già scorta passare davanti al finestrino mentre il convoglio frenava. Volevo godermi fino all’ultimo le meraviglie delle reali ferrovie danesi. Vagoni eleganti, comodi ed efficienti che nemmeno i vari Pendolini ed ETR italiani avrebbero - in seguito, allora non c’erano - mai raggiunto. Figurarsi l’impressione che facevano su un italiano, uso alla puzza, allo sporco, ai cessi da maschera a gas e tutte le altre delizie che le nostre carcasse ferroviarie ci riservavano (e in parte continuano a riservarci). E poi il personale, gentile e informato, ma anche rigoroso, in piacevoli divise, precise, ordinate e complete.
Arrivavo stanco per uno strano itinerario che mi aveva sballottato qua e là e con il morale raso terra per le solite ragioni delle cose che non filano bene e intorpidiscono le meningi.
Non vedendomi scendere subito, Irene era già corsa fuori del marciapiede del binario 4 per controllare se non fossi nell’ambulacro della Hovedbanegård, poi era rientrata. Era visibilmente seccata. Me ne dispiacqui davvero, ma non credevo d’aver fatto niente di male; soltanto atteso che altri viaggiatori fossero scesi per poi farlo a mia volta. Ero, d’altronde, uno dei pochi con qualche bagaglio, quindi non volevo impicciare. Finalmente mi vide, si rasserenò, ci abbracciammo, ma si vedeva che restava contrariata per l’accaduto.
Mi portò subito a prendere contatto con la città, andammo ovviamente sullo Strøget, prendemmo un caffe e un gelato a Gammeltorv. C’era un bel sole, si poteva essere a Trieste o a Bordeaux. Ci riavviammo quindi verso la stazione, dove avremmo preso un treno metropolitano per Slangerup, il sobborgo dove vivono i suoi.
Irene abitava oramai in città, in Frederik VII’s gade, non lontano dall’Università: era in un quartiere carino, con edifici in mattoni non tristi. Nel suo, Irene aveva un piccolo cortile dove, dentro un semplice box in legno, poteva rimessare la bicicletta. Agli angoli degli isolati, smussati secondo l’uso di fine secolo, i negozi di alimentari, colorati e disordinati (secondo la concezione scandinava di disordine: da noi sarebbero esempi di compostezza). La sua famiglia stava invece fuori, appunto in questo paese di Slangerup. Andarci, ora, era per me di grande curiosità, dopo averne scritto il nome decine di volte sulle buste delle lettere che inviavo a Irene. Un sobborgo molto piccolo, su nessuna delle carte in mio possesso era riportato.
Irene pagò i biglietti col bancomat: un equivalente di poche migliaia di lire. In quel periodo, da noi, era difficile trovare uno sportello automatico che funzionasse quando effettivamente avevi bisogno del contante. Tanto meno era in vigore il sistema POS. Il vagone del treno era praticamente quello di una metropolitana, adatto a trasportare grandi quantità di persone per tragitti relativamente brevi. Iniziai a formarmi un’idea sulle dinamiche del pendolarismo locale, avendo anche dato un’occhiata al tabellone degli orari.
Scendemmo alla fermata; fuori, entro appositi recinti, fughe cromate di manubri. C’erano biciclette d’ogni tipo: da corsa, da passeggio, da uomo e da donna, mountain-bikes; con su montati gli aggeggi più strani, per portare numeri considerevoli di bambini, pacchi e pacchetti. C’erano anche i classici cestini in fascette di faggio intrecciate e anche tutto uno scintillio di catarifrangenti rotondi, a striscia, fissi e mobili, di frecce e altri segnalatori, di bandierine danesi attaccate al sellino. La macchina di Irene ci attendeva; ci mettemmo in marcia verso casa.
La strada principale fu lasciata piuttosto bruscamente per immettersi in una stradina bianca, ben battuta, che partiva sulla sinistra in prossimità di una macchia d’alberi. Percorse poche decine di metri, gli alberi divennero un vero bosco e la strada, con una piccola esse, vi si addentrò decisa. Era un bosco misto di latifoglie e aghifoglie, decidue e perenni. Una prevalenza di pini e betulle, ma anche pioppi, faggi, abeti e altre essenze in numero minore. A 40 metri sul livello del mare, a causa della già abbastanza alta latitudine, vegetavano specie che da noi vivono intorno ai 1500 e oltre. La strada continuava diritta. Dopo poco, iniziarono improvvisamente delle ville immerse in questo paesaggio fatato: presto Irene frenò e si infilò in un cancello a sinistra. Eravamo arrivati.
L’incontro con i genitori fu alquanto formale: di un formale amichevole. La madre aprì la porta e si ritrasse leggermente, quanto bastava per lasciare la visuale sul padre che aspettò l’attimo preciso in cui io stavo per varcare la soglia per alzarsi dalla poltrona, sorridendo discretamente. Seguirono presentazioni. Quindi fui invitato a sedermi in salotto. I fratelli di Irene non c’erano. Chissà perché, ebbi l’impressione che stesse per cominciare un esame. Bene, è sempre così. Persone che sanno di te solo per riporto, nel momento in cui ti conoscono de visu ti fanno sempre passare un esame. Ovvio. Il fatto è che quella volta la sensazione era che l’esame sarebbe stato una vera e propria interrogazione. Tant’è che iniziai a giustificarmi, come a scuola: “Sono stanco, un po’ confuso, ho girato molto prima di arrivare a Copenaghen, ho cambiato molti climi...”
E l’interrogazione ci fu. Materia: storia romana. Ahi! Difficile in italiano, figurarsi in inglese... Proprio a causa della lingua, della quale i termini meno conosciuti sono sempre quelli che servono nei momenti in cui ci si dovrebbe trarre d’impaccio, l’esito fu penoso. Nonostante in cuor mio fossi orgogliosamente convinto di saperne ben di più di quell’avvocato civilista danese, sembrai uno studentello impreparato che cercava di sbarcare un diciotto. “Ma, porca miseria, eppure sono addirittura a un livello maggiore di quello che c’è scritto sull’enciclopedia di questo qui”, pensavo. Stanco, ero stanco. Confuso, pure. Di pensare in inglese, non se ne parlava proprio, ma non riuscivo nemmeno a tradurre in tempi utili. Mi impappinavo, come chi non sa. Cercai di rifugiarmi nella topografia di Roma antica, dove sarei stato indubbiamente più forte: “Che diamine, ci ho vissuto quattro anni a stretto contatto!” Niente da fare. Il padre di Irene, avvocato civilista, sfogliò le pagine di quella sua maledetta enciclopedia che doveva conoscere a memoria, trovò la cartina di Roma antica e iniziò a controllare quanto dicevo.
C’era però una cosa che mi sfuggiva, in tutto ciò. Era la cosa in se stessa. Cioè: perché questo brav’uomo doveva accogliermi con un’interrogazione?
Lo capii in seguito.
Un indizio l’avrei avuto, se fossi stato più lucido, proprio alla fine di quel tormento. Fu quando riuscii a volgere la non completa padronanza dell’inglese a mio favore creando un turbine di concetti, un rimescolio di opinioni, mostrando di voler confutare quanto asserito sulle pagine in mano sua ma senza riuscire – a causa della lingua, appunto – a spiegarmi doviziosamente. Qui l’avvocato, anziché attaccarmi frontalmente come avrebbe fatto un vero professore, mostrò di perplimersi molto e rimase lungamente a cogitare. Aveva uno strano movimento quando pensava, l’avevo già notato: annuiva col capo. In quel momento, annuì molto.
Viaggiavo con poco bagaglio, così non avevo portato cadeaux di grandi dimensioni. D’altro canto, quelli piccoli, di solito, sono costosissimi: dunque, avevo optato per qualcosa di “simpatico”. Una confezione-regalo di pasta italiana lunghissima e multicolore. Una novità che alle porte della Scandinavia sarebbe stata apprezzata. Ritenevo.
Non suscitò, quando la presentai, gli entusiasmi, sia pure magari di circostanza, che immaginavo. Strano. “Oh, fine”, fu lo scarno commento della madre. Il successivo “Is it made in Italy? Yes, yes, it is” preferirei dimenticarlo.
Insomma, qualcosa non quadrava: anzi, più cose. La strana e repentina interrogazione. L’aver mostrato zero sorpresa per gli spaghettoni agli spinaci, alla carota, al nero di seppia e normali che avevo portato tutti belli infiocchettati di verde, bianco e rosso. Se vogliamo, una punta appena di maleducazione in gente di un popolo che dell’educazione e della forma fa una bandiera.
E un’altra cosa, che nel momento in cui stavo tirando le fila di quei primi minuti dentro la casa nel bosco di Slangerup mi si concretizzò. Preparato alla freddezza nordica, m’ero anch’io disposto – certo per quanto potevo in quello stato confusionale in cui ero stato cacciato – al controllo delle emozioni, alle esternazioni misurate, al lasciar parlare senza nemmeno osare pensare di poter interrompere. Tranne il terzo punto, peraltro, gli altri due mi riescono anche bene naturalmente: spesso non sono stato creduto italiano, infatti. Ebbene, l’impressione che stava prendendo corpo in me è che loro, i danesi, criticassero questo mio atteggiamento. Chissà!
Quando sei sotto di due gol e cerchi la rimonta, quello che assolutamente non devi fare è un autogol. Ti tronca le gambe, ti affossa definitivamente. Ovviamente, io spiazzai il mio portiere. Fu quando ci sedemmo a tavola, la maledetta enciclopedia ancora lì accanto. Avevo due gol nelle bisacce, giocavo in inferiorità numerica, la stanchezza mi segava in due, anche l’arbitro ce l’aveva con me. Ma la conversazione era tale, finalmente, l’atmosfera più gioviale. Mi fece vedere il vino (credo che fosse correttamente già aperto, trattandosi di un rosso), mi chiese se ne bevevo.
Yes, please, just a bit.”
Lo versò comodamente senza alzarsi, riempì tutti i bicchieri. Fortunatamente, era riapparsa anche Irene, che si era cambiata. Tutti eravamo a tavola, ormai. Una parola a destra, una a sinistra, un sorriso, un lavorio di meningi per capire Irene, che parla in slang a duecentoventi all’ora. Stress. Salvezza per quel ripiombare repentino nell’ansia: il vino. Ebbi l’idea che un sorso potesse ristorarmi. Presi il calice, lo portai alla bocca.
Proprio nell’attimo in cui le labbra si irroravano del frutto della terra e del lavoro dell’uomo, si fece il silenzio generale e l’avvocato si rischiarò la voce. Ero l’unico che avesse toccato qualcosa: non si poteva prima del discorso. Non si fa. Ovvio che non si fa, e chi l’aveva mai fatto prima? L’avvocato attese imbarazzato che riposassi il bicchiere, ormai però sverginato. Quindi, preso in mano il suo ma lasciatolo a mezz’altezza, imitato prontamente dagli altri, pronunciò un flemmatico preambolo del quale non capii un acca. Figura barbina. La forma! 3-0, partita persa.
Dopo cena, scendemmo in giardino. La casa era in pietra, nemmeno tanto grande, vista da fuori. Dall’interno, me l’ero figurata più spaziosa: tutta rivestita in legno, pavimenti e pareti. Non so che legno fosse (figurarsi, nello stato confusionale in cui boccheggiavo...); era piuttosto tendente al rossiccio, ma forse più per le sostanze che lo impregnavano che non per il suo colore naturale. Gli ambienti principali erano tutti al primo piano. Le finestre del salone incorniciavano angoli del bosco e i rami degli alberi bussavano dolcemente, spinti dal vento, ai vetri. Nel giardino, dall’aspetto “naturale”, con i medesimi alberi del bosco, trovai l’unico essere dal quale ebbi solidarietà e comprensione: il cane. Lo abbracciai; peraltro mi mancava il mio.
Non posso nascondere che, andando a letto, pensai di aver sbagliato a essere andato fin lassù.
Mi risvegliò un tenero cinguettio di uccelli. Ripreso contatto con il mondo, sintonizzati i sensi su “giorno”, sospirai: mi sentivo bene. Le scorie della pesante giornata precedente, superate. La stanza si era riempita di una luce che i riflessi delle foglie, ondeggianti al vento lì appena fuori dei vetri, rendevano vagamente verdognola. Con il salire del sole - ormai era già abbastanza levato - le chiacchiere dei volatili stavano aumentando. Prima di scendere dal letto, volli controllare che ore fossero, nel timore di aver fatto l’ennesima brutta figura, destandomi troppo tardi. Cercai l’orologio sul comodino di faggio, lessi l’ora.
Le tre e cinquanta!
Le corte notti estive del Nord avevano colpito. Passai una mezz’ora con gli occhi sbarrati e il cervello che rimuginava sulla sera precedente (i cattivi ricordi erano riaffiorati non appena avuta cognizione dello sbaglio), poi riuscii a riprendere sonno.
La seconda volta che mi alzai, l’orario era giusto. Non è che il sole apparisse molto più alto, in verità. Ci incontrammo in cucina per la colazione e mi chiesero cosa intendessi fare nella giornata. Ci si accordò per visitare subito Copenaghen: poi saremmo passati a fare un po’ di spesa e a raccattare l’ingegnere e uno dei suoi figli (l’altro lavorava a Rotterdam) alla stazione, poiché saremmo stati noi due, Irene e me, i primi a prelevare la macchina dal parcheggio.
Partimmo, la madre ci guardava con prematura nostalgia dalla finestra. Io feci un vago gesto, a metà strada tra l’intesa, la conferma del saluto già lasciato a voce e l’O.K., il programma è confermato, e montai in macchina. Guidava Irene: il padre mi cedette cortesemente il posto davanti. Appena seduto, cominciai istintivamente a scrutare il sottobosco, per rendermi conto di come fosse costituito. Per fortuna, mi ero ricordato d’allacciare la cintura di sicurezza. Ingranata la prima, ebbi come l’impressione che ci fosse agitazione a bordo, ma non me ne curai, finché non vidi quattro occhi che mi puntavano, mentre le mani di loro appartenenza si svitavano freneticamente fuori dei finestrini in segno di saluto. Dalla finestra, la madre ricambiava con enfasi. Sembrava che partissimo per la Siberia: invece si andava semplicemente in città, come (loro) tutti i giorni. L’ordine di quei quattro occhi era perentorio: “Fallo anche tu!”. Lo feci, con fervore da neofita.
Il Porto dei Mercanti (Køben havn) si mostrò in un’altra magnifica giornata di sole. Vedemmo le architetture di Amalienborg, facemmo l’interessante giro dei canali sul barcone turistico, con Irene che mi mostrava navi e magazzini, spiegandomi che questa l’aveva venduta, quell’altro affittato, di quell’altra ancora ne avrebbe curato la trasformazione... Mi illustrava, cioè, gli oggetti del proprio lavoro commerciale. Registravo le informazioni senza però impicciarmi dei particolari della sua attività. Non mi spettava sapere chi avesse comprato o venduto, a quanto, ecc... Discrezione: questa ritenevo di dover mostrare. Irene sembrava però attendere qualche mia incursione e quasi sembrava volerle provocare. Strano.
Tornati fuori città, prendemmo l’auto davanti la stazione e ci spostammo al centro commerciale. Dovevamo fare pochi chilometri di superstrada. Irene vi si immise, ma vedevo che qualcosa non andava: parlottava tra se, faceva piccoli gesti - molto contenuti - di disappunto, poi alzò poco poco la voce: “Ma guarda questo, che fa?”. E poi: “È matto?! Eh!”. Quindi: “E allora?”.
Tremai pensando che ce l’avesse con me. Cos’avevo combinato? D’altronde, non c’era nessuno sulla strada, solo una vettura un 60-70 metri più avanti: viaggiavamo sui 70 orari, non vedevo altro colpevole se non me. E poi c’era un problema in più. L’inglese lo parlo abbastanza, ho girato il mondo senza mai eccessivi problemi linguistici, quelli che non sono di madrelingua inglese li capisco perfettamente quando usano l’idioma di Shakespeare. Tutti. Tranne Irene. Credo che Irene pensi che io sia negato per le lingue.
“Ancora?”.
E no, adesso non avevo davvero fatto nulla. Osai: “Ma che succede?”.
“Guarda questo qui, ti pare il modo di guidare?”
Incredibile: se la prendeva proprio con quello che ci precedeva che, effettivamente, seguiva una traiettoria un po’ sinosuidale: ma niente che, a quelle velocità e distanza, potesse impensierire me, abituato al traffico romano e italiano in genere. Neanche a volerlo fare apposta ci si sarebbe riusciti a tamponare. Secondo me, non secondo le regole della safety scandinava.
Niente da fare, proprio un Paese lontano...
Subito, il supermarket sconfessò brutalmente questa opinione. Semplicemente perché, spingendo il carrello tra i corridoi ricchi di scatole d’ogni genere, improvvisamente fui colpito da un enorme scaffale. Non potevo crederci. Eppure no, non ero a Ciampino, ero nei dintorni della capitale di Danimarca.
In cima, campeggiava un bel cartello con su scritto: “Buitoni”. Sotto, più qualità di pasta che non accanto a casa mia. Lunga e corta, liscia e rigata, da pastasciutta e da minestra, da lasagna e da cannelloni, agli spinaci, al pomodoro, al nero di seppia, normale e integrale! Centinaia di confezioni dei vari pesi: buste da mezzo chilo, sacchettini per il brodino, pacchi da cinque chili. Un altare trionfale per la cucina italiana. Addobbato di tutto punto. Ora capivo perché il mio “originale” presente non aveva suscitato grandi entusiasmi. Di confezioni di ‘pasta tricolore’ ce n’erano quante se ne volevano! E pensare che in Francia o in Spagna, ad esempio, nostre sorelle o cugine latine, non avevo mai visto niente di simile. Qualcosa cominciava a non quadrarmi.
Poche sere dopo, tutta la famiglia era attesa alla festa di compleanno di una cugina di Irene. Fui associato all’invito. Andammo a Lyngby, un vero sobborgo di Copenaghen: il party si teneva in una villetta monopiano. Ce ne sono tantissime, in Danimarca, di queste villette con il solo piano terra, il tetto piatto e le grandi finestre scorrevoli che lasciano entrare tanta luce. Tipiche dell’architettura americana degli anni ’60. Spesso hanno la bandiera nazionale, stretta, lunga e a coda di rondine, piantata nel giardino. Dicono sia la più antica del mondo, dicono di esserci molto attaccati.
Venni presentato a Lizette, la padrona di casa festeggiata. Gli ospiti erano in larga maggioranza abbastanza agés e costituivano una sorta di grande famiglia, nella quale però erano forse più coloro che appartenevano alla categoria “grandi amici di vecchia data” piuttosto che alla categoria “parenti”. Irene mi spiegò che molti dei presenti avevano vissuto lunghi periodi all’estero. D’altronde, come sapevo, anche la sua famiglia era “estera”: suo padre, a Rodi, aveva sposato la madre, greca (Irene è infatti mezza danese e mezza greca: ha carnagione un po’ scura e capelli corvini, e la cosa, lassù in quella terra algida, trova i suoi ammiratori...). Lizette, invece, era stata sposata con un libanese. Tra gli amici, c’era un ragazzo sudafricano, un fotoreporter, unico altro straniero oltre me presente. Due su circa sessanta.
Al lume di parecchie candele, la festa cominciò. L’inizio fu formale. Una signora con la gonna lunga fino a terra come quelle delle cameriere nella bigotta Disneyland si fece al centro della sala e pronunciò una lunga frase piena, come sempre, delle vocali e dei gorgheggi che caratterizzano l’idioma danese. Poi fece una pausa e riprese: “I begin to speak in that I am Lizette’s godmother. We have two foreign guests between us, so we shall speak English tonight...”
“Prendo la parola in quanto madrina di Lisetta. Abbiamo due ospiti stranieri, dunque stasera parleremo in inglese...” E si continuò in quella lingua per tutto il suo discorsetto, per tutti gli applausetti e per tutta la replicuccia di Lizette. Dopo di ché, supponevo, la cosa sarebbe finita. Mi si formò in mente l’immagine che sia Lizette che la sua madrina fossero due frigide ossessionate dal rapporto con il sesso. Ma forse era solo l’educazione protestante e l’incapacità di accoppiare gusto moderno nei vestiti alla pretesa solennità. Ora si concedevano come vergini sacerdotesse allo scodinzolamento dei parenti. Pensiero cretino, figlio di un protratto obnubilamento dell’intelletto.
Lasciati sfogare i danesi, avanzai verso il tavolo del buffet, davanti al quale ogni popolo è uguale. C’era una coppia che tentava i soliti strani equilibrismi con i piattini e i bicchieri di carta in mano mentre conversava. Passai vicino e, però!, parlavano in inglese. Due signori rubicondi attaccati al tavolo si facevano i complimenti, in inglese. Attorno a un tavolinetto s’era accesa una discussione, credo sulla passione marinara di uno dei partecipanti, in inglese! Tutti quanti parlavano con me, con il fotoreporter e soprattutto tra di loro in inglese (o piuttosto in americano). Lo trovai incredibile.
Passi il bilinguismo: un popolo di commercianti impara per forza l’idioma che si parla sui mercati. Però tanta estrema cortesia: era forse troppa.
Ma ero io che la vedevo da italiano...
In quella sera che avrebbe potuto benissimo trascorrersi nel Maryland, mentre sbirciavo la compagnia sottraendomi ai loro sorrisi invitanti, mentre riuscivo a mettermi in finestra libero da obblighi comportamentali, mi si aprì lo spiraglio per leggere correttamente tante cose di quei pochi giorni danesi. Capii il mio errore: era come se leggessi l’arabo da sinistra a destra invece che, correttamente, al contrario.
Sapendo di dover ricevere un italiano, i danesi si erano “settati” sull’Italia. Della quale tutta la Danimarca ha già un’alta opinione, a cominciare dal cibo: vedi il grande scaffale per la pasta al supermercato. Per i nordici danesi l’Italia è la calda terra dell’armonia, del buon vivere. Dei latin-lovers ridicoli, sì tanto; però, in fondo…
È strano, ritenni in quello scorcio improvviso di verità, il rapporto dei danesi con l’Italia: ne sanno ogni cosa, ma gli sfugge il senso ultimo. Anche Irene: ama la solida genialità architettonica del Pantheon, ma non riesce ad apprezzare la seduzione di Trinità de’ Monti (anche se commise un errore madornale, o meglio, lo commisi io: non le prescrissi di andarci verso il tramonto; e lei andò di mattina).
E allora, ecco svelarsi il senso dell’atteggiamento da parte dell’avvocato civilista, la prima sera.
Era per lui!
L’interrogazione era per lui: doveva chiarire se era all’altezza dell’ospite, proprio sul terreno di questi. Aveva passato giorni interi a ripassare e approfondire le nozioni del liceo sulla sua maledetta enciclopedia, e adesso era preparatissimo. Per questo non mi aveva contraddetto nel momento in cui io parevo confutare quanto riportato sul suo fedele tomo, ma anzi si era messo a pensare con perplessa e ciondolante espressione.
Ma non era tutto.
Cominciavo ad avere chiari un po’ tutti i tasselli di quel rapporto iniziato in modo difficile. Irene che s’aspettava che mi precipitassi giù dal treno, la sorpresa perché non mi sbracciavo in coloriti saluti partendo con l’automobile, la critica evidente alla compostezza del mio atteggiamento, con il mio parlare poco e a bassa voce. Dall’altro lato, la nordicità loro che riemergeva nei discorsetti, nella safety stradale, nelle troppe bandiere. Anche la madre di Irene, greca di Rodi, dopo una lunga vita in Danimarca, superata la dura prova d’accettazione iniziale (che forse, però, non era ancora finita), era divenuta, o si mostrava, più danese dei Danesi.
Insomma, a me italiano chiedevano di fare l’italiano. Volevano che portassi la confusione, l’irruenza mediterranee. Dove si sa vivere bene: ma che casino!
Meno male la gaffe del vino: li avevo appagati un po’.
Tuttavia, anziché sbloccarmi, questa raggiunta consapevolezza, unita al difettivo inglese rispetto a quello di Irene (che parla sei lingue: la sua, inglese, francese, tedesco, greco, svedese) mi intimidì molto. Nonostante tutto, continuavo a sentirmi costantemente sotto esame, come uno scolaro che si sente tenuto d’occhio dall’insegnante.
Parlavo molto poco, intento a misurare e misurarmi. Certo non dovetti risultare di grande compagnia. Irene giustamente se ne immusonì; e mi accorgo ora che non le ho mai spiegato il perché del mio atteggiamento.
(Spero di aver rimediato quando venne in Toscana e, di ritorno da San Gimignano, le insegnai a cantilenare in romanesco “Onzi, onzi, onzi – a Poggibbonzi so’ tutti stronzi”: ameni versetti che mi inimicheranno la cittadina...
Credo che li ricordi ancora. Me li ha ripetuti divertita più volte, anche al telefono; sento ancora la sua voce poliglotta ripetere “Onzi, onzi, onzi...”
– Vado a telefonarle.
No, mi precede, mi sta telefonando lei.
Si sposa.

E poi Irene si sposa.
Nonostante conosca solo me, invita tutta la famiglia, anche più di quanti lei stessa stia immaginando.
Andremo a Copenaghen. Decidiamo subito. Andremo e ci vestiremo alla grande, per non sfigurare. Ci saranno i Danesi e i Greci, non saranno gli Italiani a vestirsi come se non onorassero la cerimonia.
È bello essere invitati a un matrimonio all’estero. È bello che ti chiamino a partecipare a una festa così importante. È ancora più bello quando non sei nemmeno un parente. Senti che ti vogliono bene davvero, anche se una volta hai bevuto troppo presto il vino e ti sei un po’ chiuso…
Anche se il rito si svolgerà alla Sankt Johannes Kirke e sarà luterano. Bè, comunque protestante. Insomma, capiremo quando inizierà, perché quando entra la sposa inizia. Con ogni probabilità comprenderemo anche quando sarà finito, perché quando gli sposi escono è finito. Sarà più difficile capire cosa accade nel frattempo. Molto a causa della lingua, e il celebrante addirittura sembrerà parlare in giapponese. Molto anche a causa del fatto che costui parlerà di continuo e più o meno sempre con lo stesso tono. Lui parlerà, si canteranno canti, ci sarà uno scambio di posizioni tra nubendi e tra loro accompagnatori all’altare, lui parlerà, si canterà, parlerà, parlerà, si canterà, parlerà e gli sposi si avvieranno all’uscita tra le ali sorridenti ed emozionate di tutti noi. Sì, ma quand’è che si saranno sposati? Niente “puoi baciare la sposa”. Niente applauso (meno male!).
Sankt Johannes Kirke è all’interno dell’angolo acuto tra Nørre Allé e Blegdamsvej, che confluiscono nella Sankt Hans Torv. È il quartiere dove già vivono Irene e Carl con il figlio Paul, il piccolo Paul che sarà il paggetto del matrimonio in un completino azzurro. In un sala del complesso parrocchiale retrostante la chiesa neogotica in mattoni rossi, appena terminata la cerimonia religiosa, sarà dato un rinfresco per gli amici meno intimi, i vicini di casa, i conoscenti. E una cosa salterà fuori. Da noi, ai matrimoni ci si veste con abiti da competizione; da loro, con abiti da cerimonia. La differenza sarà visibile. Ma i nostri abiti avranno avuto anche un riflesso divertente. Ma, ordine: prima il rinfresco per la cerchia esterna, quelli che al ricevimento della sera non ci saranno. Una piacevole atmosfera di gente contenta della felicità degli sposi e delle loro famiglie. Noterò che gli ambienti parrocchiali hanno tutti la stessa luce, quale che sia la confessione. La torta con la foto glassata di lei e di lui lascerà un po’ d’imbarazzo: mangiarsi un pezzo di Irene mi metterà a disagio! Conoscerò finalmente il fratello di Rotterdam, rientrato in Danimarca, anche lui davvero simpatico. Rincontrerò Lizette, per niente cambiata. Purtroppo Irene già non frequenta più l’amica Simone, peccato, mi stava simpatica con la sua anima pronta a perdersi. I genitori saranno gentili come anni prima e non ricorderanno la disastrosa interrogazione. La mamma sarà rimasta mediterranea nonostante tutti gli anni al freddo, il papà sarà orgoglioso della bella figlia che ha cresciuto e mi sembrerà davvero contento che siamo venuti. Entrambi, come tutti, non potranno non notare come siamo vestiti.
Lo avranno notato già in mattinata gli abitanti di Copenaghen.
Capiterà che quello stesso sabato di fine maggio ci sarà un matrimonio reale.
Uscire dall’albergo a un angolo di strada davanti al Kastellet per fumare una sigaretta col viso messo in penombra da un graziosissimo cappellino nero a tesa larga, con scarpe Les Tropéziennes tacco 12 e un adorabile vestitino appena rinforzato da un cache-cœur che scalda le spalle con innata eleganza richiamerà l’attenzione. Non appena uscirò anch’io, udirò i click delle macchine fotografiche. Un’invitata al matrimonio del principe in attesa della vettura che la condurrà all’eliporto (det Kongelige Bryllup era a casa di lei, nello Jylland) la si fotografa. Ed io riderò.
Noi invece avremo la fortuna di partecipare a quello di Irene e Carl e di poter conoscere tanta gente simpatica. Dopo un pomeriggio libero - che gran buona idea - la sera ci sarà il ricevimento ufficiale in un palazzo storico nemmeno lontano dal nostro albergo. Mi piacerà molto la fotografia degli sposi con tutti noi invitati sullo scalone d’onore, che sale al piano nobile con un paio di girate. Al tavolo con gli Italiani saranno previsti Danesi, ovviamente, Greci, Svedesi, Colombiani. Unico problema condividere i canti, ma ciò rivelerà molto della lingua danese, che scrive abbastanza consonanti ma ne pronuncia poche. E l’unica volta che cercherò di partecipare al coro urlerò ”Urrà! Urrà!” avendo letto sul libretto dei canti Hurra. Peccato che tutti gli altri non avranno praticamente pronunciato le erre e, dunque, le mie, belle arrotate, avranno stonato in mezzo al generale ”Uà, uà!”.
Ma quella notte andrò a dormire felice dopo aver fumato il sigaro offertomi dal fratello di Rotterdam. La sera dopo Irene verrà a cena con noi, così come lei, la sposa, era venuta a prenderci all’aeroporto.
Irene, sei grande. Spero che ricorderai ancora ”Onzi, onzi, onzi...”)