Ricordi di viaggi di un italiano nascosto

di Enrico Proietti



silenzi@live.it

Guadalajara

30.12.2013 06:19

Non ricordo nulla. Ho provato a cercare con Google Earth e Street View ma è come se guardassi una città inesplorata.
È strano che sia tornato a pensarci solo adesso. Adesso che ho rivisto lei, mamma con una figlia grandicella ancora a lei appesa, dopo che lì l’avevo lasciata sul procinto di appendere la vita sua a qualcosa di certo. Poco più che bambina, direi con frase scontata. Ma ecco perché non riconosco nemmeno quella chiesa, perché le poche sensazioni relative ai luoghi mi portano a immaginare un paesino e non già una città, perché quasi mi confondo e mi chiedo se non fosse la più equidistante Sigüenza dove voleva incontrarmi lei. È perché mi sovrasta l’immensa misura del fallimento.

L’unica immagine che ricordo bene è talmente prosaica da rasentare la volgarità. Il piazzaletto delle corriere, e la mia che parte, dopo la sua, e i miei occhi fissi sul bagno che passa da sinistra a destra nel momento esatto in cui la vescica mi segnala d’essere piena.
Ahimé, di quella grigia giornata invernale è questo il ricordo più forte, l’unico nitido.
Ebbene, è inutile parlare delle cause di fallimenti già avvenuti. Più divertente e cinico raccontare gli effetti di quello, banale, intercorso quel 31 dicembre.
Sì, era l’ultimo giorno dell’anno e per quell’incontro si era sottratto tempo, soprattutto lei, ai preparativi e alle attese dei rispettivi veglioni, in due città diverse, nelle due direzioni opposte rispetto a dove ci si era dati appuntamento. Per rivedersi. Se n’era creata occasione.

Sono sicuro che andammo a mangiare in un ristorante. Saremmo stati entrambi in grado di cavarcela con tapas o un bocadillo. Invece no, di questo sono certo a causa delle conseguenze: pranzammo in un ristorante. Può darsi che avesse i muri in pietra. Può darsi. Insomma, il freddo piovosetto di quel San Silvestro mi indusse a ordinare una minestra fumante. Forse per scaldarmi, che cosa chissà, forse per inconsapevolmente autopunirmi. Era buona, sì, sì. Cos’altro mangiai non so. Rammento la minestra per le sue conseguenze. Di cosa fosse, non m’è più dato di sapere. Probabilmente di qualcosa che aveva stuzzicato la mia curiosità. Era anche abbastanza salata, non tanto da rovinarne la bontà, però di cloruro di sodio ce n’era.
Finito il pranzo, il momento dell’addio era incombente. Solo il tempo di andare a piedi, sempre nel freddino umido, alla partenza delle corriere. Strada troppo corta, abbracci, grazie per i reciproci regalini, ennesimo interrogarsi sul significato preciso attribuito dagli spagnoli al loro dire ¡Adiós!, ancora abbracci, poi la sua corriera era pronta a partire. E partì.
La mia l’avrebbe fatto non molti minuti dopo, per fortuna.
Come impiegare quel breve troppo lungo tempo? Passeggiatina fino alla strada di sopra, forse la feci. Quando i minuti erano ormai pochi, guardai la piccola costruzione delle toilettes e mi dissi di andare al bagno. Mi risposi: “Ma non mi scappa.”. E poi il viaggio era di nemmeno un’oretta. E così la corriera partì con i miei umori sopra.
Sempre, in tutto il mondo, nel momento esatto in cui le portiere si chiudono e l’autista ingrana la marcia e le ruote iniziano a muoversi, si sente un sospiro collettivo, sommesso ma deciso. Tra il finalmente e il di già. Talvolta è accompagnato da un ultimo sguardo, un’impressione finale sulla retina del luogo dove si è stati. Partire è un po’ morire… Non so chi morisse tra gli altri occupatori di posti. Li guardai, erano vestiti in modo discutibile per i canoni italici. L’aria vagamente sfigata, di chi il fine d’anno prende una corriera sotto la pioggia. A causa della stressata condizione psicologica, io optai per il pacchetto completo sospiro-sguardo, e sospirai e guardai di nuovo la casetta dei bagni e la vescica urlò.
Fu un urlo lacerante, un rimprovero, un’invocazione di soccorso. La brodaglia calda salata era stata aiutata dal freddo. Era piombata giù tutta insieme, con la complicità dell’ansia regalata dalla constatazione che il bagno stava andando. Se gli altri sono appannati, questo ricordo è nitido come se lo vivessi adesso.

“Magari è come in Brasile, c’è il cesso di servizio a bordo.”
Non è come in Brasile. Devo resistere. Facile quando non ci pensi, e soprattutto quando non hai bevuto un’abbondante scodella di sopa, de sopa de algo! Resistere. Provo a guardare fuori dal finestrino. Ci sono ancora i semafori. Ancora le case della periferia, accanto a qualche capannone d’officina, dietro le quali si intravvede una linea ferroviaria. L’andatura sommessa e i rallentamenti aumentano il nervosismo e, con esso, il bisogno. Che fare? Serve una soluzione, ma qual è la soluzione a un impellente stimolo fisiologico su un bus di linea che non prevede il bagno tra le sue dotazioni? Divagare la mente, non pensarci, fissare l’attenzione su qualcosa. Ah, già. Peccato che senta il liquido premere sul condotto, l’unico che abbia a disposizione.
Finalmente il pullman esce dall’agglomerato urbano, ponendosi su una statale veloce che scende piano piano. Il percorso corrisponde alla bisettrice del grande angolo composto dalla Sierra de Guadarrama, a nord-ovest, e dalla Serrania de Cuenca, a novanta gradi verso est rispetto alla prima. Due catene non particolarmente rilevate e anche un po’ separate da quello che pare come un larghissimo passo: appunto quello scavalcato da questo percorso antico. La Sierra la vedo a destra, in fondo alla grande piana digradante solcata dalle non frequenti acque. No: acque, che brutta parola…

Perché non avevo preso il treno? Il treno ha i gabinetti. Forse non andavano bene gli orari. Sul treno mi sarei liberato facilmente. Forse avevo voluto risparmiare. Magari pochi soldi. Per quel poco denaro in più ora mi sarei svuotato senza problemi.

Invece di problemi ne ho. Caspita, se ne ho! Il desiderio preme forte sulla morale, anzi sulla moralità. Voglio farla. Sì. Chi se ne importa, la faccio! E se poi non esce? L’ho sentito dire, che se la trattieni troppo poi non esce. Forare la vescica. Dovrei farlo.
Quanto tempo è passato? Da quanto siamo in movimento? Scappa. Uhm, non c’è tanta gente dietro. Vado dietro. Cerco posizioni che diano sollievo, un po’ ci riesco. D’improvviso, inaspettatamente, l’autobus accosta e si ferma. Scendo, scendo! Ma non è una sosta, soltanto una fermata rapidissima per far salire una poveraccia in attesa sulla larga strada tra i campi. Sì, da un po’ ci sono campi, luoghi ideali per scendere ed espletare. Se fa un’altra fermata, scendo, eseguo, e poi aspetto paziente il prossimo autobus.
Non è tardi, ma l’uggia della giornata anticipa la sera, in un crepuscolo prolungato. È l’ultimo dell’anno. E se non c’è un’altra corsa dopo di questa? Rimango nella campagna della Meseta. Magari faccio autostop. Sono ben vestito, poiché m’ero stupidamente ben vestito per l’incontro, e un tipo incravattato desta fiducia. La speranza mi dà qualche brandello di sopportazione. Ma sparisce rapidamente. Lo stimolo spinge, gonfia, dilata, brucia. Il cervello prova a combattere contro lo stimolo, ma perde. Lo stimolo è forte. La disfatta sembra alle porte.
La cravatta è invece maledetta, la allento, mi soffoca. La allento di più. La tolgo. Devo reggere fino al capolinea, non è proprio dentro la città, quindi non si incontrerà molto traffico. Le stazioni della metro – non è Roma – hanno spesso i bagni. Avenida de América è l’interconnessione con le corriere, vuoi che non ce l’abbia? Magari ce la faccio. No, non ce la faccio. La busta del regalo! Il pacchetto lo porterò a mano, sai che problema. La faccio nella busta! Mi nascondo bene dietro il sedile, e via…
Si riaccosta, la corriera. Seconda fermata, andata: e con essa la possibilità del piano di evacuazione campagnola e quella di passare la notte sotto un albero castigliano. Ma io ho la mia busta, ora ci penso io. Come mettermi? Non devono vedermi, sennò sai la vergogna e poi se so che mi vedono mi blocco e dopo è pure peggio e devo pure fare attenzione a non sporcarmi che poi metti che sale uno e viene a sedersi dietro mi vede bagnato. E non è facile trovare una posizione. Ci penso più dal punto di vista teorico che pratico. Non è che possa armeggiare coi pantaloni prima di essere sicuro di non essere visto e di non aver fatto capire quali intenzioni abbia. Non m’è mai successo in vita mia, di trovarmi in questa situazione!
Il pullman va. Ma non potrebbe andare un po’ più veloce? Sudo, freddo o caldo non so. Preme, il liquido preme. Se solo immagino la soddisfazione di liberarmene, la consapevolezza provata di non poterlo fare rende la tortura insopportabile. Tortura, ecco: è proprio una tortura. La busta, la busta! Ma come fare? In realtà il pensare alla soluzione-busta è un ottimo rimedio contro le conseguenze della prefigurazione della soddisfazione liberatoria. Le inibizioni del come tappano la falla imminente.
La cinta l’ho slacciata da tempo, ma se sbottonassi i pantaloni sarebbe irreparabile: l’associazione gesto-minzione farebbe scattare immediatamente un comando che non sarebbe possibile ritirare. La voce che già batteva in testa si fa più prepotente: “Falla, falla, che ti frega, falla!” Quasi gli do retta. Ma chi li conosce questi qui, questi poveretti che il pomeriggio dell’ultimo dell’anno se ne stanno ancora in corriera. Mi biasimeranno, e allora? Perché, state meglio voi, con un futuro banale e senza un passato come il mio, magari doloroso, ma grande, alto, pure nobile? Io sto su questo stramaledetto pullman senza bagno – oddio, non è che stava sulle scalette? Una volta, a Torino, ce l’aveva sulle scalette. No, non c’è, non c’è – ci sto perché ho avuto l’incontro, io non sono di qui, ma voi, che cosa mi guardereste schifati? Siete dei poveracci. E poi, mica l’ho fatta in terra, che cavolo, ho riempito la busta. Adesso scendo e la butto, embè?
Deliro. E ché, forse ho la vescica infetta ed ora che è troppo piena l’infezione risale le vie urinarie? Infezione delle vie urinarie: esiste. Sudo. È la febbre. Sì, è febbre, che altro?
C’è un tipo senza età, o il lavoro l’ha invecchiato precocemente oppure ha molto di più di quello che i jeans e lo zainetto – non da studente, da manovale – farebbero pensare. È un uomo possente, dai muscoli duri. Pelato, con i capelli bianchi – precocemente bianchi? – solo sui lati e sul basso della nuca, ha un naso importante e gli occhi grandi ed espressivi. È indecifrabile. Oltre all’età, anche la condizione. Rammento che prima di salire aveva un berretto di lana in testa. Il volto esprime consapevolezza, potrebbe essere un professore di filosofia distaccato dalle cose del mondo, sebbene l’arrossamento delle sclere mi indirizzi verso la polvere dei cantieri. Lui ha capito, sì, perché si volta a scrutarmi. Figurati! Deve averlo fatto sentendomi muovere. Non come la cicciona che occupa due posti e aveva girato il suo viso porcellanato solo per fastidio. Ma in fondo è proprio lei quella da temere di più. Da come ostenta l’obesità, dev’essere disposta a considerare soltanto le sue, di esigenze. L’altro no: se ha capito, saprà anche comprendere! Magari fa filosofia sulle impalcature.
Spinge. Provo la posizione parto, che dà sollievo per un poco. Dopo qualche minuto, scopro che così la prostata è lasciata sola e improvvisamente si ribella. Mi suggerisce il paragone con un vecchio otre stappato. Se sta in piedi, tutto teso, l’acqua preme sul fondo e allarga le cuciture, ma come lo poggi, si affloscia e l’acqua straripa dal tappo mancante. Non c’entra niente questo paragone con la prostata, però l’otre con la vescica sì, e non credo che la vescica abbia cuciture ma forse è stata progettata per sopportare carichi minori e sta a vedere che qualche danno mi si procura, e insomma. Cambio posizione, scivolo con le ginocchia verso terra, torcendomi all’indietro, così che mi incastro nello spazio per le gambe prono con il petto sul cuscino e la fronte che tocca lo schienale. Mi costringo con gli occhi chiusi schiacciati sulla tappezzeria, quando li riapro devo per forza girare il capo e lo faccio in direzione del finestrino e vedo un aeroporto, siamo vicini! Però è piccolo, e gli aerei laggiù piccolissimi. Mi paiono aerei militari, sì, è un aeroporto militare. Dannazione, ma dove stiamo? Ah, c’è un altro aeroporto, questo è grosso. E quell’aereo che atterra è un trimotore, forse un 727, è un aeroporto civile, è L’Aeroporto. Siamo vicini.
Gli ultimi chilometri sono forse i più difficili. Ricominciano i semafori. “Verde, ti prego, resta verde!”. Piccola la soddisfazione se riesce, grande la delusione se il rosso scatta. Gli scossoni della circolazione urbana sono tremendi. Sento uno spillo confitto nell’uretra che ogni volta punge più forte. Afferro con le mani il sedile di fronte e cerco di ammortizzare: qualche risultato lo ottengo. L’autobus imbocca la Avenida de América e ne ricavo una blanda soddisfazione, che aumenta appena scorgo la fermata della metro omonima.
Panico! All’improvviso, di nuovo. Ho pensato che devo riallacciare la cinta, ma mi sono reso conto che è impossibile. I pantaloni sono leggermente larghi, senza cinta hanno lasciato andare la pancia. Era quello che cercavo, d’altronde. Ma adesso ristringere la cinta provocherebbe lo zampillio. Anche sotto attacco, il cervello lavora, per fortuna. Così mi allaccio la cinta all’ultimo buco, tiro fuori la camicia dai pantaloni per coprirla e chisseneimporta se è spiegazzata. La cravatta era già volata via. Mi metto in piedi e faccio i conti con la nuova posizione. Sbrigatevi a scendere, dai! La cicciona si fa scivolare dal sedile e blocca il passaggio. Con sguardo cattivo raccatta lentamente borse, borsette, pastrano, sciarpa, cappello, soppesando ogni cosa come a riconoscerne la funzione. Scavalcarla è impossibile, anche a ucciderla occuperebbe troppo spazio. Il filosofo da cantiere guarda, vede e urla con voce autoritaria qualcosa all’autista. La porta posteriore si apre. Mi giro un secondo a intercettargli lo sguardo. Grazie.

Finalmente sono sul marciapiede e con passo giusto – cioè non troppo lento a perdere tempo, ma nemmeno particolarmente veloce perché insostenibile – vado alla scala mobile, che scendo. Arrivato sotto, con piglio sicuro mi metto a cercare il bagno. Non vedo il simbolo. Imbocco alcuni passaggi, certo di trovarlo. Niente. Ma ci deve essere!
La capacità decisionale è una delle principali risorse, in una vita. Poi, quasi sempre sbagliamo: ma se non scegliamo non viviamo la vita nostra. E allora, scelgo. Sono solo due fermate fino a Príncipe de Vergara. Mi precipito nel tunnel della linea 9, direzione Pavones, e becco un treno quasi al volo. I successi danno forza. Reggo. Un posto libero. No, non posso più sedermi. Però, reggo. Núñez de Balboa, ed ecco Príncipe de Vergara. Sono fuori dal treno. Gli occhi scansionano le icone. Quella della toilette latita. Che sia diversa? Ma no, me la ricordo, quando non mi serviva, la vedevo in tutte le stazioni. È uguale. Non c’è, punto. Decisione, decisione. Mi infilo nel corridoio che conduce alla linea 2, arrivo alla banchina. Fosse qui, il cesso? Nemmeno quaggiù. Intanto, sento l’aria spinta a stantuffo, arriva il treno. Ostento calma, e ci monto. Solo tre fermate per Sevilla. Non dura tanto. Arriva, una scala mobile è ferma, tutti utilizziamo l’altra, metto il naso in strada. È definitivamente buio.
L’albergo è davvero a pochi metri. Sento i pantaloni calare, cammino a pancia in avanti, capisco di essere spettinato. Il concièrge mi guarda finto affabile ed è come se si domandasse cosa voglia da lui. La chiave, ¡tonto! Si gira con calma e prima di consegnarmela si assicura che abbia notato il suo sorriso da servo infedele. Sindrome di bontà da periodo natalizio. Bi-tonto. Afferro la chiave imponendomi di non dare valore alla cosa. Non sono ancora in camera. Sarebbe interessante, ora, mollarla in ascensore. Non sulla corriera, non nella busta, non in una tasca della cicciona. Nemmeno ad Avenida de América o a Príncipe de Vergara, né a Sevilla dove non ha avuto nemmeno senso cercare il bagno. No: invece, qui, in ascensore.
Forse guardarmi sfatto nello specchio mi dissuade dal folle gesto. Entro in camera, butto a terra tutto quanto avevo in mano, anzi, lo lascio cadere giù, apro la porta del bagno, entro, mi accosto al water, apro i pantaloni e…

Gli allarmi si montano nella casa dove si sono ori da difendere. Ma i ladri sanno rubarli lo stesso. La sirena suona, ma nessuno corre. Così la casa rimane senza ori, ma con l’allarme. Dopo, un topino entra da una fessura. La sirena suona, e stavolta tutti accorrono. Si agitano, controllano, la frenesia li prende, circondano, perlustrano. Non trovano i ladri. E allora li assale il panico, e ricominciano le operazioni. Quando stanno per cedere, da sotto un tappeto salta fuori il topolino, che scappa via e fugge dalla stessa fessura.

Solo un flebile getto tintinnò nella ceramica sanitaria, come se i muscoli della vescica si fossero paralizzati. Tutto qui?
Avevo una vescica senza oro. Il sorcio del malessere aveva fatto scattare l’allarme. La tangibilità del fallimento. Ecco perché di quel giorno non ricordo i luoghi fisici ma solo una volgare esigenza fisiologica.
Perché avevo visitato una casa senza più ori. Perché non avevo visitato Guadalajara. Avevo visitato lei. Un luogo dove ero stato felice. Errore.