Ricordi di viaggi di un italiano nascosto

di Enrico Proietti



silenzi@live.it

Barcellona

10.02.2014 20:40

Persi le chiavi della mia anima in quella città compatta e variegata. Le lasciai convinto che lei le avrebbe prese con se. Invece ebbe paura, e prese solo il loro fermaglio.
Dentro la stazione di Barcelona-Saints, con in mano un disgraziato mazzo di garofani comprato per me da un disgraziato mentre io già la cercavo, correvo verso il binario fendendo i viaggiatori che ne uscivano. Sembravo un cretino, ma un cretino pertinace e perciò felice. Ma non lo ero, felice.
Dov’era quel sogno? Non vederlo ancora mi stringeva le viscere. Non si può mancare un rendez-vous fortissimamente voluto. Eppure si arriva sempre tardi agli appuntamenti cui si tiene per se stessi. È come una maledizione. Che così, di nuovo, in quella stazione sotterranea rischiavo di confermare.
Non lo feci per un niente. Era lì, sulla banchina, avvolta in un aura luminosa, e si stava anche lei guardando intorno mentre già incedeva intralciata dal fabbisogno di pochi giorni. Appena ci vedemmo iniziò il gioco stupido delle negazioni innegabili, del non mostrare quello che non si può celare, dell’usare parole mendaci e del non sbugiardare quelle identiche dell’altro.
Come si fa ad amare solo un po’? L’amore è un sentimento assoluto. E se non lo pensi da giovane (come era lei) riuscirai a invecchiare senza invecchiare?
Io amavo; quello che in lei volevo amare. Quello che raccontavo a me stesso su quanto doveva essere lei. Le facevo giocare un ruolo dei films che m’inventavo da bambino, non essendo davvero mai cresciuto.
Lei, lei non poteva non amarmi. Le schiudevo inaspettatamente scorci su orizzonti attesi e però sconosciuti. Rappresentavo il termine di paragone migliore per ogni sua idea. Ma, ironia beffarda, lei era frenata dal sentirmi grande, troppo per lei. E non solo da questo: anche dal mio doverla costringere, eventualmente, a non farla essere più un cucciolo in cerca della tetta materna e doverle far prendere decisioni di sofferenza e maturità; dal mio correre troppo, per avere già strada da recuperare; dal mio ostinarmi a voler cambiare la geografia, che ci condannava.
Fu vinta dalle paure.
Ma in quella città brulicante e distaccata, tutto questo parve obliato, per concedere poche ore di premessa a un’illusione accecante: che io nobilitai chiamandola speranza.
Spendemmo ore di cecità voluta, di non domandare e di non dire. Soprattutto, ci guardavamo l’un l’altra negli occhi che sfavillavano, per andare oltre le stupide parole sulle quali avremmo costruito – e in parte lo facevamo – maschere da indossare a ogni occasione. Camminammo nella notte lungo il Passeig de Gràcia senza mai guardare avanti, mano nella mano fingendo di non farlo, contando mentalmente le luci riflesse nelle pupille. Il freddo spingeva per farci abbracciare, ma noi resistemmo, pieni di insana virtù. Turisti distratti sospinti dal dover trovare un’occupazione ai nostri silenzi, visitammo la città: non potemmo inseguire i nostri desideri che tra le guglie fittizie della Sagrada Familia, aggiungendo la nostra espiazione vivente, precedente al peccato stesso, a quella pecuniaria dei barcellonesi; ci confondemmo tra la folla che preparava la fine dell’anno, diluendo le nostre aspettative in quelle rituali delle persone in strada, ignote complici della nostra autocastrazione; cercammo inconsciamente una soluzione attardandoci tra i vicoli e le bettole del Barrí Gotic; affogammo ogni istinto nelle fontane colorate di Plaça d’Espanya, colorate di una gioia che non riusciva a pervaderci.
Poi salimmo al Castillo de Montjuïc, in un’altra notte, tersa e immobile. Là, sul monte dei giudei, ci affacciammo verso il mare. Fu l’attimo in cui minori furono le distanze tra desiderio e paura e tra illusione e speranza.

Monte dei Giudei
antico

e
moderno
Le stelle lucevano
gli impianti portuali

sotto
brillavano
Nel freddo
due scemi
tra cielo e terra
guardando il mare
maledicendolo
perché non sapevano
navigarlo
non trovarono
un fuoco
Poche
scintille
naufraghe
non incendiano
legno troppo indurito
dagli inverni
o
carta bagnata
da troppa paura
Neppure
sul Monte dei Giudei
magico
e
complice sprecato

Quando poi, vinti da noi stessi, facemmo per andarcene, trovammo il portone chiuso. Prigionieri nel castello! Sarebbe potuto succedere l’irreparabile che nessuno avrebbe mai cercato di riparare, ma, per non passare dalla commedia alla vita troppo bruscamente, lanciammo qualche richiamo, dandone motivo al freddo incipiente. Il nostro destino restò qualche attimo sospeso: poi un vecchio guardiano sopraggiunse imprecando. Lo odiai. Spero anche lei.
Avrei voluto accompagnarla fino a Saragozza, ma la nebbia le diede modo di impedirmelo. Acconsentì a che la portassi a Reus, da dove avrebbe ripreso il Talgo. Peccato che quel treno veloce non ci passasse. Così, nella stazione di quella asciutta cittadina catalana, la salii su un carro bestiame, un relitto di tempi andati, tra ossute e ciccione che s’impicciavano del nostro ennesimo addio. Il convoglio partì. Vederla andar via su quella infima classe mi fece stringere ancora di più il cuore. Mi duoleva, persino.