Ricordi di viaggi di un italiano nascosto

di Enrico Proietti



silenzi@live.it

I racconti sono qui sotto, in ordine inverso a quello di pubblicazione.

Blog

Germania

20.12.2013 15:45

Ad Amburgo scorsi immagini di Amburgo incastonate nella Germania.
Avvertivo nel paese dei crucchi il bisogno di dire qualcosa su questa tragedia della guerra persa e della scrittura dei fatti da parte dei vincitori. Lo sapevamo tutti che gli anglo-americani avevano bombardato la Germania. Ma come? Due righe due perse tra la magnificata descrizione dell’irresistibile avanzata conseguente lo sbarco in Normandia.
L’aspetto della realtà è che Amburgo non c’è più; di Hannover è rimasto solo il calco della topografia; Berlino..., Berlino conserva i propri moncherini “a imperitura memoria”; Colonia finge di continuare come se il Reno non avesse visto; eccetera, eccetera, sino al triste paradigma di Dresda.
Lunghissimi inverni plasmanti animi e loro manifestazioni avvampati dal fuoco d’una estate senza primavera alle spalle.
Senza i teneri germogli di un marzo, la molle erba di un aprile, i discreti fiori di un maggio, le turgide messi di un giugno, cosa brucia l’estate? La terra modellata dal fango ma rattrappita dal gelo.
E che scrivevo io? Io volevo commuovermi di fronte alle tragedie che non conoscono parti, ma tutto era così secco! La ricchezza aveva ormai soffocato le rovine – forse anche umane – ma probabilmente non le memorie.
Non potevo però entrare nelle strazianti memorie tedesche. Solo rispettarle.
E picchiare di nuovo sugli strazi interiori. D’altronde talvolta non solo le nazioni sono costituite da pezzi strani, collocati dove non ce lo si aspetta.
In fondo, perché New York sì e Honolulu no? Si amano le cose per un quid sconosciuto eppure marcato.

Ecco, io ho veduto la Germania sempre solamente d’estate: la trovo piatta e bella. Ho guidato la moto sulle sue autostrade in cemento, mi sono stupito dell’incalzare degli atterraggi all’aeroporto di Francoforte, ho gustato la comoda precisione dei suoi treni, superveloci e regionali. Magari la prima volta che la vedrò in inverno cambierò opinione. In fondo, non amo più sfidare con la mia solitudine il vento freddo, far pungere dal gelo la malinconia. Ma per ora, mi piace la Germania.
Anche se non capisco la lingua, non vado oltre il classico “Wo ist die Banhof”; poi stento molto a capire la risposta, per giunta. Però ho imparato che ci tengono molto a sapere con chi parlano, così quando chiamo al telefono recito la liturgia: “Hallo [mai appurato se si dice veramente così], mein Namen ist Enrico. Ich bin ein Freund von ...[nome]. Sprachen sie Englisch, bitte?”, e se quello non parla inglese è la fine.
A Monaco, infatti, la conversazione e il mio desiderio di vivere nuova dolcezza da un ricordo morirono in un aborto di frasi maccheroniche.
La madre di Rupert, che chiamai a Colonia da Amburgo, per fortuna mi rispose, dopo una pausa colma solo della mia speranza: “A little”. Poté così fornirmi il telefono del mio amico a Brema, dove lo incontrai il giorno seguente. Anche Brema è una città rasa al suolo, ma forse le bombe erano meno cattive: allora, seppelliti migliaia (migliaia!) di morti inermi, civili – così, anche vecchi e bambini, donne e malati –, hanno potuto ricostruire duomo e municipio; qualche altro palazzetto in centro. Il monumento ai quattro Maestri Cantori è lì in mezzo alla graziosa piazza dove Rupert mi offrì la cena.
Era un bel tipo, quando l’avevo conosciuto a Montpellier parecchie ragazze ne erano innamorate. Aveva quel tanto di matto che alle donne (a tante) piace. Una domenica decise di andare a visitare non so che posto e prese il treno. Siccome era ai suoi primi giorni di Francia, qualcosa gli sfuggì e lo prese nella direzione opposta. Non esitò un attimo, appena capì che il convoglio si era messo in marcia dalla parte sbagliata: si levò su, aprì la porta e saltò fuori dal treno in corsa, finendo sulla massicciata. Il giorno dopo lo vedemmo al café con le mani fasciate che fingeva noncuranza. Mi chiamava “spaghetti” e io a lui “crucco”, con la differenza che io pasta non ne mangiavo, mentre tutti e due ci appassionavamo alla birra. Ricordo che conducemmo una specie di indagine sui modi di denominare il mezzo litro alla spina in Francia, se superbe o cosa: indagine sul campo, è ovvio.
Quando ci reincontrammo a Brema, ci eravamo entrambi laureati. Già da un po’ era stato assunto da una società che fabbricava grandi navi, era molto orgoglioso del suo lavoro manageriale. Era l’assistente di non so quale pezzo grosso: gli dava dentro, ma vedeva prospettive di carriera. Tuttavia non mi parlò della sua occupazione: invece (non più in quelle parole francesi che scavava nell’aria ma in un inglese che, studiato a Oxford d’estate, si era poi attestato nelle durezze del Mare del Nord) si sforzò di raccontarmi la favola dei Maestri Cantori e mi condusse, guarda un po’, a vedere la fabbrica della birra Beck’s. Però, aggiunse che la sua birra preferita era quella della sua città, il Kölsch, che è chiara e leggera: se ne fa largo uso perché è difficile ubriacarcisi, tiene di buon umore e con i sensi svegli. Viene servito nei locali tipici da camerieri con il grembiule blu e il portamonete in pelle.
“Mi piace Brema”, mi disse. “Però io mi sento un tipico tedesco del centro-sud occidentale.”
“Bè, insomma di Colonia!”
“Eh, sai, tutta la zona renana...”
E giù a spiegarmi che dalle quelle parti la gente è calda e leggera come la sua birra.
“Ma perché, qui?”
“Qui stanno un po’ sulle loro. Ci sto da un po’ di tempo ma ancora non ho veri amici... Poi lavorano e basta, io non li capisco...”
Orari di lavoro di Rupert, constatati: dalle 8 del mattino alle 7 o alle 8 di sera! Insomma, il suo era l’atteggiamento verbale di un romano a Torino, un torinese a Lille, ecc... Stupidaggini: o forse tempi differenti. Lentamente si raggiungono intensità più elevate, la velocità è nemica della profondità.
Con Rupert, a Brema, la sera facemmo comunque il giro dei bar: ne conosceva, di persone. Si rammaricò del poco tempo a mia disposizione, ma ad ogni modo mi fece visitare le bellezze locali.
Ma si parlava anche di temi importanti, e venne fuori che lui era contrario alla riunificazione. Mi sorpresi, lo consideravo un idealista, malgrado gli studi di economia.
“E perché?” gli chiesi “Ci sono forse troppi problemi?”
“Problemi?” Fu un attimo, ma si scandalizzò profondamente. Mi guardò come se non mi riconoscesse più. Ebbi l’impressione di suscitargli pietà. “No, non problemi. Problemi, sì, ci sono, però: quattro, cinque anni, li risolviamo.”
Ecco, ora sembrava veramente crucco. Però pensai in un lampo che da noi, problemi come quelli che attendevano la riunione di una terra opulenta ma privata di storia con la sua storia povera nelle tasche e nei cuori, non avremmo pensato neppure di poterli mai risolvere. Dopo 140 anni, la questione meridionale esiste ancora...
“No, non problemi: quello che penso io è che rischiamo di dare all’esterno di nuovo l’immagine dei tedeschi che hanno sempre in testa l’idea del grande Reich... Non va bene. Siamo diversi.”
“Ah!”

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E poi l’ho vista d’inverno. E da terra gradita divenne amata.
Il primo vero impatto fu al Castello di Genshagen, quando la neve che già cadeva sin dall’aeroporto cominciò ad attaccare nel primo pomeriggio. La fiaba uscì. Il parco alle spalle anziché immalinconirsi si esaltò nel candore. I tetti della segheria di fronte dettero senso alla propria funzione. Il viale alberato lungo il quale si affaccia il paesino lasciò il bianco vincere il nero. Fumi sottili lasciarono intuire calori interni. Era un atmosfera troppo forte per me. Mi vinse. All’istante.
Ma il colpo di grazia fu quello del minuscolo spazzaneve che aveva già compiuto il suo ordinato dovere prima che le luci si accendessero negli aloni del presepio. Lì mi sentii parte del tutto.
Dall’autostrada lontana riuscivano a giungere i rumori del traffico, che continuava per ricondurre questo tutto alla realtà del quotidiano.
Prima di cena uscii. C’era un bel freddo, secco anche in mezzo a tutti quegli alberi. In giacca e cappotto, la testa scoperta, senza guanti, raggiunsi tuttavia agevolmente l’insegna di birra che avevo intravisto arrivando. Mi accolsero con curiosità celata bene, scelsi una lager che non conoscevo, pagai una cifra ragionevolissima. A pochi chilometri dalla rinata capitale, gli occasionali compagni da 33 cl apparivano dei bei campagnoli, vestiti da campagnoli. Tra di loro si salutavano con affetto, a me abbozzavano sorrisi. Mostravano tranquillità, possibilmente anche interiore. Rientrai camminando nel silenzio. Aperte le porte della rossa struttura ottocentesca dello Schloss la vampa del riscaldamento rese rosse anche le mie gote. Non sapevo ancora cosa potesse significare una simile accoglienza.
Tutti erano già nella sala del camino con un bicchiere di vino in mano, ma per fortuna il mio ritardo latino non disturbò. Un signore simpatico veniva introdotto alla nostra conoscenza. Il giovane presidente della pro loco del posto, il quale, sempre col rosso in mano, narrò le vicende storiche del castello e del borgo. Non un esplicito accenno agli anni delle dittature, come se nazismo e sovietismo non avessero conosciuto la quiete di quel bosco pianeggiante. E poi finalmente, dopo un tempo da crampi al flessore radiale del carpo, il rosso poté entrare nelle nostre gole. Fuori la neve, con calma, continuava a depositarsi.
Fu una notte piacevole. Il sonno durò ininterrotto.
Non uscii sino a dopo pranzo. Poi, troppe parole viziate m’indussero a cercare di bruciarmi i polmoni d’ossigeno fresco. Uscii nonchalamment in giacca.
La mano gelida del Generale Inverno penetrò dentro il mio petto e prese in mano il cuore, stringendolo e facendolo freddare in pochi istanti. Gli occhi lacrimarono immediatamente. Il primo caduto allo scoppio della guerra.
La temperatura era mutata.
Lo zero superato da una decina di gradi. Verso il sotto.
Era solo il preludio. Nei giorni seguenti si raggiunsero, di notte, i meno 18. Avevano freddo anche i tedeschi. Dice che veniva dalla Siberia.
Fu così che, rientrando immediatamente come da un atroce frigidarium a un accogliente calidarium e sentendo la pelle sottoporsi a stress elastici notevoli, seppi apprezzare il sovra-riscaldamento di quegli ambienti.
Dal castello condussero chi, come me, sarebbe rimasto a Berlino alla stazione del treno di Ludwigsfelde.
Gli olandesi parevano resistere bene, la lettone assiderava. Perché la stazione è completamente aperta al cielo del Brandeburgo e quel gran gelo siberiano l’aveva già ghiacciata. Io non ero sicuro di salvare i piedi, temevo già l’amputazione. Pensai al “Sergente nella neve”, agli stivali autarchicamente inadeguati. Pensai che i soldati schierati sulla Piazza Rossa erano autorizzati a muoversi durante l’Attenti! solo quando la temperatura raggiungeva i 23 sotto zero. Poi gelarono anche i pensieri. Riparammo tutti nelle scale del sottopassaggio, ma era debole conforto. Il treno non arrivava, d’altronde l’orario lo prevedeva più tardi. Non parlavamo più. Poi infine arrivò, dentro era caldo.
La linea ferroviaria taglia in due la città, ma io scesi alla Südkreuz; in realtà avevo un rendez-vous a Schönefeld, quindi dovevo prendere una metro, forse due. Ovviamente a Berlino treni e metropolitane condividono un’infinità di stazioni, tra cui questa della Croce del Sud: che nome evocativo! Era semplice ma ricca, aveva salvato il passato profumandolo di verità: e di quanto fuoriusciva dai chioschi, dai caffè e da ogni posto che offriva grassi e calorie.
Mi rifocillai e scelsi di prendere la prima cosa che mi portasse a Neukölln, da dove mi era sembrato avessi due chances, se non tre, no, addirittura quattro, per raggiungere l’aeroporto dove ero diretto: ovvero continuare sulla stessa direttrice con la S45, oppure anche con la S46 fino a una delle fermate che questa condivide con la U9 e tutto sommato sempre con la S45, ovvero cambiare lì a Neukölln scendendo alla U7, con la quale arrivare a Rudow e proseguire con l’autobus; infine, eventualmente, ancora rimanendo sulla prima direttrice, tentare di arrivare a Treptower Park e tornare indietro fino a Schönefeld di nuovo con la S9.
Semplice.
Ma pesante di dubbi e gravido di scelte… L’idea era di controllare i display e vedere entro quanto sarebbero arrivati i rispettivi convogli. Sì.
A Neukölln rischiai la morte, nel buio ormai calato che rendeva più intenso il gelo, se mai possibile. Ero rimasto vestito formale. Solo le scarpe erano più rudi, di solito con quelle avevo caldo. Invece adesso i piedi avevano ripreso, e alla grande, a indurire e a far male, sempre di più. Al petto sentivo un morso di ghiaccio che bloccava i polmoni e affaticava il cuore. Trovai un pertugio dove aprire il trolley e infilarmi un secondo paio di calzini di lana. Come se non avessi messo nulla! Allora, per salvarmi, mi misi a fare le scale che portavano dalla strada alle pensiline sopraelevate. Dopo un paio di volte, riuscii a salire la rampa di corsa, alzando alte le ginocchia e battendo i piedi su ogni gradino. Qualche risultato lo ottenni. Lo dico perché ho ancora tutte le dita dei piedi…
Con il cervello attanagliato era anche difficile scegliere la linea giusta. Non so cosa presi, so che arrivai a Schönefeld, forse con un cambio. Dall’uscita della metro all’entrata dell’aeroporto, circa 150 metri coperti. Coperti, ma aperti. Una sorta di portico in lamiera attraverso un piazzale fuori dell’abitato in una sera di dicembre nel mezzo di una circolazione siberiana.
Quando non so come riuscii a entrare nel terminal, credo che fossi in condizioni pietose. Ma fui puntuale all’appuntamento.
Da allora, Berlino fu magia.
E sebbene il freddo si intensificasse, lo sentii meno. Perché da soli si sente più freddo. Sempre.

La magia è una città molto grande ben organizzata che sotto una scorza severa rivela calori e dolori. Il Natale era prossimo. La neve in Alexanderplatz, come da canzone (“Alexanderplatz, auf wiedersehen, c’era la neve…”[1]), candida tra i tigli e le betulle del Tiergarten, ma soprattutto alla stazione della S-Bahn di Ostkreuz: tra pensiline lignee e ponticelli pedonali dal sapore antico ricevetti una sensazione di piacevolezza, nonostante il freddo che configgeva spilli nelle gote. Pensai alla segheria de “I ragazzi della via Pàl”, che non c’entrava assolutamente niente ma che ci posso fare? Quello avevo letto da ragazzo. Ma alla magia non puoi dare confini e lingue. Una signora anziana non ebbe bisogno d’aiuto a scendere la scala innevata nonostante l’affrontasse con le gambe appena coperte da un velo di calze e con delle scarpette più o meno primaverili. Era domenica. Il cielo grigio, eppure protettivo. Friedrichshain appariva bello. Amo questo quartiere, i suoi locali, i suoi negozi, il mercatino domenicale in Boxhagener Platz; i suoi cortili semplici e affettuosi, l’acciottolato di alcune sue strade; i suoi locali con belle vetrate agli angoli delle vie, il pub col maialino rosa nell’insegna; la sua gente giovane e non più memore.
Friedrichshain era Est. Lo capisci perché ci passa il tram, fa una fermata proprio davanti alla Lidl. Aria di casa! A Berlino, mi sento più a casa mia all’est. Ci sono i palazzi tutti uguali, un briciolo di relativa trasandatezza in più si percepisce ancora: ma c’è tanta, tanta più vitalità!
Non che l’ovest non mi piaccia, ma vive come se i traumi non ci fossero stati. Oggi, potendo, Damiel sceglierebbe di cadere all’est. Per esempio, davanti alla zoo, senza ragazzi, sentii freddo sebbene fosse estate. Ma quella volta ero solo. Da soli si sente sempre più freddo. Anche a Ferragosto.
Già. Non mi riesce di vedere Berlino se non in tempi di festa.
Quella volta d’agosto, mi cibavo quasi esclusivamente di wurst, soprattutto bratwurst ma anche alcune ricercate varianti, cotti in enormi pentoloni da dove me li pescavano come pesci rossi al luna-park, nascosti ancora vivi in un pane al quale da solo aggiungevo senape, spremendola dai grossi dispenser senza abusare. Li mangiavo poi ronzando tra la gente intorno ad allegre bancarelle lungo i viali. Questo baraccone dal vago sapore di campagna aveva luogo nel centro dell’Ovest, lungo Kurtfüstendamm e adiacenze. Lì presso c’è il Teatro dell’Occidente, c’è soprattutto, non tanto lontano, il Grande Magazzino dell’Occidente, Kaufhaus des Westens, ovvero il mitico KaDeWe con il suo Wintergärten delle delizie. Pasticciere. All’ultimo piano del palazzo, protetto da vetrate. Ipercalorico momento di obnubilescenza del superego. Appena sotto, direttamente collegato con scale fisse e mobili, l’eden gastronomico generale. Agli altri piani, il meglio del consumismo. Che non mi sembrò il peggio. Una festa.
Ora che possono condividerla anche quelli che prima la circondavano, la festa è ancora più bella.
I problemi li hanno risolti. Forse la Grande Germania fa in effetti un po’ paura, ma la fa soprattutto a chi non sa vederne le debolezze.
A chi non distingue più la terra modellata dal fango ma rattrappita dal gelo. Oggi è un gelo odoroso di magia, e di vin brulé e di kartoffelpuffer e di cani husky e renne a Charlottenburg. Era un gelo e basta per me fintanto che ero fuori di Schönefeld.

Da soli si sente sempre più freddo. In due ci si scalda un po’.



[1]Alexander Platz, di  Franco Battiato, cantata da Milva, Milva e dintorni, 1982.

 

Belgio II

13.12.2013 17:50

Bruxelles

 

Cos’è Bruxelles? Una gran bella piazza e niente intorno.
Quante volte queste parole avevano offeso il sogno personale della capitale dell’utopia europea. Ma c’ero passato, non potevo non convenirne. L’emozione della Grand-Place è enorme, i suoi ori e i suoi ricami restano nelle pieghe del cervello e ne fanno colare lacrime dorate e merlettate quando ricordano la sciatteria intorno. Il Mannekin-Pis è piccolo e fa ridere, nessuno capisce perché sia riportato su tutte le guide. Mi ha deluso di più soltanto la sirenetta a Copenaghen, ma solo per la maggior consistenza di quella all’interno del patrimonio universale dell’immaginario. Ricordavo tralicci di tram, edifici sporchetti e lisci, pavimentazioni stradali irregolari e non per apologia di pavé; ricordavo scorrere via di traffico, né da metropoli né da ordinata cittadina “europea”; ricordavo sì l’Atomium, ma era più basso di quanto immaginassi dalle foto. E poi non c’entrava nulla con la città, isolato lassù verso l’Heysel.
Poi tornai a Bruxelles, avendo già imparato che poteva essere anche Brussel.
Ci tornai già incazzato con i corrispondenti dei TG italiani che la chiamavano Bruxèl, quando invece in francese è eccezione e si pronuncia Brüssèll(e), non discostandosi dunque troppo dall’etimo fiammingo. Dico: ci stai, sentirai o no come la chiamano?
Per meta avevo gli uffici della Commissione dell’Unione Europea: scoprii che erano un intero enorme quartiere. Non però separato ed esclusivo, ma integrato e frammisto di abitazioni, negozi, garage, parchi, chiese: una normale parte della città. Però, certo, tutta l’area che gravita intorno a rue de la Loi, a place Schumann e ad avenue d’Audemberg è il Quartiere Europeo. Lo chiamano così, ormai. È una piccola città apparentemente senz’anima: per averne troppe, forse.
Nei corridoi di quei palazzi si recita una contenuta, infinita finzione: quella dell’integrazione efficiente tra gli europei, in realtà stoltamente divisi, invischiati in stupidi stereotipi nazionalisti, offesi dal crollo dei propri modelli di società, servi della proposta a morale variabile d’oltre oceano. Ed impediti dalla lingua. Fuori, un pastore greco e uno irlandese quando mai si capiranno? Invece lì dentro algide ragazzone finlandesi, bocconiani in completo grigio, tedeschi colorati, olandesine senza treccia ma con lentiggini e andaluse corvine si capiscono perfettamente in inglese. Qualche minimo problema di lingua l’hanno con gli scarsi inglesi, che parlano la loro lingua albionica, ben diversa dall’inglese. L’inglese U.S.A. degli altri europei!
Tanto (fuorviato) anglicismo è anche osteggiato dalla componente francofona e belga in generale, che occupa per lo più i livelli meno alti. Si godono quei buoni stipendi, ma ti fanno capire quale sia per loro l’importanza del Mannekin-Pis. Anch’essi, dentro al cuore, pisciano sopra tutti gli invasori: eserciti o funzionari algidi, bocconiani, colorati e grigi.
Ecco, le troppe anime negli austeri, ma non tristi, palazzi e palazzoni degli uffici europei non hanno nulla a che vedere con Brüssèll(e): caso mai con Bruxèl. Però, mentre Brüssèll(e) ha un’anima, Bruxèl non ce l’ha. Ovvero: ne ha una posticcia, finta. Ma basterebbe poca poca buona volontà per donarle la vita.
Ad ogni modo, la frequentazione di quei corridoi, non proprio ovattati ma quasi, dove gli impiegati se ne stanno chiusi nelle loro stanze dalle pareti metalliche a farsi scandire il tempo dal sistema Adonis sul PC, mi fece amare più della prima – fugace – volta Bruxelles. In fin dei conti, non è che sia una mega-città, punti memorabili non tantissimi, però vicoli carini, straboccanti ristoranti di pesce o “boutiques di antiquariato” (a seconda che si tratti della zona tra la Montagne e la Monnaie o del Sablon), ne vidi. Scoprii il fermento di Ixelles, che mi sembrò (chissà) imperniato sulla cinefilia. Intuii, più che altro, la ricchezza di Anderlecht divenuta pullulante di mercati etnici: ma è sbagliato chiamarli così, poiché nascono per servire le varie comunità che lì vivono e non per scopi “etnici”.
Girovagai Bruxelles extra europea per la maggior parte nel tempo tra la fine degli impegni in Commissione e l’ora di cena, da solo. Compagni il vento e la pioggia. Non forti, ma insistenti. Aspri.
Pranzo, cena e dopo cena si felicitarono della compagnia di Stefania, stagista contattata già prima di partire, tramite amicizie, per farmi consigliare un albergo. All’una si mangiava in qualche mensa dell’UE, dove entravo con fare indifferente senza averne diritto.
La prima volta che andammo a pranzo, lei si sorprese. Mi aveva conosciuto la sera prima, fuori della stazione centrale, e i reciproci vestiti non erano intonati. Stefania, uscita appena da lavoro, vestita da Bruxelles europea, io da Bruxelles e basta, con un tocco di scarpe da far invidia a un americano: nella foggia, non nel gusto cromatico che invece era intonatissimo.
Aveva vinto un po’ di ritrosia, proposto un ristorante arabo. Perfetto, anche se era per non arabi. Avevamo rotto il ghiaccio surriscaldandolo con i vapori
di un buon cous-cous vegetale,
di un tè alla menta ferale.
Dopo discorsi standard come scadenti ottonari baciati, la serata si era chiusa presto perché eravamo in metropolitana, e poi il giorno dopo si lavorava.
Così, quando l’indomani l’attesi all’ingresso della Direction Générale Enterprises, non si aspettava di trovarmi più eurobruxelles di lei. Era contenta; io, in fondo, non troppo.
La conversazione urtava gli spigoli del formalismo, ma mi fu utile per cominciare a capire qualcosa di che ci fosse dentro quell’atmosfera un po’ ovattata un po’ zittita, però con un indiscutibile – ormai lo avvertivo – sottofondo: un retrogusto gaudente.
Questo era dovuto ai soldi, che piovono sui dipendenti UE come il cielo, si gris qu’un canal s’est perdu, si bas qu’un canal s’est pendu, sul plat pays. Jacques Brel (con modifiche).
Nel suo ambiente (lei era midollarmente eurobruxelles), nonostante il formale di fondo – ma io lo fui più ancora di lei! –, Stefania si sciolse a poco a poco.
In genere, le persone muovono i primi passi verso l’intesa tra loro parlando male di altre. Così fu. Vittima: la capo segreteria (“…babbiona!”) del suo Direttore Generale, un’italiana che avrei dovuto conoscere nel pomeriggio. Di lì, iniziò un’esplorazione del ventre della balena eurobruxelles, condotta di pasto in pasto, da pranzo a cena, da mensa a ristorante. Condimento delle pietanze erano osservazioni e pettegolezzi, critiche e descrizioni di personaggi.
Questo ambiente mi affascinava, tanto più quanto continuava a sfuggirmi. In fin dei conti, era un usuale insieme iperburocratico; e avevo conoscenza del settore. Però qualcosa sfocato rimaneva e non erano soltanto le conseguenze della retribuzione, che pure creavano quello stato di complice soddisfazione, evidente in ogni approccio. No, era altro in più.
Dunque, continuavo a porre domande a Stefania, che mi rispondeva, e da una visuale abbastanza distante dalla mia. Dunque, ciò avrebbe dovuto pormi in condizione di far luce, eppure niente. Capivo le ombre, ma non quale tenda aprire per illuminare il quadro. Se accendevo fari, era come in troppe mostre: la superficie della tela si irradiava di luce impedendo definitivamente la vista. Hai voglia a scansarti, a inchinarti, ad alzarti sulle punte: addio, immagine!
Così, quindi, era per me, seduto dietro ai tavoli riflettenti delle mense o a quelli assorbenti dei ristoranti. Mancava la sorgente, giusta per calore, intensità, direzione.
Conoscere e scoprire Bruxelles [Brüssèll(e)], intanto, tra occaso e vespero fu una bella azione dell’animo. Ritornai certo sulla mia ex Grand-Place, ormai anche Grote Markt, e tutto il resto, ma colsi un vago profumo di vita particolare in un incrocio d’un quartiere in Etterbeek, l’unità amministrativa a est di Bruxelles centro entro la quale ricade tutto il Quartiere Europeo, ai margini del quale è appunto la zona che dico, a meridione del Parco del Cinquantenario. Tranquillità un pizzico eccessiva, casette in mattoni: un incrocio a sei strade immenso, fuori dimensione con gli edifici, bassi, tutt’intorno. Pulizia, ordine, una macchina ogni quarto d’ora. Una calma sgomenta, emblema ossimorico di un belgio bifronte, ancor più di quell’isola per molti versi alloglotta che è Bruxelles. Una sensazione da arte metafisica, o magrittianamente surrealista: da definire dunque metarealista. René, suggeriscimi un titolo!
Non lo trovai io, lo cerco tuttora. Capita che occorra una definizione, alla nostra mente classificatoria, per sapere di aver compreso: capitò a me, in quell’ampio incrocio, aperto a ogni luce, quando ci fosse, a Bruxelles [Brüssèll(e)].
Smarrito nei miei crepuscoli, avevo perso di vista anche il problema di catalogare gli eurobruxelles. Probabilmente avevo troppo in mente le amministrazioni pubbliche italiane, con i loro mali. Lassismo, arroganza, demotivazione, sopravvivenza mediante sotterfugi. Da un lato. Dall’altro, sottoretribuzione, premio agli incapaci, ingerenza partitica e sindacale, impossibilità di far carriera reale. E ancora: lacci, forche caudine, controlli. Varchi elettronici, badges (chiamati anche budgets…), firme a ripetizione, moduli e contromoduli.
Continuavo a frequentare Stefania e, di conseguenza, a controllare i suoi orari, che erano giustamente adeguati al suo stipendio. Domandavo sempre, ma senza mai focalizzare, oppure non sapendo calcolare la profondità di campo.
Passavo ogni giorno parecchi minuti nella hall all’ingresso della sua DG Enterprises, essendo lei costretta al rispetto dell’orario o comunque a terminare il lavoro che stava facendo. Vedevo uscire e rientrare impiegati con il loro cartellino sobriamente appeso. Tanti non avevano la giacca, dunque alla fin fine non c’era poi un formalismo eccessivamente rigido. D’altronde ne avevo incontrati parecchi, vestiti un po’ casual.
Mentre attendevo quei pochi minuti, ogni volta ricordavo gli avvenimenti della mia giornata negli uffici UE. Come quel dirigente con il quale un suo collega mi aveva fissato un appuntamento alle 10:15. Io, lui, non l’avevo mai incontrato, né ci avevo parlato per telefono. Semplicemente, il mio primo interlocutore aveva chiamato la segretaria dell’altro, dopodiché aveva digitato sul sistema informativo interno l’appuntamento. Ora, stavo là nella segreteria di questo dirigente a fraternizzare con la segretaria (credo fosse austriaca). Si avvicinavano le fatidiche 10:15 e la porta del capo rimaneva ovviamente chiusa. Ero molto scettico che il tipo mi ricevesse. Di tanto in tanto guardavo l’interfono aspettando, o sperando, che suonasse. L’ora era scoccata, e niente. Non mi preoccupavo: se m’avesse ricevuto per le 11:00, già mi sarei ritenuto fortunato.
Alle 10:17, un uomo costernato apparve da quella porta.
Cercò le parole più formalmente pesanti per scusarsi di avermi fatto attendere. Mi venne incontro, mentre ancora non m’ero alzato completamente, e mi strinse la mano. Mi aiutò a togliere il cappotto e lo ripose su un appendiabiti. Quindi, invitò ad accomodarmi e, vedendo che mi dirigevo verso le poltroncine davanti alla sua scrivania, mi richiamò per indicarmi di sedere nel salottino, dove sedette anch’egli, di fianco a me. Poi mi ascoltò senza mostrare di pensare ad altro. Sul monitor gli era apparso il mio appuntamento, a me doveva dedicarsi.
Questo ricordavo. Poi giunse Stefania. Via verso un’altra mensa.
Tra un insalata e un dolce ipercalorico, parlammo della giornata e dei piani del mio rientro, ormai prossimo. Una goccia dell’eccellente cacao belga fece per caderle addosso. Stefania si scostò bruscamente e riuscì a evitare di sporcarsi il tailleurino avana ratto. Le cadde il cartellino che vi teneva appeso. Lo raccolsi.
In quell’azione, mi resi conto che era appunto un cartellino e non un badge magnetico, come quelli che costringevano i burocrati italiani. Si affacciò una domanda, molto più oziosa di altre poste nei giorni precedenti.
“Ma per entrare e uscire non timbrate?”
“Timbrare cosa?”
“Il cartellino. Non avete qualcosa per registrare le presenze?”
“No, non c’è niente.”
“Ma non so, una scheda…”
“Quale scheda?”
“E come fate per controllare gli orari? Allora, magari, uno può arrivare tranquillamente in ritardo e uscire prima…”
“Ma qui c’è un’alta professionalità!”, tagliò corto Stefania, stupita che volessi capire Magritte senza conoscere Piero della Francesca e Mantegna.
Già! Era questo il dato di partenza che non consideravo e che mi escludeva dalla comprensione: qui c’era un’alta professionalità. Era questa l’essenza intima alla quale non ero avvezzo, uso piuttosto alla farragine italica, dimentica dei maestri. Perché Eurobruxelles sarà pure un mastodonte, sì: ma ad alta professionalità!

Belgio I

09.12.2013 15:31

Anversa

 

Se solo mi ricordassi!
Sono anni e anni che tento di far riaffiorare alla memoria quell’informazione immagazzinata velocemente da qualche parte del cervello mentre giravo una curva non lontano dal porto. Anni che tento di trovarla di nuovo da qualche parte, senza esito.
Potrei descrivere la fotografia incompleta che accompagna il ricordo di quella visione fuggevole. L’incrocio, le persone sui marciapiedi e sotto le tende dei caffè, quegli scuri palazzi commerciali, la luce del sole proveniente da sinistra, le automobili ferme o che attraversano, le vetrine dei negozi sulla via dalla quale provengo e poi: biciclette, pedoni in strada, un camion che scarica. Un flash. Manca solamente quel particolare.
Sono ritornato in Belgio, ma non più ad Anversa. Comunque, ora so che non dovrei cercare Anvers ma Antwerpen. Quella volta lì, non lo sapevo. Quando lo scoprii, mi spaventò anche un po’. La durezza della pronuncia di quel nome sembrava austero paradigma dell’abbandono del mondo latino. E il germanico, di cui Anversa è stata baluardo di frontiera (al di là dello Schelda è Fiandra, terra fuori dell’Impero) appariva un universo arcigno, freddo, di uomini-macchina sopravviventi nel buio dell’acciaio e del carbone, triste ai limiti dello sconforto.
Non fu così. Era estate. Il sole, alquanto caldo, colorava il fiume e le navi attraccate, tra le linee delle quali si insinuavano barche a remi e a vela. Non mancavano certo i gabbiani a volteggiare sopra: apparivano allegri, le loro grida quasi meno angoscianti del solito. Il castello dello Steen impavesato. Altri colori sui palazzi antistanti. Inoltrandosi nelle vie del centro, la città rideva ancora. Erano insegne, fiori, bandiere: l’ossessione, bella, per le bandiere dei popoli verso il nord dell’Europa! Erano facciate di palazzi cinquecenteschi, erano statue dorate, erano i visi delle persone aperti dalla stagione della luce.
Ero io che, convinto fulmineamente dell’idiozia degli stereotipi, avanzavo nello sconosciuto senza timori, piuttosto invece con l’ansia della scoperta. Non guardavo, nemmeno. Mi lasciavo permeare. Non cercavo nessuna meta, incedevo attratto dalle continue, piccole rivelazioni. Capivo pian piano che davvero non era Anvers: ma era proprio Antwerpen, proprio germanica, eppure bella, aperta, giocosa. Appariva falso quello che da qualche parte avevo letto: che gli abitanti sarebbero stati piuttosto agitati, focosi, quasi a volersi sentire discendenti diretti del mitico Brabo, nipote di Giulio Cesare che mozzò la mano al gigante Druon Antigon, liberando la città da quel terribile, a sua volta, mozzatore di mani e che diede poi nome a tutta la provincia del Brabante.
Ma allora la germanica Antwerpen si crogiolava delle proprie, storiche, ascendenze romane! Sulla Grote-Markt, un bronzeo Brabo trionfeggiava, anche un po’ macabramente, sul gigante sconfitto e mutilato: credo a morte.
Non fu per questo, però, che ad un certo punto, incrociato un gentile signore biondo con leggeri occhiali metallici, fermatolo con un sorriso e un discreto gesto del braccio, avuto da lui ricambiato il sorriso e il saluto, sia pur incomprensibile, gli chiesi in qualche modo se quella fosse la piazza principale di Anvers. Chiuse il sorriso, strinse gli occhi che scomparirono dietro la montatura, sibilò poche parole dure e filò. Rimasi basito e infastidito: più verso me stesso che verso di lui. Avevo sbagliato qualcosa nell’imbroglio di lingue non ancora dominate con il quale mi ero rivolto a lui, magari ero stato addirittura villano oppure aveva creduto che lo stessi portando in giro.
Mah!
Giunsi nella zona de het steentje, la pietruzza. Non seppi vederne molte in giro, di pietruzze. Non mi interessavano, ero troppo impegnato a guardare, a incamerare immagini e sensazioni, a respirare un clima diverso. Ogni tanto, dentro qualche portone, strani tipi vestiti di nero con il cappello pure nero dalla tesa rigida e circolare, la barba lunga, spesso occhialini. Molti meno colori qui. Mi allontanavo dal centro, tornai indietro. La pietruzza è il diamante.
Si fece sera. A pranzo, avevo gustato una mezza baguette riempita di ogni ben di Dio, ma la gioventù e il lungo vagare mi avevano presto fatto tornare la fame. Il sole s’era già nascosto quando mi decisi a entrare in un negozietto all’angolo di una via pedonale. Vendeva sacchetti di patatine fritte a bastoncino. Ne acquistai uno. Il venditore, che mi era apparso ridicolo con il suo grembiulino a righe rosse e il cappellino da fornaio, pure a righe, calato sulla fronte, mi chiese qualcosa tenendo entrambe le mani appoggiate sul coperchio di un bidoncino che troneggiava sopra il bancone. Gli feci ripetere.
Mayonnaise?”, capii stavolta.
Fui molto sorpreso. La maionese sulle patatine? Durante la mia esitazione, quello insistette.
Mayonnaise, ja?
Altri avventori aspettavano in fila dietro di me.
“Sì, ja. Ja, sì, sì”.
Spremette un chilo di maionese dentro il sacchetto. Aggrottai il naso. Uscii, rimproverandomi per come mi lasciassi sempre vincere dall’agitazione e pensando di aver sprecato i soldi. Ma avevo fame davvero. Mi feci coraggio, pescai nella melma e portai alla bocca un bastoncino giallo croccante completamente insozzato di crema biancastra. Chiusi gli occhi e lo masticai.
Era divino! Fu questa la prima scoperta culinaria – non raffinata, certo, però eccellente – che mi concesse Anversa. Nacque un amore. Purtroppo, la maggioranza degli italiani si ostina a versare sulle patate solo senape o ketch-up. Quando, ai pochi che ne posseggono, chiedo le bustine di maionese, vengo guardato come un ufo. Comunque, Anversa mi riservava, di lì a poco, altre sorprese.
Il buio era ormai calato e mi trovavo di nuovo al centro della città. Vedevo l’alta guglia della Cattedrale vicinissima. Improvvisamente, l’attenzione mi fu richiamata da una confusione e un vociare più latini che germanici. Parecchie lucette gialle disegnavano sgraziati arabeschi sulla quinta della strada, appunto giù verso la Cattedrale. Persi qualche attimo e alcuni passi prima di decifrare di cosa si trattasse. Bancarelle! Tante, affollate su due file contrapposte ai lati della strada; la quale curvava e, dunque, a causa dello schiacciamento prospettico, le corone di luci buttate sui tralicci e sulle tende di ciascun banco sembravano riempire tutto il fondo dello scorcio che si apriva da dove ero io. Mi avvicinai a grandi passi.
In quella sera del 15 agosto, come un qualsiasi paesotto, Anversa, la dura Antwerpen dei diamanti, la città che era stata il centro motore della cartografia con Mercator e altri, che ereditava i frutti stampati dalla grandiosa Officina Plantiniana, che aveva ospitato Rubens e tanti maestri, questa città che non voleva essere Anvers, festeggiava l’estate con una sagra. Semplice, gioiosa, colorata, chiassosa. Venditori e venditrici, dietro i tavoli coperti di mercanzie, vestivano antichi costumi tradizionali: gli uomini ostentavano ardite fusciacche, le donne le cuffie per i capelli. Si vendeva di tutto, ma prodotti usuali, nulla di esotico o di insolito. Molti offrivano roba da mangiare. E fra queste ‘usuali’ cose da mangiare era compresa l’altra grande, stupida e banale rivelazione che mi aspettava ad Anversa, prima città entro i confini dell’Impero da me incontrata.
C’era una bancarella che non so più che vendesse, con una affabile signora vestita di azzurro, dal grembiule marrone e la cuffia bianca dove indugiai, chissà perché, un momento in più. Appena mi sganciai da lì, rigirandomi verso il canale dove gli anversesi (anversani?) fiumavano semplicemente contenti di stare in strada, senza pretendere nulla di più sofisticato di quella allegra festa, mi ritrovai una cosa davanti alla bocca. Era qualcosa di scuro, porta da un tipo con in testa un cappellaccio nero, il quale s’era messo dalla stessa parte della gente appunto per invitare così brutalmente a consumare il suo prodotto.
Tirai un po’ indietro la testa per poter mettere a fuoco. Che cos’era? Sì, ora avevo riconosciuto, però ugualmente non capivo. Ebbene, la forma era senza dubbio quella di una valva di cozza recante il mollusco, ma le dimensioni, no, non erano di una cozza. Che fosse di plastica? Temendo magari lo scherzo ai danni del forestiero, feci per ritrarmi, ma il venditore, quasi offeso, continuò nel gesto, il braccio ormai completamente aperto. Sbirciai davanti a me: un suo collega non faceva in tempo a prendere i mitili dal bancone e aprirli che gli avventori quasi glieli toglievano dalle mani; poi raccoglievano spicchi di limone da una bacinella posta a metà tra i due uomini in costume, ne spremevano il succo sopra il rudimentale vassoietto nero della valva stessa e succhiavano compiaciuti l’animaletto, chiudendo gli occhi come in un’estasi gastronomica.
Non conoscevo ancora bene Parigi e i suoi bars à huîtres, per esempio, quindi mi perplessi un tantino. Tanto più che le gigantesche cozze erano conservate dentro catini pieni d’acqua dai quali un terzo uomo, all’interno, le levava man mano, passandole sulle cassettine dell’esposizione, dove sgocciolavano: e quindi dovevano essere vive! Da buon figlio cittadino del boom economico, già cresciuto nell’era degli omogeneizzati e dei prodotti confezionati, tanto gusto selvaggio mi spaventava; e poi era enorme, e poi era una cozza, che portava il colera, e figurarsi: viva! Però era qualche ora che stavo scoprendo novità, prima fra tutte che stavo ad Antwerpen e non ad Anvers; e poi tutte quelle persone davanti a me non dovevano mica essere idiote, e poi...
Trangugiai il mollusco che, per pietà, il venditore stesso aveva irrorato di limone. Fu questo, debordante, il primo sapore che sentii, infatti. Quindi il pepe, che non sapevo essere stato aggiunto. Ma infine, il sapore del povero animale che, pace all’anima sua, davvero era squisito. Chiusi anch’io gli occhi, istintivamente, per meglio godere di quel doppio piacere: della cozza e della scoperta. Avevo scoperto le cozze dell’Atlantico. Anche di quelle, sarei diventato uno dei maggiori potenziali apprezzatori.
Le accompagnai a una dolce birra, calda nella sua freschezza, pastosa, dalla schiuma corposa e profumata, con il sottile sapore amarognolo del luppolo che si insinuava sotto il manto del gusto dell’orzo come il calore che consegue a un abbraccio. Era tuttavia una birra commerciale, che in quella sagra paesana di città gonfiava stomaci su stomaci senza posa, inesauribile come gli oceani lontani e vicini che ora, con il movimento di marea, facevano fremere lievemente l’acqua dello Schelda. Ugualmente fremevo io, mentre sorseggiandola mi riconduceva al palato i sapori opposti, ma uniti nella gioia personale, della patate fritte con la maionese e delle superbe cozze dell’Atlantico.
Perché quella birra, il cui marchio riconobbi all’istante, avendolo già incontrato praticamente in ogni caffé e ristorante, rappresentava l’emblema mio personale di quella città, la più settentrionale delle Province del Sud, rimasta con loro cattolicamente spagnola ma pur sempre animata da mille Brabo, dunque spavaldamente neerlandese.
Perché il nome di quella birra rimandava alla Francia, a una provincia settentrionale della madre franca. Stella Artois. Ma in quella città che non voleva essere Anvers io, a un incrocio non lontano dal porto popolato da gente sui marciapiedi colorati di tende e in strada, mentre passavano automobili e biciclette specchiandosi nelle vetrine e un camion scaricava; in quell’incrocio di Antwerpen avevo scorto, in cima a uno scuro palazzo, baciata dal sole proveniente da sinistra, un insegna luminosa con il marchio della Stella e poi il nome: ma con la traduzione in neerlandese del nome della provincia di Artois. Quel tanto ricercato nome sta ad Artois come Antwerpen sta ad Anvers: nell’inusitata traduzione risiedeva il mirato destino di una città. Mai più, in nessun altro posto, avrei ritrovato tanto osare come quello di tradurre un logo commerciale stranoto.
Purtroppo è proprio quel nome l’unico particolare a sfuggirmi, nella fotografia che è la mia folgorante memoria-chiave di Anversa – Antwerpen.
Se solo lo ricordassi!

Little Ferry, NJ

30.11.2013 19:12

Concimano quei prati verdi a spanne di chimica e l’erba compatta rivela splendori di tonalità sintetiche. Steccati gentili alla vista e duri al tatto si chiudono, cloisonnés di smeraldi artificiali, oasi o fortini: a scelta. Stradine linde e ovattate serpeggiano in mezzo. Piccole, o grandi, esperienze di vita si richiudono insieme ai sorrisi che accompagnano i cancelli, non appena serrati.
Una bambina sui dieci anni corre su un prato di quelli, eletto orizzonte di gioco. Appare senza pensieri, come l’età illude. Si dimena, ride: fa il cucciolo nella tana. Fuori, oltre la recinzione, sono lasciati gli altri.
Perché è dolore ogni entrare. Dentro piccole storie di esistenza, grandi negli attimi eterni in cui arricchiscono di vita i sentimenti di chi dovesse per una volta vivere dall’interno l’irrigidirsi subitaneo delle labbra all’unisono col clack dei battenti…

La signora Iolanda fu dolcemente perentoria: all’indomani, l’invito a cena era un obbligo da cui non si poteva scappare. “Venite, che vi preparo uno pranzo bello, u know. Facciammo – come si dice? – barbecchiù, come si dice? Eh, dovete venire, stiamo insieme, voi, noi due e ‘a ragazzina, u know, ‘a figlia de Micheal.” Restammo d’accordo che ci saremmo sentiti la mattina, per accordarci sui dettagli.
Così, verso le dieci, con già tutta la giornata programmata, le telefonammo. Non io, che udii la conversazione da una parte sola, quindi.
“...alle cinque...”
Gulp! Lasciai cadere tutto quello che stavo facendo e balzai verso l’apparecchio telefonico: “Noo, più tardi, più tardi!”
Sapevo che negli States mangiano presto: a Orlando, dentro Epcot Center, c’è la ricostruzione disneyana di un pezzo d’Italia, con tanto di bravo ristorante San Marco. Una volta, alle 9 di sera, un cameriere – italianissimo, parlava con accento lombardo, ma dipendente del parco – non fece entrare perché stavano chiudendo; e a nulla valsero le mie osservazioni che, se il ristorante, come tutto il contesto, voleva riprodurre l’Italia, allora, pur servendo cibi plastificati alla Disney, avrebbero dovuto osservare abitudini e orari italiani. Lo sapevo, dunque, ma pensavo che le 7:00 p.m. fossero già un compromesso a loro totale favore. In fondo, anch’io ho preso abitudini poco italiche; mangio poco a mezzogiorno, dunque la sera mi viene fame presto. Ma alle cinque, no.
“...O.K., allora alle cinque e mezza...”
“No, alle sette, alle sette!”
Niente da fare, la signora Iolanda era tanto brava – veramente – ma, sebbene fosse italiana nata in Italia e sposata con un italiano nato in Italia, avendo i figli americani doveva essere ed era, ormai, più americana degli americani. Invito a cena strappato alle cinque e trenta: caspita!
Gli aspetti del problema erano due: primo, fare tutto quello che c’era da fare a Manhattan in tempo per essere a casa della signora Iolanda per le cinque e trenta; secondo, farsi venire fame a quell’ora da thè. Ragionando, questo secondo lato era meno preoccupante e rientrava, come detto, abbastanza nelle mie abitudini: si trattava di forzarle un po’. Avendo consumato una buona prima colazione, si poteva resistere con un panino; in fin dei conti loro, gli americani, fanno così. E poi, era evidente, l’invito alle cinque e trenta era stato fatto per dare tempo di scambiare due chiacchiere, visitare la casa, bere un aperitivo: le solite cose.
Il panino, a Manhattan, non avevo ancora trovato il tempo di spararmelo in vena. Ci eravamo dati appuntamento in albergo, che stava già a Secaucus, cioè dall’altra parte del budello del Lincoln Tunnel, oltre l’Hudson, nel New Jersey. Da lì, con la macchina, Little Ferry distava pochi minuti.
Feci tardi, ovviamente. Per fortuna non ero lontano dal Port Authority Bus Terminal, sull’8th avenue, tra 40th e 42nd street, da dove partiva l’autobus da prendere.
Mi misi a correre, ma all’angolo del Bryant Park, davanti l’uscita della metro, c’era il carretto degli hot dogs: era già pomeriggio, la fame non tiene conto né della fretta né dei programmi né, tantomeno, degli appuntamenti o degli autobus che partono. Ancora correndo, raccattai gli spicci in tasca e stavo per chiedere lo hot dog, quando decisi, con una botta di genio, di prendere qualcosa che mi avrebbe impedito di perdere tempo tra le solite richieste, se volevo senape, ketch up or what else. Chiesi un frankfurter che, con buona pace della città assiana, era veramente schifoso.
Sarà che lo buttai giù in fretta camminando velocemente, ma mi rimase sullo stomaco, senza muoversi. Forse agghiacciato, anche lui, dalla vista del P.A.B.T., l’enorme palazzone-capolinea dove gli autobus salgono ai vari piani. A seconda di quale bus devi prendere, devi salire a un certo piano; per ogni piano partiranno una decina di linee. Ogni cosa si svolge al coperto. Un ventre degli States, una viscera efficente ma dura: dura come le sue porte. Dentro questo mastodonte, dove le proporzioni sono inusuali, tutto è pensato in grande; rampe e scale mobili giocano a intersecarsi, in spregio all’estetica ma in perfetto servigio alla funzionalità; ci sono negozi, bar (qualcosa di simile), chioschi di fiorai, riparatori di scarpe, venditori di hot dogs e di cookies; c’è persino uno che, mentre aspetti che il bus parta, ti ricama il nome o quello che vuoi sul tuo berretto yankee. Tutto è enorme: tutto, tranne le porte che dalle sale d’attesa portano ai marciapiedi dove gli autobus si accostano sbuffando veleno. Sono piccole e pesantissime. Ho visto la tipica donna americana, bianca o nera che fosse, ma cicciona, combattere un corpo a corpo con la porta per riuscire ad aprirla: ché ha pure la molla – durissima – per la richiusura automatica, ed era una lotta strenua, in quanto nemmeno si apre a spingere, ma a tirare; e poi per passare, con le chiappone, le borse, i pacchi e i pacchetti. E nessuno che la aiutasse. La lasciavano lì – pazienti sulla pelle ma irritati negli organi – in attesa che terminasse la sua quotidiana angoscia personale. Scena emblematica.
Insomma, arrivai all’albergo in tempo, riuscii a farmi anche una parvenza di doccia, e via, verso i verdi giardini dei suburbs! Perché Little Ferry, NJ, è un vero, autentico, suburb. Uno dei famigerati suburbs, essenza profonda dell’America di fine millennio. Dove una signora Iolanda, italiana nata in Italia e sposata con un italiano nato in Italia, ti invitava a casa per cena alle cinque e mezza...
...alle cinque e trentacinque, pronto in tavola!
Il marito, Michele, ma ormai Micheal, manco a dirlo aveva una camicia floreale sbottonata e il cap in testa, i bermuda, i calzini bianchi! e le scarpe di tela. Però, apparendo sornione dietro gli occhiali fumés antiestetici ma pratici, risultava simpatico pure lui. Nulla salvò la compagnia dalla gongolante soddisfazione con la quale mostrò il nuovo barbecue. Non si pensi a un accrocco, pur grande, ma mobile, atto a essere portato in campagna la domenica. No: si trattava di un sistema saldamente ancorato a una base di cemento affogata nel terreno, alla quale tramite condotti sotterranei affluiva il gas che andava ad alimentare le fiammelle ad accensione elettronica, poste immediatamente sotto il braciere vero e proprio, dove un po’ di carbonella bistrattata non serviva, a quel punto, che a diffondere l’odore-barbecue tipico dei giardini dei suburbs.
Fu in quell’occasione, peraltro, che scoprii una cosa che magari avrei dovuto scoprire prima. Quelle belle casettine di legno, tutte allineate al centro dei loro giardinetti, che abbiamo visto in tantissimi films di Hollywood, dove vivono o famigliole felici o truculenti psicopatici (anzi, tutti e due; se no, con chi si divertono gli psicopatici?); ecco, quelle casettine con la porticina per il gatto e, talvolta, con le stars & stripes piantate nel giardino, ebbene, non sono di legno! Sono in alluminio, sagomato da sembrare legno. Durano assai più a lungo e si salvano molti alberi: ma addio poesia.
Dunque, alle cinque e trentacinque post meridiem la signora Iolanda ci servì, ancora tra le patatine e altre impacchettate gentilezze hors-d’-œuvre variés, belle lasagnone tratte dalla scatola “Italian food specialities: today Lasagnie” (proprio così, con la i). In verità erano anche mangiabili, perché ci aveva aggiunto, in un sussulto di amor proprio italico-cuciniero dettato dalla italianità dei suoi ospiti, un ragou (all’americana: né ragù né ragout) che non era malaccio; comprato anch’esso all’ipermercato.
Intanto Michele-Micheal si scatenava sul B-B-Q. Generò la bisteccona che ti aspetti in America: eccezionale, in Europa non abbiamo proprio idea, con buona pace della fiorentina. Riesce sempre a scatenare appetiti atavici: la si mangia con soddisfazione, rigorosamente – se i commensali lo permettono (se non lo permettono sono infami) – con le mani, lasciando scorrere rigagnoli di succo e olio cotto ai lati della bocca, facendo tornare ad antiche attitudini canini e incisivi, esercitandoli a mordere, strappare, rosicchiare l’osso.
Prima di far figuracce, espressi questi concetti, nel convincimento che sarebbe seguito un generale impugnare le bistecche per l’osso. Eravamo in giardino, su tavoli di plastica coperti di plastica, senza tovaglia (che c’è raramente in America: lo apprezzo), con piatti e bicchieri di plastica, tovaglioli di carta, con vestiti non casual, bensì appositamente studiati per offendere il buon gusto. Nothing. La padrona di casa annuì leggermente svagata, ma proseguì con coltello e forchetta.
Apprezzo molto la forma e la compostezza, e se insistetti tanto sul fatto di mangiare quelle bistecche con le mani era per un coacervo di motivi, tra cui la voglia di rompere uno schema rigido che mi costringeva a cenare alle cinque e trentacinque; forse il riaffiorare, lontano da casa e dagli ambienti noti, di uno spirito fanciullesco che veniva aiutato dagli usi diversi; e, effettivamente, il desiderio primitivo di gustare selvaggiamente quel magnifico pezzo di carne.
Mi rivolsi verso Michele-Micheal, cercando complicità negli spicci modi dei maschi americani, che hanno aperto passaggi a nord-ovest, hanno attraversato deserti, hanno incallito il sedere cavalcando selle per giorni e giorni.
Ebbi l’impressione che stesse con la testa in qualche torrente a pescare. Gli avevo agganciato contro uno sguardo di colla, per esortarlo a scoprirsi. Farfugliò qualcosa, con la sua voce pacata e lenta. Era nato a Roma, ma come la moglie parlava l’italiano di America, che ha sempre l’accento napoletano.
Uscii allo scoperto: “Eh, queste bistecche andrebbero mangiate con le mani...”
“Co’ ‘e mmane? Mia moglie cosa dicere?” replicò pilatescamente a bassa voce, masticando con determinazione e fingendo un sorrisino. Ma non aveva intenzione di coinvolgere la moglie, quel “dicere” va tradotto con “direbbe”.
Ormai m’ero lanciato: “Non vi capita mai di farlo? Eh, magari quando siete con i nipotini, tutti a prendere dal barbecue con le mani...”
Lo dissi guardando entrambi i coniugi. La signora Iolanda stava per rispondere quando lui le fece un gesto impercettibile e, dopo un tempo interminabile (circa un secondo e mezzo) fece piombare sulla scena un sonoro, profondo, definitivo: “No!”
Era impressionante questo no. La voce era cambiata, da torbida e tenue era divenuta baritonale e potente, e però sembrava venire come da molto indietro. Più avanti nella conversazione, ebbi modo di ascoltare altri ‘no’ di Michele-Micheal. Era sempre lo stesso schema che si ripeteva. Non interveniva quasi mai nella discussione, anche se interrogato se la cavava con monosillabi e quando te l’eri ormai dimenticato, ecco che su un argomento focale bruciava sul tempo la moglie, facendo giungere quel suo ‘no’ possente ma non urlato, perentorio seppure non arrogante.
Bene: la bistecca, con coltello e forchetta. Tagliai anche il piatto di plastica, ovviamente.
Intanto, Michele-Micheal s’era riapprossimato al monumento a gas e ben presto giunse altro odore di roba carnosa che lasciava cadere grasso sciolto sugli sterili discendenti dei carboni di fuochi all’addiaccio nelle grandi praterie dell’Ovest. Alla fine, il nostro si girò con un carico di cosce di super-tacchino. Erano gigantesche, mai visto niente di simile.
Chiesi: “Cosa sono?”
“Gallina.” rispose la signora Iolanda.
“Gallina? Così grande? Ma... forse, tacchino?”
“Gallina. Chicken, u know.”
“Ah! Ma allora... Da dove viene? È una gallina particolare, di una zona specifica?”
“Comme?”
“No, dico: è una qualità speciale di gallina? Così grande!”
“No speciale: gallina, u know. Chicken.”
“Pensavo fosse una razza particolare, è tanto grande...”
“No.”, tonitruò Michele-Micheal; punto, e il discorso fu chiuso.
Un aspetto che sto tralasciando è quello delle bevande. Avevamo portato del vino – italiano, ma acquistato due miglia prima. Fu esaminato con cura, poi: “Lo beviamo”, sentenziò il capo del B-B-Q. A tavola, scoprimmo che loro due il vino, chi per astemia chi perché reduce da svariati by-pass, non lo prendevano: così fummo noi ospiti a scolarcelo, e loro ci chiedevano: “Comm’è? È buono?”. Però, manco a dirlo, insistevano perché bevessimo la birra.
“Micheal, vai e piglia ‘a birra.”
“Uh!”
Micheal, they wanna have beer, u know... Va’ a piglia’ ‘a birra!”
Andò. Tornò con la birra. In lattina.
Io ritengo che la birra in lattina sia da distruggere. Prende d’alluminio. Assume un sapore sintetico. Si esacerba e viene fuori contratta, spigolosa, abbacinata. Gli americani bevono birre schifose, va detto. E il berle, spesso, in lattina accentua la loro schifosità. Forse solo alcune birre italiane e molte spagnole sono peggiori (il Sud America è colonia statunitense anche nella birra). Ormai stritolato dalla italo-americanità, soccombetti. Raggiungendo lo stomaco, il surrogato della birra penetrò nei resti del frankfurter di Bryant Park e li espanse mostruosamente, provocando un blocco terribile che, in breve, sembrò andare dalla gola al colon.
Ero in pieno panico. Proprio in quel momento erano arrivate due bacinelle d’insalata. Una stava per essere posta davanti a me. Posi con gentilezza la mano davanti per fermare e poi la volsi come a dire “No grazie, io non ne prendo, inizi pure a servirla da qui accanto.”
“Questa è tua”, precisò la signora Iolanda.
Dio mio!
Fui fortunato con la frutta, che peraltro stimai di dimensioni e quantità uguali come da noi. Riuscii a non toccarne. A quel punto, avrei gradito non il caffè, che infatti fui capace di evitare, essendo peraltro diversi il concetto e l’uso del caffé, laggiù, ma un bel bicchierino di amaro digestivo. Non osavo però chiederne.
Ma il discorso fu introdotto dai nostri anfitrioni. Mi resi pronto ad accettare senza apparire sfacciato (standard educazionale), quando la signora Iolanda andò a terminare il discorso: “...però no, Mike, hanno già bevuto ‘o vino, e poi so’ stanche, u know, domani si devono alzare presto...”
Questo, alle 07:55 p.m., ora dell’Atlantico. (Quella sera, poi, andammo al China...!)

Ma il dramma deflagrò nel dopo cena. E, in effetti, fu dramma vero: o almeno, ne discesero le ultime pieghe del sipario nero che si era chiuso alcuni anni prima. Questa immagine così pesante e retorica si attaglia bene, purtroppo, a quanto era avvenuto in quella famiglia. Lo sapevo già, ne ero stato informato per evitare parole fuori posto.
Avevano perduto un figlio. Si chiamava Micheal, quasi come il padre. Aveva a sua volta una figlia piccola; il tumore non gli aveva dato tempo di vederla crescere.
Fatto sta che, nella conversazione distaccata che seguì l’abbuffata, a un certo punto mi ritrovai in piedi, allontanato dal resto della combriccola. La signora Iolanda, unica, mi stava accanto. Come a voler entrare un po’ in confidenza, mi chiese: “Quanti anni tu hai?”. Lo dissi. E capii all’istante di aver fatto una cazzata.
“Come Micheal!”
Gli occhi affaticati da troppo lavoro e troppo pianto trattenuto, dietro le lenti degli occhiali, sfavillavano. ‘Nu guaglione comme a Maikel suio. Capiva che non ero Micheal, certo, ma percepiva anche che un’occasione così non le sarebbe capitata più per chissà quanto tempo; forse mai. Giocare il gioco tragico della simulazione. Era game, in quanto pervaso di grottesco senso di divertimento, ed era play, perché davvero prevedeva regole, ruoli, copioni e scene.
Si girò a circuire lo sguardo del marito. Quando l’ebbe conquistato, gli annunciò: “Tiene gli stessi anni che Micheal.”
Michele-Micheal operò un limitato rinsaccare del collo, lestissimo, quasi come un tic, e parve soprassedere, troppo impegnato dalla calma della sera, epigona della monotonia perenne delle sue giornate. Eppure, gli angoli della bocca si torsero verso il basso.
Non divenni Micheal, no, ma fui costretto a giocare recitando il suo ruolo silente, facilmente potendo immedesimarmici grazie alla comunanza anagrafica.
Credo che, a parte gli anni, non avessi nulla in comune a Micheal. Ero solo il primo attore adatto alla parte che fosse venuto a giocare in quella casa dopo la sua morte. Cosa avevo a che fare io con quella bambina ormai sui dieci anni che giocava a softball nel giardino dall’erba ingozzata di chimica? Con quella donna che veniva a riprendersela ogni sera?
Perché questa anziana italiana d’America rimaneva tanto colpita dal fatto che io avessi la stessa età che avrebbe avuto il figlio morto?
Non lo capivo appieno. Fatto fu che l’atmosfera, da grottesca qual’era, virò in surreale.
Mi portò a riconoscere le cose di Micheal, i suoi libri, le sue foto. Una a scuola, una con la moglie: e con moglie e figlia e figlia da sola. Poi, all’ennesima: “Qui già era malato.” A questo non ero pronto. La faccia di un uomo – della stessa mia età – che sa già, così in anticipo, che dovrà morire tra poco. Cristo, dove sarò stato a sprecare il mio tempo in quel momento, nel momento di quella foto? Guardai fuori della finestra per trovare conforto all’angoscia che stava vincendomi e mi imbattei nella ragazzina che, in un esubero di vitalità, lanciava e batteva palle sopra l’erba concimata di chimica. Colsi nei tratti del suo viso quelli del padre.
Intanto, la signora Iolanda mi raccontava tutta la carriera scolastica del figlio, poi i lavori che aveva fatto. Era un torrente – d’amore – in piena. I pianti che doveva non aver fatto, asciugata dalle traversie della vita (la guerra, l’emigrazione, l’affrontare un Paese nuovo, impararne lingua e abitudini, combattere per il lavoro, ecc...) e dalle troppe dure porte da spingere ogni giorno, si scioglievano finalmente in parole: delle quali, purtroppo, non ero in grado di viverne il completo significato. E mi soverchiavano. Dopo poco, per quanto fossi colpito, però non riuscivo più nemmeno a fare la faccia di circostanza; ero veramente stufo, eppure non sapevo interrompere la commedia. Avevo fissi dentro i miei quegli occhi che visibilmente avevano trattenuto troppe lacrime, rivivevo la profondità assoluta (assoluta come la morte) dei “no” di Michele-Micheal: finalmente, compresi la bramosia divoratrice di un popolo who plays with death, che gioca/recita con la morte.
La vita, in America, non ha lo stesso valore che in Europa. Gli States sono la più forte nazione del globo, però ogni anno attendono con fatalismo che l’uragano di turno provochi decine di vittime. Amen. Uno dei maggiori sports nazionali è sparare al presidente. Amen. Usano la guerra addirittura per scopi elettorali, dopo che economici: santificano i militari che hanno ammazzato più nazisti, comunisti, arabi, terroristi; e poi, su impeccabili prati ingozzati di chimica rappresentano impeccabili funerali ai ragazzi che hanno mandato a uccidere e morire, con bandiere ripiegate con solennità e salve di moschetti. Amen.
Ogni tanto friggono qualche negro sulla sedia elettrica. Amen.
Poi a Hollywood girano “Il Paradiso può attendere”, “Ghost” e altri tremila films dove la morte è sublimata, recitata, giocata: rimandata. Amen.
Ma individualmente, quel popolo non può sopprimere l’angoscia che alla morte è legata: la fine, la grande incognita, il definitivo, il non ritorno, la sconfitta dell’Uomo: il redde rationem, se non a un Dio, alla propria coscienza, che pure in quell’oceano di cipolla, patatine e ali di pollo fritte, da qualche recondita parte, si ostina a gridare. Inascoltata fino all’ultimo, soffocata da troppo cibo.
Per cercare di non confrontarsi con il Mistero, tentano di rendere la morte un elemento ‘civile’. Per questo i poliziotti sparano prima di pensare, per questo nei films, spesso, la soluzione del caso è l’uccisione del colpevole (presunto), per questo amano la pena di morte, per questo chi riveste una carica pubblica può essere assassinato, per questo i loro scriteriati uso e gestione della guerra, che è sempre ‘giusta’, perché ‘civile’; nel senso di prevista dalla società. La loro società non ha previsto che ci si possa schiantare contro un albero con la macchina, per cui impone limiti di velocità inverosimili: però trova corretta la libera vendita di armi, che sono ormai in mano anche ai bambini. Non vogliono che almeno la morte sia al di fuori del dominio umano.
E per illudersi di sconfiggerla, consumano, divorano brandelli di vita.
Non c’è nulla che li faccia sentire parte della storia, nessuna testimonianza della cultura delle generazioni passate. Non ereditano un passato, il loro unico riferimento è un futuro: ma la morte lo nega. Dunque mangiano, mangiano: almeno azzannano il presente. Secondo regole e ruoli precisi previsti dal play.
Ma la morte propria si vive solo fino a un attimo prima: quella di un figlio si vive soprattutto dopo e rende peggiore l’attesa della propria. Un figlio è una parte del genitore ed è il suo continuare a vivere, è l’aver lasciato qualcosa che non rende inutile aver vissuto: il figlio, morendo prima del genitore, rende a questi ancora più definitiva la morte.
Il giorno dopo, guidando su una highway di Long Island, mentre gli aerei atterravano sulla mia destra al John Fitzgerald Kennedy International Airport, mi accorsi che da noi in Europa abbiamo come la sensazione che tutto il mondo piangerà sconsolato la nostra morte. In America, invece, così proiettata al futuro, una persona che muore è una cosa del passato che non c’è più. E si percepisce.
Ma lì, nell’aspra campagna di Long Island, pregna di salsedine e di vento, mi accorsi anche che se fossi morto io non avrei lasciato nulla di me, non avevo un figlio cui affidare l’utilità della mia vita. Io piansi.
Questo il giorno dopo. Quel pomeriggio, andai a giocare a softball con la figlia di Micheal. Mi sorrideva. Lanciò la palla. Battei con violenza e feci uno home run, un fuori campo. La palla rimbalzò sorda sulla strada. Un silenzio surreale gelava il suburb.

Stonehenge

25.11.2013 15:52

C’è una strada che taglia le colline gessose del Wiltshire pettinate di verde. È una strada abbastanza diritta, per cui soggetta a saliscendi piuttosto continui. Ogni tanto un boschetto sparuto finge di interessarsi alle automobili che fischiano nell’aria umida, animali al pascolo rimuginano con distacco sul proprio far parte di un paesaggio flemmatico.
Percorrevo questa strada in direzione ovest un giorno di settembre. Pioggia, ovviamente. Mentre guidavo dovevo fare attenzione a centrarmi nella corsia di marcia. Avendo un’auto con la guida a destra, il difficile di condurre a sinistra non è tanto quello di accostarsi da quella parte e restarci, quanto quello di porre la macchina alla giusta distanza tra ciglio e riga di mezzeria. Guidando, si è portati ad astrarre la corsia, tanto che stia a destra che a sinistra, e a considerarla una sorta di budello da percorrere. Poco importa, allora, se le altre automobili scorrono a sinistra o a destra: basta un po’ d’attenzione agli incroci e alle rotatorie. Il punto è che siamo abituati a regolare la nostra posizione, all’interno di tale budello, in base alla posizione della nostra persona. Cioè, con la guida sulla sinistra dell’abitacolo siamo abituati a che proprio alla nostra sinistra rimanga un metro-un metro e mezzo tra gli occhi e il centro della carreggiata, mentre a destra di noi lasciamo quei due metri e mezzo di distanza col bordo della strada. Nel Regno Unito fai la stessa cosa, istintivamente: peccato che stavolta, dentro quel metro che lasci alla tua sinistra, non ci sia soltanto la portiera, ma anche tutto il resto della vettura, che in tal modo va a mettere le ruote fuori strada. Ce l’hai tutta dall’altra parte! A Bognor Regis avevo rotto lo specchietto d’una macchina parcheggiata, la sera prima.
Steccati bianchi mi salutavano mentre sguisciavo nell’asfalto bagnato. Il landscape mi appariva addolorato. Non ero di buon umore, le cose, in quei giorni, non filavano nel modo che avevo previsto. Anziché rifugiarmi in altre pinte di stout, avevo affittato l’auto ed ero andato a lasciar amplificare i miei pensieri nel vuoto della campagna. Mi ero posto qualche meta, simbolica: la prima, Bognor Regis (“A well-known Bognor restaurant owner disappeared early this morning...”). Poi Oxford, la Cattedrale di Canterbury, il porto di Dover, Hastings e Battle, l’Uomo Lungo di Wilmington, Stonehenge.

Stonehenge mi apparve all’improvviso, schiacciata dall’effetto prospettico proprio di fronte alla strada. Mi si interruppe il respiro. Provai un’emozione intensissima. Le pietre sospese! Le avevo viste in fotografia, ci avevo imbastito i racconti dei miei giochi, poi le avevo studiate... Ora erano lì, semplicemente immanenti, dopo una vita di trascendenza dentro me. La gola si stringeva. Piansi lacrime di commozione e pensai “Ce l’ho fatta!”, come se avessi fatto chissà che.
Non mi accorgevo che ero arrivato a un incrocio con traffico canalizzato e mi trovavo sul canale sbagliato e correvo troppo. M’attaccai ai freni, l’auto sbandò leggermente, la ruota anteriore destra beccò un aqua plain, ma riuscii a fermarmi ugualmente. Le altre due uniche automobili presenti erano piene di occhi che mi guardavano sorprese e indignate. Feci un italianissimo gesto di “sorry” che, ritenni, non venne però capito.
Addrizzai, proseguii e parcheggiai sull’erba, o per meglio dire sul fango. Hanno questo di bello, i britannici. Lasciano inondare il centro di Londra da una colata di cemento, vetro e ferro (e il Principe di Galles chiede all’Italia il Palazzo Farnese di Caprarola per installarci una scuola d’architettura per gli architetti suoi sudditi: che imparino), ora c’è anche la Ruota del Millennio, però poi vogliono restare naïves fino all’estremo: per cui sguazzano eleganti nell’erba anche ai ricevimenti mondani e non ti pavimentano una piazzola per la sosta neanche se fosse l’erba stessa a chiedere di essere soffocata.
Scesi, e mi ritrovai davanti la sorvegliante dell’English Heritage, con la sua mantellona verde, lo stemma rosso sul braccio e le calosce. Aveva seguito la scena del mio arrivo chiassoso, e già mi teneva d’occhio. No, era anche dolce, sebbene rivelasse, nelle movenze e nella struttura, l’attitudine alle mischie del rugby: semplicemente, faceva – un po’ stolidamente – il suo dovere.
Pioveva una pioggia che più inglese non poteva. Per me. Per lei, no. Sembrava non accorgersene. Su quell’isola hanno un rapporto fraterno con l’acqua che scende giù dal cielo. Sul Gatwick Express, il trenino costosissimo che ti fanno prendere dal lontano aeroporto londinese da cui trae il nome (ce n’è anche un altro che ci mette 40 minuti anziché 30 e costa molto meno, ma non lo pubblicizzano), mi trovai ad ascoltare la conversazione tra una ragazza londinese che era in aereo con me e due marito-moglie ciccioni canadesi. La ragazza raccontava, con minuzie di particolari, della follia collettiva che colpisce gli italiani alle prime goccioline, tutti a correre goffamente cercando di ripararsi con il collo della giacca tirato su o ad aprire impaccianti ombrelli prima ancora di aver capito se è acqua o il bisogno d’un uccello, ed era sinceramente stupefatta. Lungo Southampton Row, a Bloomsbury, pioveva che Dio la mandava, incrociai un tipo che trasportava una piccola lastra di plexiglass. Ora, chiunque di noi italiani avrebbe tenuto la lastra sospesa sopra la testa, per ripararsi quanto possibile. Il londinese no: lui la teneva abbastanza aderente al petto, marciando piegato in avanti come a proteggerla! Così la sorvegliante dell’English Heritage: imperialmente, ma anche leggermente comicamente, imperterrita a capo scoperto sotto l’insistente azione meteorologica.

Ma, nonostante tutto ciò, Stonehenge era là davanti. Le pietre sospese respiravano l’umidità a 70 metri da me, banalmente visibili da una rete di recinzione che fiancheggia la strada. Tutto quanto frullava nella mia scatola cranica circa la Gran Bretagna e gli Inglesi era clamorosamente fuori posto. Qui non si stava nella piana di Salisbury nell’Inghilterra meridionale, qui eravamo a una porta dell’Infinito. Il pianoro era, è wide open verso l’Est, completamente ricettivo di ogni trascendenza. Il mistero aleggia fisicamente nonostante i giapponesi ridenti e scattanti (foto). Non c’è turismo di massa, che pure si intuisce esistere, che possa guastare del tutto questa atmosfera magica.
O forse ero solo un inguaribile romantico. Ancora.
Entrai, sotto lo sguardo controllore della sorvegliante. Sebbene fosse un’ora che guardava piuttosto al tramonto, l’apertura alla spiritualità verso l’Est si irraggiava di una luce pancosmica, ammesso che questa parola significhi qualcosa: ma tale, senza dubbio, era quel chiaro grigiore vivo di immaterica forza. Eccola, una parola che significa qualcosa, a Stonehenge: forza. I cerchi delle pietre sospese sono forza, apparentemente non manifesta eppure pronta a scatenarsi non appena si conceda loro una differenza di potenziale. È infatti un’energia immota, che possiedono: ma come ravvisano un salto, una possibilità di liberarsi, la emanano con una forza micidiale. La potenza delle pietre sospese te la fa entrare nelle budella. Non te ne liberi più, permane nella tua vita come un afflato recondito che soffia discreto dentro i pensieri meno prevedibili. Quella roccia trasportata misteriosamente da lontano ti graffia l’animo.
Cominciai a sguazzare nell’erba anch’io. La sorvegliante aveva raggiunto un suo collega. Ebbi la sensazione che mi stesse segnalando, chissà. Non capivo se fosse bellina o no. Bionda, il viso era aggraziato, ma l’immagine da giocatrice di rugby mi rimaneva. Peraltro, la mantellona verde le copriva il corpo senza lasciar capire se fosse poi realmente massiccio: in fondo, poteva avere il seno grande che faceva stare larga la cerata. Sicuramente, vestita da donna avrebbe acquistato punteggio in modo esponenziale. Le gambe, però, anche se nascoste nella gomma, non sembravano affatto snelle, almeno a livello dei polpacci. Insomma, la classica inglese, un po’ panna (talvolta acida) un po’ quercia (talvolta in fiore, nascosto).
La pioggia rinforzò e il vento, freddo, la ficcò in ogni dove. Il mio giubbotto, elegantino e italiano, si rivelò ovviamente incapace di fronteggiare gli elementi e si inzuppò all’istante. La sorvegliante dell’English Heritage, perfettamente asciutta sotto mantellona e calosce, offriva impertinente la sua testa bionda alla furia del tempo. I capelli s’erano appiccicati alle guance, ma lei non mostrava d’accorgersene o, pur avvertendolo, non lo riteneva rimarcabile.
Non eravamo in molti. C’erano i classici visitatori che fingono di riconoscere ogni pietra (salvo confondere i cerchi di arenaria con quelli di turchese): c’erano un paio di ragazze-giapponesi-con-le-gambe-storte-che-ridono, isolani in shorts e cappello Barbour, una famigliola tra l’allegria e la tensione da gita, me; e i miei pensieri pesanti. Questi ultimi addirittura più fastidiosi dei turisti saccenti e persino dei pargoli della famigliola.
Poi, già all’interno del perimetro delle Aubrey Holes, come attirato dal solito invisibile magnete di queste circostanze, o forse spinto dalle stesse pietre, guardai a est: e vidi l’Est. Creai la differenza di potenziale, la forza dei cerchi delle pietre sospese esplose alle mie spalle e mi penetrò. Fu un vero atto di violenza, ma piacevole. A onor del vero, anche cercato. Cos’ero venuto a fare a Stonehenge se non per esserne violentato? Chiodo scaccia chiodo, si dice. E infatti, finalmente quei pensieri indesiderati migrarono.
Nell’aria si sentiva vagamente l’odore monotono ma evocativo dell’Atlantico; andava a salutare le pietre che non vedeva da tempo. Affidai dunque a imprecisati scogli della Cornovaglia le mie tristezze e mi lasciai pervadere dalla magia. Che si diffuse con metodo. Che mi fece, alla fine, persino non sentire più il freddo. Che mi portò a girarmi e incrociare, con la faccia beota, di nuovo lo sguardo della sorvegliante, portatasi, anche lei come me, dalla parte diametralmente opposta all’entrata.
Nel mentre, il suo collega annunciò l’ora di chiusura e invitò i visitatori più lontani ad avvicinarsi all’uscita. Anche la mia aveva preso una posizione tale da impedire di proseguire oltre sul sentierino. I capelli biondi sempre più aderenti alla pelle. Le stavo lasciando addosso uno sguardo grave come quello di un bassett-hound al ritorno da una faticosa battuta. Forse le era familiare. Forse aveva capito tutto sin dall’inizio.
Easy, sir, same old story with the stones...”
Oh no, yes... No, me...”
Sputtanato. Un altro sognatore, quanti ne abbiamo fatti oggi?
Mi incamminai lestamente a capo basso verso il cancello d’uscita. Rialzai un po’ il mento, guardai in direzione dell’est. Solo nuvole gravide ancora. Un palo della luce o del telefono a mezza collina. Il freddo era tornato. Shit! Ma insomma, cosa mai era ‘sta Stonehenge?
Girai, prima verso sud poi verso ovest, raggiunsi il cancello. Mi voltai alla mia destra, ma oltre i cerchi delle pietre sospese la sorvegliante non c’era.
“Dov’è?”
La pioggia cessò di colpo, come se fosse finito il carico del secchio. Mossi repentinamente il viso dall’altra parte, verso est.
Una figura ieratica si stagliava luminosa sul ciglio dell’Est aperto all’infinito, i capelli biondi ululavano sciolti e secchi nel vento, colpiti da un raggio del sole tramontante, dopo aver attraversato magicamente le pietre. Era piena di forza. Il mio sguardo incontrò i suoi occhi.
Dardeggiavano.

Cuba

18.11.2013 15:40

“Aprendimos a quererte,
desde la histórica altura,
donde el sol de tu bravura
le puso cerco a la muerte.
Aquí se queda la clara,
la entrañable transparencia
de tu querida presencia,
Comandante Ché Guevara.”

Era imbarazzante.
Scesi dal cargo bimotore trasporto truppe sovietico riadattato a usi civili, con la toilette spartana dove il serbatoio dello sciacquone era una tanica militare appesa alla lamiera della carlinga e con tutte le indicazioni scritte in caratteri cirillici (nessuno le aveva cancellate), i turisti venivano portati in un grande capanno in legno dove veniva offerto loro un cocktail di benvenuto. Il nostro gruppo era atterrato alle nove del mattino, alle nove e trenta il cocktail che si trovò davanti era di gamberetti surgelati (a Cuba!): arduo gradirlo.
Tutti i turisti erano occidentali: per fortuna, visto che si trattava di Cuba, nessuno statunitense. Già una consolazione. Ciò nonostante, il tasso di imbecillità, tanto pura che vacanziera, era elevato. Il tipo dell’animazione ci convinse che non era possibile bypassare la cerimonia d’accoglienza e si lanciò nel suo lavoro. Lo ammirai almeno per la capacità di essere così allegro e di buon umore a quell’ora, sul posto di lavoro. Era un bianco, biondo, forse erede, come l’Antonov, dell’ormai passata amicizia sovietico-cubana. Seppe far ululare i turisti semplicemente chiedendo: “¿Quién es español? ...francés, alemán, venezolano?” Finché arrivò alla nazionalità che, ritengo, la sua e la mia esperienza avrebbero lasciato supporre far scattare l’urlo più caciarone: “¿Quién es italiano?”.
Per una volta, gli rispose il silenzio pungente di decine d’occhi che cercavano gli italiani, misteriosamente – appariva – non presenti massicciamente come al solito. Non lo erano, infatti, e per una volta prevalse la vergüenza.
Il complessino era in effetti già schierato là dove quella specie di palco litigava con la parete di fondo. Ma sembrava che stessero lì come a pulire gli strumenti. Invece, in fretta si riassemblarono e si accesero. E di colpo il tenue filo del sentimento si avvolse intorno a chi volle farsene avvolgere.
Attorno alla cara presenza del comandante Guevara riviveva il mito doloroso di giorni che furono. Ancora una volta.
Alla fatua voluttà consumatrice che divorava gamberetti surgelati (a Cuba...) alle nove e trenta del mattino, all’imperialismo turistico occidentale, quei cinque-sei sgangherati opposero la struggenza e la dolcezza, la nostalgia e la fierezza, il dolore e la gioia: sentimenti, mister! Le note della cara presenza del comandante Che Guevara venivano eseguite in un arrangiamento che non avrei mai più ascoltato. La canzone più scontata diveniva un triste, lento, seducente canto di battaglia: ma di una battaglia di cui si ha la consapevolezza tangibile di averla persa e che, però, si canta ugualmente con la medesima fierezza di un vincitore, unita alla sconsolata tristezza di chi sa di aver iniziato una battaglia giusta e finito una sbagliata. E sembrava un lancinante rimprovero.
L’imbarazzo in me cresceva smodatamente: per cercare di vincerlo, fra tanta entrañable trasparencia e di fronte a tanta querida presencia, mi buttai su quei gamberetti assurdamente surgelati, a Cuba, sull’isola immensamente magnifica di Cayo Largo, Mar dei Caraibi.
Di Hemingway nessuna traccia.

Certo, Cuba è anche la folle bellezza de L’Avana. Certe strade pavimentate in legno, le piazzette e i vicoli, i colori delle case più modeste, lo splendore decadente e decaduto dei villini. Cuba è la sua gente, aggrappata fuori degli autobus puzzolenti, appesa agli angoli delle strade, con la faccia stampata dietro due ritti d’inferriata, appollaiata sopra una bicicletta dalle gomme sgonfie, protesa fuori di balaustre delle quali ignora il senso e la funzione ma che le vive ugualmente con la fierezza di una famiglia nobile decaduta. Ecco cos’è Cuba: una nobile decaduta. Ha perso una guerra che già aveva vinto, è ridotta alla miseria, ma il lignaggio resiste e affiora, forse anche inconsapevole, in ogni gesto del quotidiano.
Cuba è Teo, ingeniero agrario che mi abbordò poco fuori l’inospitale hôtel Riviera dicendo di scambiarmi per un suo professore: e sì che non c’era una gran differenza d’età, fra noi due. Era chiaro che lui e il suo amico volevano turlupinarmi, ma vissi un’esperienza bella che mi costò una ventina di dollari soltanto. Secondo lui, credo, il costo fu maggiore, almeno di altri venti: ma non è così. Era commovente l’impegno e la profusione di mezzi che quei ragazzi e le loro famiglie mettevano per incassare 40 dollari. In fondo, avrebbero potuto benissimo scipparmi, rapinarmi, entrare in camera e far razzia. Invece no, noblesse oblige; il piano doveva essere elegante e perfetto.
Mi si avvicinarono appena rallentai incuriosito dall’andamento di un incontro di baseball tra ragazzini, nel campetto accanto l’albergo. Mi accompagnarono per un po’ parlando del più e del meno, poi pian piano, subdolamente, introdussero la possibilità di effettuare un cambio in nero, a tasso migliore di quello ufficiale, ovviamente.
Una proposta simile, a Cuba, non ha semplicemente senso. Il turista straniero può spendere solo in dollari, con la moneta locale può magari accenderci il fuoco. Stavo per mandarli a quel paese, ma improvvisamente si accese la folle idea. Mi dichiarai possibilista, ma non convinto appieno. Iniziò il corteggiamento, e fu un’avventura formidabile. Mi portarono con loro nella loro La Habana, quella “che il turista non vede”. E allora, trascinato appresso da questi due ragazzi, coperti da indumenti trasandati ma che parlavano con alta proprietà di linguaggio e notevole apertura mentale, vidi gli scaffali vuoti di uno spaccio, dove qualche donna si affacciava con la tessera in mano, dava uno sguardo a quelle rare merci che sembravano dimenticate da qualcuno e se ne usciva rassegnata. Mangiai un panino che mi offrirono loro a una specie di chiosco all’angolo di una strada, tra ragazzini che mi chiedevano come al solito gomme da masticare, e Teo che li allontanava. Entrammo in una biblioteca, e lì Teo non riuscì a nascondere l’orgoglio per l’alto livello culturale del suo Paese (istituzioni culturali, scuole, università, campi sportivi e ospedali sono tantissimi nell’isola). Fu qui che gli chiesi che titolo avesse. Mi rispose, pronunciando “ingeniero agrario” con sussiego e distacco. Mi diede l’impressione di declamare non quello di studio, ma il titolo nobiliare. Attaccò a illustrarmi l’importanza di un’agricoltura moderna per lo sviluppo della gente cubana. Alla fine, gli dissi che potevamo provare a cambiare venti dollari.
¿Sólo?”
“Bueno, empecemos asì.” Sì, cominciamo così, con venti dollari: più o meno quanto mi sarebbe costato un tour in una città occidentale un giro su un autobus scoperto.
Mi condussero nella piazza antistante il Capitolio Nacional: ci acquattammo sotto un portico, si fecero dare i venti dollari e l’altro ragazzo andò via. Teo mi spiegava tutti i passaggi, mi dava consigli su che fare per assumere un aria indifferente, mi descriveva cosa stesse avvenendo nel frattempo. Dopo poco, l’altro tornò e bisbigliò qualcosa a Teo che, invitandomi con la testa a muovermi, mi disse: “Está hecho. Sí, tranquilo.”
Dopo qualche centinaio di metri, mi fu consegnato un mucchietto di carta colorata tutta strapazzata. Le banconote cubane, ¡ay, qué dolor!
Era evidente a tutti, sebbene ciascuna parte fingesse da par suo, che con quella carta già intrinsecamente straccia non ci avrei fatto nulla (e fu infatti alla fine regalata a Silvia, una interprete bruttina ma simpatica che, dovendo tradurre in italiano, iniziava appena possibile a parlare in tedesco, perché le piaceva tanto quella lingua).
Pure evidente apparve subito che il guadagno consentito da quell’operazione illegale (nella quale comunque erano usciti soldi veri, quindi...) non era sufficiente a coprire l’impegno profuso. Iniziò la seconda parte del piano, per me altrettanto interessante della prima.
Mi chiesero in quale albergo alloggiassi. Lo sapevano benissimo, stavano appostati là fuori. Finsero il giusto: “¡Oh, el Riviera!
En el Hotel Riviera, está un torcedor, ¿verdad?
¿Un torcedor?” Non sapevo cosa fosse un torcedor.
Los puros. Hay un hombre que hace los puros en el Riviera.”
Ah, sí.”
Es mi padre.”, dichiarò trionfante Teo.
Dunque il placido tizio che nel sotterraneo dell’albergone ex-americano arrotolava sigari davanti agli incuriositi occidentali era un torcedor de puros. L’avevo osservato nel suo lavoro; avevo avuto l’impressione che potesse trattarsi di un ingegnere o di un avvocato che, perduto o costretto a perdere interesse nella propria professione, avesse scelto quell’occupazione filosofica per potere continuare delle meditazioni. Si aiutava con la ripetitività dei gesti, mai però meccanica, bensì amorevolmente competente, e con l’osservazione di chi l’osservava. Eh sì, si vedeva che era lui chi scrutava con maggiore attenzione, nella assorta lentezza dei movimenti culminanti in una repentina accelerazione al momento del taglio. Nell’istante in cui mozzava uno dei capi dell’involto, celebrando con il retaggio di un piccolo sacrificio la nascita di una sua nuova creatura, si consacrava deità che afferma la superiorità della sua sapienza sulla vacua frenesia dei turisti. Ora, Teo dichiarava che quell’uomo era suo padre. Poteva addirittura essere vero, ma non era questo il punto. Era chiaro che voleva arrivare da qualche parte.
Da quella rivelazione in avanti, tutta l’attenzione dei miei accompagnatori fu incentrata sui sigari. Mi chiesero se intendessi fumarmene uno.
No sé, puede ser...”
Mi condussero allora alla scoperta di uno dei posti più incredibili che abbia visto in quell’avventura. Andammo a casa di un loro amico, in un edificio ovviamente fatiscente. Era una grande occasione, poter entrare in una vera casa habanera. Ma non era soltanto un’abitazione: anzi, lo scopo principale era un altro. Si trattava di un bar “segreto”, dove in un frigorifero erano contenute birre e – addirittura – Coca-Cola e il ragazzo padrone (di casa) mise a girare un disco su un vecchio impianto del tipo di quelli venduti per corrispondenza da Selezione dal Reader’s Digest. Era organizzatissimo: c’era tanto di listino prezzi. Una vecchia un po’ discinta si affacciò sulla porta del camerone-bar e fu allontanata: non ci si presenta così davanti ai clienti. Le pareti erano completamente coperte dalle suppellettili del bar, con bottiglie di ron dovunque, candele e bicchieri, stampe a soggetto religioso con tanto di lucetta accesa davanti, fotografie, bandiere, file di libri, pile di dischi, oggetti vari. Consumammo qualcosa, e alla fine scappò fuori un puro. Mi insegnarono a scaldarlo nei punti giusti per far sciogliere quel po’ di colla che serve a tenere la foglia arrotolata, risero del mio modo iper-preoccupato di accenderlo (sembrava che dovessi aspirare tutto lo smog de La Habana, tanto sforzo feci con guance e polmoni).
Mi sentivo appagato: fumavo un sigaro eccezionale attorno a un tavolo con una tovaglietta di plastica a fiori dentro un bar segreto in compagnia di ragazzi cubani decisamente simpatici. Chissà se le milanesi a tette di fuori in cerca di maschi giovani che avevo incontrato a Cayo Largo erano mai riuscite in un impresa del genere. Ma tanto non le interessava. Mi offrii di pagare e lo feci. Il ragazzo “del bar” strabuzzò non solo gli occhi, ma prontamente Teo intervenne portandomi fuori prima che io potessi notarlo (ma l’avevo già notato) e attaccandomi una spiegazione posticcia sull’opportunità di non uscire tutti insieme per non attirare l’attenzione. Nel frattempo l’altro accompagnatore spiegava al barista cosa stesse accadendo.
Avevo infatti pagato in gloriosi pesos.
C’è una cosa sulla quale tutta la gente di Cuba e il governo sono sempre d’accordo: il turista ha da pagare in dólares americanos. Non si scappa. Ma in quel momento, era in atto un piano.
Guarda caso, si riprese a parlare di puros. Teo ebbe un’idea eccezionale. Mi chiese se mi interessava vedere un negozio dove vendevano sigari. Mi interessava.
Il posto era lontano, proposero di prendere un taxi. I taxi erano tra le pochissime automobili circolanti a Cuba, cui l’embargo negava alimenti, tinte murali (tutte le belle ville coloniali dei quartieri residenziali de La Habana erano infatti gravemente scrostate), mille altre cose e – forse soprattutto – petrolio. Si girava in biciclette dalle ruote sgonfie, che vanamente si cercava di mettere in pressione presso certi surrogati di pompe di benzina agli angoli delle strade; ma dai tubi di gomma usciva appena l’alito di un moribondo. Stavo per offrirmi di pagare la corsa, ma Teo ne fece una questione e mi tirò giù dalla vettura, mentre l’altro, senza alcuna generosità, o comunque non per quella, pagava al conducente. In pesos, ovviamente. Con qualsiasi moneta avessi pagato io, sarebbe stata una falla nel piano: pesos, io non potevo averne, dunque avrei implicitamente denunciato i miei accompagnatori; e i miei dólares americanos (sui quali il taxista avrebbe applicato un cambio da rapina) erano comunque un bene troppo prezioso da lasciarlo dissipare. Però, per i due fu un’altra uscita.
Non c’era dubbio, a questo punto. Il piano era attivo, rappresentava senza dubbio lo scopo principale di Teo e del suo amico: ma c’era dell’altro, doveva esserci. Forse la curiosità di passare qualche ora con un capitalista e capire se odiarlo davvero o invidiarlo (o compatirlo...), forse il volersi sentire per un giorno fuori dalla chiusura cubana, forse il confronto: magari solo la stessa simpatia che anch’io provavo per loro. Riuscii a parlare di certe timide manifestazioni anti-regime, ma non anti-Fidel, che gli universitari avevano inscenato qualche settimana prima e mi parve di capire che Teo non ne fosse completamente estraneo. Già, lo sviluppo dell’agricoltura per il riscatto della gente cubana doveva passare necessariamente attraverso una ridiscussione di certi principi che la pratica, nel tempo, aveva travisato rispetto ai valori iniziali.
Ma eravamo ormai davanti al negozio.
Ovviamente, quando a Cuba si parla di negozio, si intende un qualcosa per stranieri dove i locali non possono avere accesso. Infatti – e qui rivelarono la meticolosità del piano – il posto, guarda caso, in quel momento era chiuso. Le vetrine però si potevano guardare. Mi fecero osservare tutte le confezioni della marca “Montecristo”: in particolare una scatola da 25. Mi decantarono tutte le virtù del tabacco cubano, mi descrissero le piantagioni intorno Pinar del Río, l’unica zona dove sopravvive una parvenza di proprietà privata legata proprio alla produzione tradizionale, si soffermarono a illustrare la fama dei loro sigari, si distesero a ricordare che Fidel ne fumava, o ne aveva fumati, tanti; infine mi chiesero se avessi visto quanto costavano. L’avevo visto sì: la scatola da 25, 175 U.S. dollars. 7 dollari l’uno, mica male.
Son los mismos que mi padre hace en el Hotel Riviera...”
Il cerchio si stava chiudendo.
Oye, Teo, si tu compañero quiere, quizá haya puros en tu casa, ¿verdad?” aggiunse lesto l’altro ragazzo. Il compañero di Teo ero io, ovviamente, che se ne avessi chiesto, forse Teo aveva dei sigari in casa. Quindi, continuando la battuta prevista dal copione, si rivolse direttamente a me: “¿Quieres, compañero? Puros. ¿Quieres puros?
Notai come fosse la prima volta che lui mi dava del tu: eravamo ormai intimi, cioè alla stretta finale. Ma ancora una volta, finsi di non capire. Teo fu costretto a scoprirsi.
Si tú quieres puros, Montecristo como éstos, mi padre y yo tenemos.” “En nuestra casa”, aggiunse circospetto.
¡Ah!, pero tu padre hace puros en el Riviera. No son Montecristo.”
Sí, claro que no. Los que él hace en Hotel Riviera no son Montecristo. Pero mi padre trabajó, hasta hace un año, en la fábrica Montecristo.”
C’era sempre una risposta per tutto, con estrema naturalezza e nobile nonchalance. Non potendo sostenere che i sigari che teneva in casa fossero contemporaneamente della rinomata marca Montecristo e fatti dal tipo che li rollava a mano nei sotterranei del Riviera, aveva dichiarato che fino all’anno prima suo padre lavorava nella fabbrica.
¿Y cuánto cuestan?
Mucho menos.”
¿Cuánto menos?
Eh, no sé.”
Una como ésta”, dissi indicando la scatola da 25.
Tenemos que preguntar a mi padre.”
Mostrai i pesos stropicciati, domandando quanti di quelli mi sarebbero serviti. Risero.
¡No, compañero, mi padre quiere dólares!
Ecco: prima avevano fatto tanto per farmi cambiare i dollari in pesi, ora però che dovevo pagare loro, chiedevano i dollari. Da buono straniero a Cuba, d’altronde, avevo da pagare in dollari.
No tengo otros dólares aquí”, dissi.
In breve, ci accordammo per rivederci alla sera, prima di cena. Mi sarebbero venuti a prendere fuori dell’albergo. Specificarono che sarebbero restati dall’altra parte della strada, vicino al chioschetto di una specie di bibitaio. Lo sapevo già. Davanti l’entrata dell’albergo stazionavano auto ‘civili’ della polizia.
Casa di Teo non era lontana dal Riviera. Era un’abitazione di un semplicissimo stile coloniale, divisa con un’altra famiglia. La vita si svolgeva al piano terra, al primo dovevano solo dormirci. La madre, una zia e una pletora di fratelli/cugini/amici/vicini/nipotini occupavano casualmente la veranda piastrellata dalle stesse piccole mattonelle d’argilla rossa che hanno riempito i nostri terrazzini negli anni ’60 e ’70. A parte le due adulte, anzianotte, non c’erano donne a ricevere lo straniero.
Dopo pochi convenevoli, ebbi chiare due cose: che Teo era molto considerato, per aver studiato a fondo, essere diventato un ingeniero agrario; ma che però la trattativa non l’avrebbe più condotta lui. Sarebbe stato un fratello grande, o forse giovane zio, dalla faccia assai più malandrina, a farlo. Del fantomatico padre torcedor, nemmeno l’ombra.
Propose quantitativi industriali, ma capì presto che non avrei comprato che la scatola da 25. Diede uno sguardo alla madre che, seduta su una poltrona in legno, dominava su tutto, questa batté gli occhi e Teo andò a prenderla.
Si ripresentò con una scatola originale da 25 Montecristo, fatta in legno e guarnita su tutte le fasce laterali e sugli spigoli con carta dorata. Al centro del coperchio, il marchio composto da tre coppie di lunghe spade che si incrociano a due a due in prossimità delle else: ogni coppia si contrappone alle altre dai vertici di un triangolo equilatero in modo che le sei lame generano due triangoli, l’uno inscritto nell’altro. Le fasce risultanti tra i due sono campite in rosso, lo stesso colore di un giglio araldico che riempie il triangolo centrale. Sul fondo della scatola, l’impressione “Hecho en Cuba”.
Una larga fascia dall’aspetto e dal colore di una banconota americana avrebbe dovuto chiudere la confezione: era il “Sello de garantía nacional de procedencia para Tabacos torcidos y picadura” previsto dalla “Ley de Julio 16 / 1912”! Non ho mai appurato se la Rivoluzione avesse mantenuto una legge sull’esportazione del ’12 o se l’incantevole truffa avesse riciclato un bollo dei nonni. Fatto sta che era spudoratamente aperta.
Para saber que se trata de puros...”, si giustificarono.
All’interno, i sigari erano ben disposti su due file sovrapposte separate da un’anima di legno rossiccio, tutti perfettamente fascettati “Montecristo • Habana”. Sul retro del coperchio, ancora il marchio e la scritta “Cabinet Selection No. 1”.
Nemmeno ho mai appurato se fossero sigari artigianali spacciati per Montecristo o veri puros della Casa habanera rubati, fatti uscire di nascosto dalla fabbrica, chissà.
La contrattazione previse lunghe, piacevoli chiacchierate dalle quali credetti di capire più su Cuba che non leggendo tutti i saggi scritti al proposito e si fermò a 20 dollari. Salutai tutta l’assemblea gongolante e me ne andai. Gongolante anch’io. Per 40 dólares americanos avevo visto l’interno del calzino cubano, dopo averlo rigirato, e portavo a casa 25 ottimi sigari. Quando la sera mi accesi il primo, anche la sporca camera del Riviera, dai vetri talmente non puliti da far sembrare perennemente che piovesse sebbene fuori il sole fosse abbacinante, si permeò di bontà. Il sapore di quelle foglie, dolce e acre, la trasformò in un ambiente familiare e piacevole da vivere.
Adesso quella scatola troneggia in casa mia. Fumo un sigaro in qualche occasione, una media di uno l’anno. Anche ora che il tabacco si è un po’ rinsecchito, il sapore di quel fumo mi seduce come sempre e mi fa voler bene a Cuba e alla sua gente. E a Teo, ingeniero agrario, truffatore e idealista.

Santo Domingo

11.11.2013 20:58

Ho avuto la fortuna di vedere molti mari bellissimi, alcune tra le spiagge considerate le migliori al mondo. Certamente, uno dei primi posti della mia classifica personale è occupato dalla Playa del Bavaro a Punta Cana, nella Repubblica Dominicana, costa atlantica. Già, atlantica, non caraibica: anche se tutti i cottimisti di Martinengo (BG) che ci vanno con le loro canotte zigrinate sono convinti di bagnarsi nel Caribe.
È una spiaggia favolosa, larga, lunga decine di chilometri, costeggiata dalle immancabili palme, di sabbia chiara e fine, per lo più rivolta a nord-nordest, per cui hai il sole alle spalle e puoi incessantemente guardare il mare nei suoi trasparenti riflessi e nella solidità corporea dei suoi colori, lasciandoti trasportare dalla pacifica convivenza di questa che, altrove, sarebbe una contraddizione. La laguna formata dalla barriera corallina, in quanto tale, è sempre calma, quindi l’acqua non sconvolge, se non durante gli uragani, la fronte sabbiosa, la quale così è rilassata anch’essa e comunica al turista, foss’anche il cottimista dal naso rosso e la zucca pelata sudaticcia, la medesima rilassatezza. Niente squali né grossi altri pericoli. Un posto dove assaporare la pace del cosmo con la punta dei piedi, immersi nell’acqua dal sapore primordiale.

– Aeroporto di Madrid, metà giugno.
Sono di ritorno dagli Stati Uniti e diretto a casa. Tra le immancabili file, subito vedo un profilo conosciuto. Come mi viene d’istinto, tento di nascondermi. Troppo tardi. Mi agguanta col suo sorriso complice e la sua aria da vecchio amico. È solo un conoscente!
“Ma, anche tu qui?” mi chiede.
“No, non ci sono...” vorrei rispondergli, ma purtroppo ci sono e sto ascoltando il suo stupido esordio.
“Dove vai, dove sei stato, che fai?” Glielo dico.
“Ah, gli Stati Uniti, i grandi spazi, le grandi distanze, una vita diversa, le belle donne... Hai traversato i grandi deserti, questi spazi immensi; hai visto il Grand Canyon? Lì, è tutto più grosso...”
“Veramente sono stato a Boston...”
“Ah, Boston, sta sopra vero?”
Sono già irritato, per carità, ma la domanda se Boston fosse sopra... Sopra a che? Voleva forse dire sopra New York, o forse genericamente ‘al nord’?
“Ehm, sì, è sopra New York, piuttosto al nord degli Stati Uniti.”
“Ma sta... no, sta di quà, vero?”
Ancora! Sono dunque questi i concetti geografici che insegnano nella scuola italiana: sopra, sotto, di quà, di là. E pensare che addirittura qualche matto ancora disegna carte e mappe, con nord e sud, est e ovest...
“Ehm, è sulla costa atlantica.”
“Eh, di quà, sì.”
Capisco che ‘di quà’ significa ‘ad est’. Un passo avanti. Permango comunque assai irritato. Per lo meno, devo impicciarmi un po’ dei fatti suoi. Non faccio in tempo. È lui ad attaccare ancora.
“E che ci fai allora a Madrid?”
Vivo a Madrid, cazzarola, anzi no, a Salamanca, ora devo prendere il treno, per cui ciao, ciao... Anzi, no, vivo a Boston e sono venuto in vacanza a Madrid...
“Bè, suppongo quello che ci fai tu!”
“Ah, no, io devo prendere la coincidenza per Roma, sai, sono stato a Santo Domingo.”
Santo Domingo! Lì dove non ho fatto che il turista dentro l’hôtel sulla spiaggia... Il pensiero del sole, del mare, della frutta e dei sapori tropicali, dei grandi ‘ab-buffets’ a self-service, mi allenta la tensione. Mi distendo in un sorriso anch’io.
“Bene, Santo Domingo. Dove sei stato, a Punta Cana?” Tutti gli alberghi e i villaggi sono lì, il litorale caraibico dell’isola non è adatto alle vacanze spiaggere.
“Punta Cana...? No, dove sta...?”
Lo interrompo prima che ricominci con sopra, sotto, di quà, di là: “Guarda, sta a circa tre ore dall’aeroporto, ti ci portano con il pullman... Ricordi?”
“Ah, no, no, ho capito. Deve stare sù, sopra. No, io sono stato in città... Hai capito?”
Caspita, no, non avevo capito, nemmeno aiutato dal fare allusivo con il quale aveva finito la frase. “Hai capito?”, come a lasciar intendere che... Vuoi vedere che il vilipeso si riscattava e riservava strabilianti sorprese? Un italiano che non andava ai Caraibi per la settimana-quindici giorni di irascibilità sotto al sole, stemperata alla sera dall’intrattenimento solo per i primi 3-4-5 giorni, poi un po’ dalla giornata in gita alle rovine del villaggio precolombiano costruite dall’architetto italiano negli anni ’80, poi più da niente? E che quindi, lui non così demente, restava nella città di Santo Domingo per fare qualcosa di importante o di diverso dalla massa? Sta’ a vedere che quando mi aveva detto Santo Domingo, anziché sbagliare il nome del Paese, come tutti, intendeva proprio Santo Domingo, come io intendevo Boston dicendo Boston? Forse sotto la pelle abbronzata, il capello corvino adagiato lussuriosamente sulle spalle, la gioielleria che si porta appresso, il fare da eterno ragazzo, il sorriso prêt-à-porter, si nasconde un animo insospettabile?
In fondo – l’avevo notato subito, malgrado tutto – non era vestito da vacanziero, ma indossava una buona camicia azzurra nemmeno sudata (un po’ troppo slacciata sul collo, forse) su pantaloni in fresco lana grigio scuro e neri mocassini (eh sì, mocassini: ma eleganti).
Sono talmente sorpreso da prendere io il ruolo che avevo attribuito a lui. “Vabbè, ma se uno va a Santo Domingo, mica se ne deve stare in città, se ne deve stare al mare, quello... di sopra.”
“Allora non hai capito niente...”
Ecco, mi sta bene, ora è lui a darmi saccenti lezioni. In effetti, si sa, non avevo capito. Pensavo, supponevo, maturavo convincimenti e misuravo sensazioni, valutavo le parole e i dati obiettivi: ma capire, no, proprio no!
“Le donne si trovano in città, eh!”
“Le... le donne?”
“Ah, che fiche...! Ti si attaccano subito, come vedono che sei italiano... Quelle chissà che si credono. Tu gli racconti un sacco di cazzate, gli fai qualche regalino, te le porti a cena e poi...” Ride, la bocca, più che una bocca, sembra una fetta d’anguria andata a male: il viso, una maschera di tragedia greca adattata a farsa stupida.
“Eh, poi... Non gli basta mai, ‘ste negrette, so’ proprio zoccole... Ahò, anche due insieme... Con ‘sti amici...” e mi indica due ragazzoni abituati alla costrizione di un’eleganza da ceto sociale in mostra che stanno in fila. “Eh, certe feste...”

Mi vergogno di essere uomo. Ancora una volta, come troppe ormai. Dico uomo, ma non necessariamente nel senso di maschio: piuttosto come essere umano, destinato da un Dio o dal caso (ognuno faccia come/se crede) a offrire una traccia di se in un mondo che si trova a dominare, unico in grado abbastanza di capire perché, come, dove, quando, ecc... Mi vergogno come appartenente alla razza umana, dotata dei mezzi per elevarsi. Non credo sia moralismo prêt-à-porter come il suo sorriso, il mio: è vero annichilimento del credere nelle capacità umane, è sincera pena per l’ennesima sconfitta.
Mi vergogno anche di essere italiano, nazionalità che, peraltro, non ho scelto. Italiano come costui, convinto di aver sedotto e soddisfatto le “negrette”. Poveraccio!
Vorrei forse sputargli in faccia, soprattutto per avermi fatto perdere così tanto tempo. C’è gente – italiani che hanno ascoltato, magari. Abbozzo un: “Eh già!”
Ma poi, improvvisamente, attacco: “E tua moglie?”
Il sorriso, volendo, si fa ancora più ampio e divertito. Mi strizza l’occhio (mi sta chiedendo forse di essergli complice?). Mi appoggia la mano sulla spalla: “No, quella sa che venivo a Madrid per organizzare la gita aziendale... Hé!”
Mi ricorda il mio ex collega Augusto, grande scopatore di mestiere, convinto che la moglie si bevesse tutte le sere quello che gli raccontava lui; cioè che andasse in piscina per i corsi di sub, di cui era istruttore. Si vantava più della capacità di ingannare la moglie di quanto non facesse per le sue conquiste effimere. Un giorno la signora lo ha convocato e gli ha freddamente spiegato che da tre anni lo tradiva regolarmente, tutte le sere, e che ormai era arrivato il momento di lasciar perdere di mentirsi: per cui lo invitò ad abbandonare il tetto coniugale!

E lì, tra le file dell’aeroporto Barajas, matura in me la convinzione che nella Repubblica Dominicana feci bene a fare il turista spiaggero e a non andarmene in giro per la capitale Santo Domingo: avrei potuto incontrare qualche tipo col sorriso come una fetta d’anguria decomposta.

Brasile

05.11.2013 19:07

Non ho visto nulla di eclatante in Brasile. Intendo dire che non ho assistito a nessun omicidio, nessuna aggressione, non sono entrato nelle favelas, non ho conosciuto indios malati, non ho sentito dire di bambini venduti.
Però ho veduto Paulinho – nove anni, giovane guida a pagamento sulle dune a nord di Natal – rifiutarsi di entrare all’interno del buggy e rimanervi aggrappato fuori: e poi rifiutarsi di dividere le caramelle con uno dei tanti suoi compagni di gioco rosi dalla lebbra e costretti a vivere su una tavoletta a rotelle.

Ardeva qualche coscienza?

Ho veduto Almeida da Serra, 50 chilometri da Sâo Paulo e 10 minuti di macchina da Jandira – cioè da migliaia di casupole insane costruite malamente una sull’altra coi soldi del governo che così facendo può dire di non avere favelas di cartone –: Almeida da Serra, una cittadella che ricorda Disneyland, con ville da favola, ma costituita di due cerchia concentriche di mura che la separano dal brasile (con la b minuscola) e separano poi i separati di serie B da quelli di serie A.

Ardeva qualche coscienza?

Ho veduto Edwirgens rattristarsi quando concludeva immancabilmente i suoi discorsi (pur reputandosi una fortunata) con le parole “ma purtroppo sono nata quaggiù”. Ed io non capivo quanti fra tutti noi che ammiravamo la sua esuberante vitalità e il suo corpo comprendessero la profondità della sua malinconia.

Ardeva qualche coscienza?

Ho veduto missionari italiani far giungere dalla Padania una squadra di operai volontari (cioè che rinunciavano a un mese di lavoro ben pagato) per costruire un nuovo seminario: e gli uni e gli altri ridevano della poca voglia di lavorare dei locali, e questi erano coloro che vivevano in quelle migliaia di casupole insane costituenti la cintura di Sâo Paulo.[1]

Ardeva qualche coscienza?

Ho veduto Dina – 24 anni, tre figli di cui l’ultima ancora poppante, avuti da tre diversi europei – piangere nella notte, seduta accanto a me mentre la portavo via (e sembrava un fuscello che si lasciava tirare lontano dalla riva, certo che le onde – anziché perderlo nell’oceano – l’avrebbero ricondotto sulla spiaggia); via dalla sua sbagliata idea di sogno d’amore, e d’altro, ancora personalizzata in un europeo. E ho veduto un quarantacinquenne di Ascoli Piceno sedutosi per forza dietro a noi pretendere da me che gli raccontassi tutti i particolari della vicenda, commentare le mie scarne informazioni con un “queste fanno sempre tutte così” (sapendo benissimo che lei parlava italiano) e immediatamente mettere le mani sulla ragazza, nell’intento – dal fine per lui scontato – di fare sesso.

Ardeva qualche coscienza?

Ho veduto il mio compagno di viaggio costretto a tornare a cambiarsi in albergo a Foz do Iguaçu perché non era consentito entrare in discoteca con i pantaloni corti e ho veduto a Rio la discoteca Help, consigliata a gran voce da due ragazzi romani che ci avevano passato tutte le notti: un troiaio dove italiani e qualche tedesco, sudati, si dimenavano ossessionati dal sesso e le ragazze (lo erano tutte?) non ti salutavano, no, ti saltavano direttamente al collo, o a qualche parte più bassa.

Ardeva qualche coscienza?

Ho veduto Manaus, avvizzita isola nel mare verde della cupidigia, e i giri turistici dell’Hotel Tropical – caserma di lusso per americani – nella “selvaggia” foresta amazzonica: lungo i sentieri strabattuti, cartelli seminascosti con le frecce di direzione; sugli alberi, le mille intacche di altrettante dimostrazioni di come fuoriesce la resina, o la manna, o la gomma, o che caspita fosse. Ho pure veduto le reazioni di chi, alle considerazioni sulla distruzione dell’Amazzonia, rispondeva chiedendo se si sapesse quante aree fossero state riconquistate dalla foresta e, soprattutto, perché noi europei e i nordamericani ci attaccassimo all’Amazzonia dopo aver distrutto le foreste di casa nostra.

Ardeva qualche coscienza?

Ed ho veduto il Corcovado, e sotto mischiato tutto quello che avevo già veduto.

 

        Cristo chiudi le braccia !

        Redimi

        questi grumi sospesi

        Comprendi

        nella misericordia

        tua l’orrido

        spettacolo che t’offre

        il male

        Chiudi con il tuo gesto

        la vista

        sugli attori rappresi

        nelle assi

        di questo palco ignobile

        Tu Cristo,

        palpitante pensiero,

        gran gioia

        nascosta o sottintesa

        dei ciechi,

        tu lassù sembri arrenderti

        al tempo,

        rassegnarti al dolore,

        bastare

        dell’affetto d’un subdolo

        abbraccio

        delle cime agli abissi,

        Adamo

        generante Caini

        con l’Eva

        dei serpenti stranieri

        Vai giù,

        va’ nelle mille corse

        che sbucano

        dai vicoli di vita,

        va’ al centro

        del cuore sanguinante

        di Abele

        Scaccia via gli ipocriti

        che in te

        s’accomunano al loro

        famelico

        banchetto d’avvoltoi

        Li osservi

        benedicente tu

        dall’alto

        della ferma bontà

        Essi osano

        immortalarti eterno

        concilio,

        falso decoagulante

        sorriso

        Non più grumo ti guarda

        Distruggiti

        piuttosto, se non muovi

        Distruggi

        questo gesto incompleto

        Lo sguardo

        rialza e leva gli sguardi

        che aspettano

        Chiudi la redenzione

        buon Cristo,

        chiudi le braccia Cristo!



[1] Ricordo i pranzi di questi operai, che festeggiavano i 35°C di un gennaio paulista con menu di pasta al ragù, carne, insaccati e formaggi stagionati bagnati da un buon rosso, fino all’apoteosi delle abbondanti libagioni finali con liquore di prugne fatto in casa.

 

Budapest

30.10.2013 14:38

A Budapest successe quello che si vede accadere soltanto nei films. Rincontrai, il giorno dopo, una ragazza bella e dolcissima: era dentro un autobus su a Buda, mi sembra di ricordare che andasse alla Nemzeti Galéria, stava con un’amica intonata a lei. L’indomani, giù a Pest, me la vidi spuntare fuori dalle scale della metro. Era l’ultimo giorno dell’anno.
Non potevo andar via nel freddo. La dolcezza della persona (non solo del viso) e quegli occhi intelligenti mi attiravano molto. Purtroppo il magiaro è una lingua troppo difficile. Puntai su un largo (per quanto mi riesce) sorriso. Il cuore cominciò a tumultuare: “Niente da fare, quando uno è timido...”
Ricambiò il sorriso. Miracolo. Già sull’autobus, in verità, il giorno precedente, aveva furtivamente corrisposto qualche mio sguardo, senza farsi notare dall’amica. Parlava con lei e, mentre quella magari scrutava fuori dal finestrino o si guardava qualcosa che teneva in grembo, mi posava addosso per attimi eterni i suoi occhi stordenti. L’ultimo, intensissimo scambio c’era stato mentre io scendevo, e mi ero attardato apposta sul predellino. L’avevo poi notata scendere appena alla fermata successiva.
Le altre ragazze della città, tranne le belle e tristi prostitute senza età degli alberghi per occidentali, rimanevano piuttosto sulle loro. Non ostili, no, ma quasi impaurite: o forse pervase di una strisciante vergogna per la loro condizione economica, palese nei vestiti e nelle acconciature, tanto diversa da noi forestieri. Come se fosse colpa loro! Ma forse tanti italiani e tanti tedeschi dimostravano, con i loro sguardi e il loro comportamento, di credere che davvero fosse loro, la colpa.
Per tornare al film, ed essendo appunto un film, naturalmente lei parlava inglese. La conoscenza di quella lingua, a Budapest, era un decimo di quanto sia da noi: cioè prossima allo zero. Ma nei films, si sa, tutti parlano la lingua di tutti (ossia l’inglese, questi sono i films americani...), così potemmo dialogare.
Si chiamava Leila.
Spero che si scriva così, comunque così lo scriveremmo noi. Parlicchiammo un po’, lei arrossiva, le ridevano gli occhi: io mi imbranavo sempre di più, mi veniva di usare il francese, dicevo cose meno che banali, probabilmente arrossii anch’io.
Poi, d’improvviso, ma lentamente, le chiesi dove avrebbe passato quella notte, la notte del nuovo anno. Per un attimo ebbi una speranza molto vile: che non avesse un programma preciso e si lasciasse affascinare dalla proposta che ero pronto a farle. Venire con me alla festa dell’Hôtel Forum, in mezzo ai ricchi occidentali. Avevo visto le prove, si annunciava interessante.
Per la fortuna della mia coscienza, una seconda speranza scacciò la prima: che fosse lei a invitarmi a qualche loro festa.
Tonight?” mi chiese, sorpresa che attribuissi tanta importanza al fatto. “Beh, starò con i miei amici.”
La risposta peggiore.
Ero lì, dentro un bussolotto vetrato davanti la fermata di Vörösmarty Ter, a guardare il dolcissimo viso magiaro di Leila, e non riuscivo a profferire parola. Guardavo i suoi occhi, e m’illudevo (o forse era vero?) di riconoscervi un po’ di pentimento, anche in lei, per avermi dato la risposta peggiore.
Oh yes, sure...”
Cercavo ora di riprendermi, far finta di niente. Adesso, ancora un nuovo stadio, cominciavo a illudermi che dietro quel brilluccicare d’occhi ci fosse la speranza che io insistessi. Ma non volevo passare per l’usuale italiano rimorchione, allora la presi alla lontana: “C’è un modo tipico di passare il Capodanno qui?” Domanda idiota, ovvio.
For me?
No, I mean in Hungary.” Scemo: e dì di sì, per lei!
Oh...”
Era arrivata l’amica che aspettava, che piombò sulla scena con le mani in tasca e si piantò, seccata, a guardare il film.
Leila divenne molto, molto imbarazzata, spense gli occhi e mi trattò da turista italiano, o tedesco, od occidentale in genere. Finché arrivò presto il momento di congedarci.
Io mi riavviai nel freddo, freddo dentro, lei scomparve nel vapore che avevamo prodotto dentro al bussolotto davanti la fermata di Vörösmarty Ter.
Ma un passo prima di dissolversi, si voltò velocemente, per un ultimo incrocio di sguardi. Gli occhi brillavano.

Andai alla festa al Forum. Cinquantenni austriache ancora magre ma col culo pesante si scatenavano in trenini al ritmo di “Qué viva España”, sul palco cantanti del posto interpretavano con aria da femme fatale canzoni di Jesus Christ Superstar riarrangiate, il portiere col colbacco intascava per lui lautissime mance e lasciava entrare gruppi di italiani in jeans o in assurdi smoking, giovanotti scandinavi allampanati anche nel cervello destinati a fare da wallflowers, tappezzeria diciamo noi, tedeschi già ubriachi che soffiavano dentro le “lingue di Menelik” (certo loro le avranno chiamate diversamente) comprate in strada. Le vendevano ovunque: l’occupazione principale dei giovanissimi abitanti di Budapest, infatti, era quella di passare la notte fischiando dentro questi strumenti o altre trombette emettenti lo stesso suono acido e scolarsi, credo, per lo meno una bottiglia intera di vodka o altro alcool a testa. A quattordici anni. Un modo tipico di passare il Capodanno in Ungheria...
Scappai al ballatoio del primo piano, 6-7 metri più alto dell’atrio. Le cinquantenni austriache mi inseguirono parlandomi in spagnolo. Feci un gioco di nascondino dietro alcuni pilastri, riuscii a seminarle. Côté cours, lo spettacolo era pessimo, così mi rivolsi côté jardin.
Quel jardin!
Il Ponte delle Catene, davanti a me, scavalcava tutto illuminato da tubi giallo-oro il Danubio. Il Mátyás templon, la chiesa di San Mattia e Nostra Signora, in piena luce, lanciava le sue arditezze gotiche a riflettersi nel fiume. Halászbástya, il Bastione dei Pescatori e tutta la Várhegy, la fortezza di Buda, con Várpalota, il palazzo reale, nelle sue maestose architetture affacciate sullo strapiombo, sotto la luce dei proiettori, dominavano soavemente la scena.
Mi lasciai sedurre completamente dalla visione, dimenticando il frastuono forzato della corte, e rividi, così, fluttuanti in quella bellezza, gli occhi dolcissimi di Leila. L’incontro era stato breve, troppo: ma intenso. Lei, almeno lei, aveva trasmesso una storia di informazioni solo con le sfumature dei suoi occhi. E nel viverli di nuovo, vi scorsi dentro l’accendersi delle pupille, vogliose di vita, e il loro smorzarsi, timorose della disillusione.
Attirato nella crepa di quel contrasto di forze, sprofondai. Mediante i suoi occhi, Leila mi guidò fuori di quella sordida immanenza. E allora pensai a quante Leila, pochi anni prima che io nascessi, avevano offerto la loro dolcezza in pasto a un sogno: nessuno gli aveva fatto capire che era una chimera. E ora vivevamo i giorni della transizione, il regime era ancora del vecchio tipo ma non mordeva più, il flusso dei marchi e dei dollari che traboccavano dal casinò all’ultimo piano dell’Hotel Hilton, sù a Buda, e cadevano su Pest, su Obuda e su tutta l’Ungheria e prima o poi su tutto l’Est aveva addolcito anche quello.
Poi rividi le scene ai bar degli alberghi, le prostitute seminude sedute sugli sgabelli e i giovani italiani che le sfottevano, le sfottevano con una pesantezza inusitata, e quelle resistevano dolci anche di fronte all’Homo Riminensis, e quelli le sfottevano e le offendevano, poi si pigliavano tra di loro con parole pesantissime nel suono e nel significato, indirizzate a loro stessi, alle loro madri, sorelle, donne, e continuavano. Avevano continuato sempre più volgari come fosse un gioco finché uno non aveva detto semplicemente “stronzo”.
“Eh no, stronzo no, non me lo dici mica”, e allora quasi erano venuti alle mani. E il tedescone accasciato per la sbornia sul bancone che continuava a chiedere bicchieri e aveva rotto un boccale, poi una bottiglia e dei piatti, e rideva e ripeteva: “Kein Problem, ich zahle alles”, ‘Nessun problema, pago tutto’, e tirava fuori rotoli di marchi, ordinava ancora e ancora rompeva.
Guardavo il Danubio, che aveva visto tante cose, guardavo il Ponte delle Catene illuminato – chissà? – per la prima volta, forse. Pensavo a tutte quelle Leila di un tempo. Era valsa la pena costruire quelle premesse, per dare alla Leila di oggi questa Budapest?
Aspettai che la metro riaprisse alle cinque del mattino e me ne tornai a casa, alla periferia est. Quando uscii di nuovo in strada, il solito buio assoluto di una città senza lampioni era appena rischiarato, in fondo, dai preparativi dell’alba. Una nuova alba, un nuovo anno cominciavano.
Ma forse da queste parti le albe non portano niente di buono, forse da queste parti conviene sognare, vivere le notti, forse per questo io, qui a Budapest, ho avuto come musa Leila, “colei che vede con gli occhi della notte”.

New York

21.10.2013 13:23

“Now, in this hate-filled world,
we must break all the chains
that have bound us.

Now, the crusade has begun,
we shall make this
a land fit for heroes. Now.
Stand up and fight,
for you know we are right.
We must strike at the lies

that have spread like disease
through our minds.

Soon we’ll have power,
every soldier will rest,
and we’ll spread our true kindness
to all who our love now deserve.
Some of you are going to die,
Martyrs of course to the freedom
that I shall provide.”

[Genesis, “Knife”, 1970]

 

 

Sì, ci sono stato anch’io, lassù al 100 e quantesimo piano delle Twin Towers del World Trade Center. In un’altra occasione, sono stato anche sull’Empire State Building. Solo Miss Liberty me la sono risparmiata.
Ora le Torri Gemelle non ci sono più. Le fotografai dal basso con un obiettivo grandangolare da 28 millimetri: apparvero più smisurate ancora e ancora di più sembravano essere portate da quelle specie di strette arcate neo-neogotiche che le dipartivano dal terreno, unica variante eclettica, per i primi piani, alla monotonia razionale dei due grandi parallelepipedi. Adesso le foto sui giornali ci mostrano questi elementi architettonici dalla vaga reminiscenza antica come unghie graffianti il cielo puzzolente, ma impotenti davanti alle macerie ancora fumanti. Non artigli, ma secche mummificazioni pateticamente spuntanti dalla fossa.
Ne faranno un monumento.
Non vorrei sbagliare, ma nel filmino di 10 anni fa c’è l’inquadratura di un aereo che fende l’azzurro gelato di quell’inverno. Ricordo sicuramente l’accelerazione antigravitazionale sentita in ascensore. Quant’erano alte? 450 metri, forse? Ebbene, l’elevator capace di decine di persone alla volta impiegava 60 secondi. Velocità media: 27 km/h. Ascensore di casa mia, capienza 3 posti, velocità media: 2,16 km/h.
Dati che ormai appartengono alla storia, non alla scienza, essendo mai più ripetibili. Andati, come l’acciaio e il cemento dove si svolgevano continuamente.
Le immagini diffuse hanno un maledetto tragico fascino. Il potere della bellezza demoniaca della distruzione. Risvegliano istinti sopiti, o tacitati dalla morale, di un uomo che urla la propria violenza contro le creature sue, inutili a farlo diventare Dio. Dio ha creato una piccola quasi perfetta macchina: soltanto, mortale. La piccola creatura, vano homo faber, costruisce cose che gli sopravvivono. Ma ogni tanto cortocircuita e vuole appianare questa differenza distruggendo i suoi stessi figlioli. Li trova colpevoli di non aver vita e non soggiacere alle stesse sue leggi con termine, inespressivi Mosè di San Pietro in Vincoli, manifestando il suo fallimento come nuovo Dio. Sfoga la rabbia per la mal destinata immortalità a martellate sulle ginocchia, spaccandone i muti, impassibili testimoni: ed è proprio quel loro (in loro immortali) silente senso di superiorità, o di assenza, di non risposta, di mancata partecipazione al suo dramma, che provoca in lui l’esplosione.
E spesso l’individuo incapace del solo coraggio di uno scatto surroga con l’assistere eccitato a squassi provocati da altri. Quegli aerei penetravano le lamiere, frantumavano i vetri, una bolla di fuoco scoppiava inconcepibile e il livello morale inorridiva spaventato, mentre un altro, istintivo, ne godeva affascinato dall’immane terribilità dello spettacolo finale. Era come se le lingue rosse e il greve gorgoglio nero, per dare morte, dessero vita alle stolide torri. Niente più altezza né altezzosità di metri e metri verso il cielo. La struttura implodeva, il fuoco divampava furibondo: poi il crollo repentino e totale, l’annientamento, il ground zero. Mago della psicologia dell’inconscio, direi, colui che ha coniato questo termine.
Le spettacolari vittorie dell’uomo sul livellamento della crosta terrestre hanno avuto anche una morte sublime, enorme: spettacolare. I terribili impatti degli aerei rappresentano la violazione delle convenzioni, fragilissime, sulle quali si poggia il nostro fallibile mondo. Basta una piccola deviazione dalla linea per causare il disordine mortale. È così facile! Perché chi guida si tiene a destra? Sufficiente una piccola sterzata e pam!, un crash e l’ordine è vinto, spezzato: come una vita, come tante vite.
Altre in queste ore pompeiane si preparano a essere recise da falciatori impazziti.
La vendetta.
La guerra.
L’odio.
A odio non si risponde con odio. Non vuoi dar retta alla religione, che insegna come all’odio si risponda con l’amore? Dai retta alla storia, all’esperienza. Odio porta altro odio, e questo altro odio di ritorno e via nel baratro. Sempre è stato così.
L’hanno chiamata guerra, poi non più. Ma gente morirà, città saranno rovinate, veleni sparsi, trappole nascoste, miseria arrecata, disperazione seminata a profusione e conseguenze inimmaginabili peseranno sul futuro. Perché?
Perché ancora la vendetta è il primo fiore che buca il gelo del dolore.
Possibile?
È un fiore nero, ma piace sovente portarlo per lutto.
Mentre scrivo, France 2 informa che Karl Heinz Stockhausen ha definito “quello a cui tutti abbiamo assistito … la più grande opera d’arte” che esista. La citazione è forse imprecisa nelle parole (l’ho colta al volo, spalle allo schermo, mentre pensavo in italiano), assolutamente non nel contenuto. Non la rifiuto, prometto di approfondire il concetto. Troppo cinica per essere quello che appare. Però, intanto, rabbrividisco. Ecco, se due aerei radiocomandati avessero centrato in diretta TV due supergrattacieli alla vigilia dell’inaugurazione, assolutamente vuoti di persone, e la gran vampa e il gran crollo fossero stati solo un tremebondo spettacolo, allora sì. La distruzione di potenza, la violazione della verginità americana, il sovvertimento d’un ordine astratto, il fascino perverso già detto, la perfezione tecnica dell’azione avrebbero creato un’opera d’arte sconvolgente nella sua bellezza.
Ma la morte di un solo passero… E invece, più di seimila persone sono scomparse. Nel senso che proprio non c’è più niente di loro, non un misero osso né un brandello di vestito. Bruciate, evaporate. Uomini e donne, vite belle o sofferte, magari qualcuna criticabile: ma criticabile fin tanto che era vita.
Non basta il Tempo? Non bastano i mali?
No: qualche imbecille deve decidere al loro posto.
E di fronte a tanta iniquità, fino a quando, Signore, implorerò e non ascolti, a te alzerò il grido: “Violenza!” e non soccorri?[1]
Ecco, l’uomo inascoltato (se mai avesse davvero implorato) fa da sé. Di nuovo alla ricerca del proprio compimento a Dio, decide che la sua violenza sarà giustizia, mentendo sulla vendetta.
Violenza in risposta a violenza, odio a odio.
Quanto lontana la Giustizia!

La calcolata follia dell’egoismo ha provocato l’ecatombe a Lower Manhattan quando ero in procinto di licenziare questi “Ricordi”.
Tutto il mondo è diventato all’istante un termine rispetto a: americano.
Con o contro!
Bella idiozia. Cosciente di non aver lasciato occasione, nel mio ricordare, per attaccare gli U.S.A., ho avuto la consapevolezza che la nuova concezione del mondo e della storia che d’ora in avanti avremo necessitava la chiarezza profonda del mio pensiero. Presunzione: originario peccato di tutti i fallibili.
Ho pianto i morti dei quattro aerei, del Pentagono e delle Torri. L’immagine di un pompiere che risale le scale infinite, forse cosciente – come si è detto – forse no (io credo di no), di certo spaventatissimo, con gli occhi scuri che scoppiavano, è fissa in me. Il fotografo subito scese, lui continuò. Quel ragazzo è morto poco dopo, il suo elmetto FDNY non ha potuto riparare quegli occhi terrorizzati da 100 e quanti piani che gli sono crollati sopra, intorno, sotto. Retorica? No.
La gente morta bruciata: un attimo prima un impiegato inamidato, uno dopo una torcia in consunzione. Può un uomo diventare un qualsiasi combustile? La nostra pelle così curata, ricoperta da amorevoli cremine, massaggiata, baciata, può improvvisamente accartocciarsi e ardere? I nostri occhi liquidi, casseforti di emozioni, possono seccarsi e bruciare in un momento?
Può l’uomo che ami perdere istantaneamente il suo essere voce e gesti, sguardi, profumi, difetti, il suo presentarsi con un modo di vestire e di camminare, di guardarti, toccarti, accarezzarti, e scadere a una stecca di materiale che le fiamme consumano in pochi secondi?
Forse l’Uomo s’è fatto davvero Dio, il Dio del Male.
Il fatto è che l’esercito americano non è l’arcangelo Michele.
Ma pretende di esserlo.
È questo che non mi fa amare l’America come vorrei.
Confondono giustizia e vendetta, e questo si sa. Ma che lo fanno apposta, si sa? È evidente. Hanno costruito una società fondata sul benessere personale quando l’Europa stava dimostrando l’utilità del benessere collettivo.
Sono intervenuti in difesa dell’Europa minacciata almeno due volte. Ma fu unicamente altruismo? Dobbiamo essere comunisti, solo a riconoscere che lo fecero per salvaguardare e aprire i mercati? L’hanno combattuto, il comunismo, per spirito libertario o perché gli chiudeva l’espansionismo commerciale?
È storia che per occupare l’Italia si sono accordati con la Mafia. Quella, qualcosa in cambio deve averla avuta. Chissà quanti soldi di quella provenienza hanno determinato o ancora determinano le vicende politiche italiane.
Diciamo America. Ma in verità la responsabilità reale di quel popolo – che vota molto meno di noi – è quella di aquietarsi ciechi in quel benessere che, a ben guardare, non è nemmeno di tutti. Non che da noi non ci sia razzismo, ce n’è tanto: ma i posti per negri sui bus francesi non ci sono mai stati. Da loro, sino a quando ero ragazzino io.
Si considerano nemmeno il centro del mondo, ma l’unico mondo. Sei buono se pensi a loro modo, se no sei cattivo: e i cattivi si ammazzano. Good the indian, dead the indian.
Sono sinceri nel loro entusiasmo per l’America: ma perché si mettono i paraocchi e non vedono l’alto tasso di violenza che permea la loro società? È violenza fisica, è violenza economica, morale, intellettuale. Loro hanno diritto di entrare con le armi in casa altrui, ma spesso non riconoscono il diritto di mettere un loro cittadino sotto processo.
Diciamo America. Ma in verità esiste un gruppo mondiale che detiene l’economia e che, però, appare – appare? – guidato negli U.S.A., il quale orienta le scelte dei governi. Di quelli occidentali: figurarsi nel Terzo Mondo!
F.A.O., G8, W.T.O. sono alcune delle emanazioni evidenti di quel potere, che ne avrà però di recondite.
Sarà un caso che dietro l’amministrazione oggi al potere negli U.S.A. ci sono le stesse facce del Vietnam (oltre ovviamente del Golfo)?
La mia generazione è cresciuta leggendo “I Quindici” e vedendo miriadi di films hollywoodiani. Altre a seguire hanno cominciato a mangiare ketch up e cheeseburgers. Tutti a bere Coca-Cola.
Senza riflettere sul perché dentro la Coke ci fossero coca e caffeina.
Senza capire che danno assuefazione, per cui si diventa dipendenti, come i veri drogati.
Senza riflettere sul perché fosse leggermente dolciastra.
Senza capire che era fatto apposta, così che certe ghiandole “della sete” non si soddisfacessero (serve loro l’amaro, come sanno gli antichi tedeschi Amish della Pennsylvania, che campano a limonate) e ne chiedessero ancora consumo.
Ecco, il consumismo: questa è l’ideologia che impregna, consapevolmente o no, l’America e che essa è costretta a diffondere nel mondo per garantire la propria – stolida – sopravvivenza. Per questo, anche per questo, le mie critiche nei “Ricordi”, di fronte alla povertà o alle incongruenze del mondo. Ma quel mondo che noi ricchi affamiamo finirà di sostentarci. Gli operai vietnamiti smetteranno di farsi pagare due cents per fabbricare roba rivenduta a 40 dollari. O moriranno o si incazzeranno.
Qualcuno, per interesse, sta già soffiando odio all’orecchio dei disperati. La religione è spesso l’alibi perfetto.
Quante bugie!
Perché: o in decenni di quei films ci hanno dato a intendere di avere un livello tecnologico impensabile (ricordo la “pubblicità” vera di un satellite-spia che veniva vantato in grado di ascoltare la conversazione tra i due soldati di una pattuglia in Siberia) mentre invece era solo fantascienza; oppure non è possibile che dopo decine e decine di minuti che prima uno, poi un altro aereo si sono infranti sui più alti grattacieli della città più importante del mondo, loro si lasciano cadere addosso un aereo addirittura sul Pentagono. Ma come? Il centro nevralgico della difesa non era protetto dai Patriots, i missili anti-missile? Non c’era niente di niente? Bastava prendere un aeroplano e tirarglielo addosso?
I vecchi generali sovietici, allora, si stanno tagliando i testicoli: era così facile!
Ma via…
E le due Torri? Potrei denunciarli: mi hanno fatto salire là sopra dopo quarti d’ora d’attesa nell’androne, e tutto poteva cadermi facilmente addosso? Facilmente: perché non mi si dica che lo schiaffo degli aerei giustifica il collasso. Forse la mega tecnologia era stata mal progettata.
Oddio, le loro bombe abbatterono facilmente le guglie del Duomo di Colonia e migliaia d’altre, ma quelle erano fatte di povera pietra da capimastri che non avevano fatto l’università.
Sempre che emerga davvero che il responsabile è lui, quello sceicco è stato un loro agente. Spero che sia che l’hanno perso, il controllo su di lui. Comunque stiano le cose, l’idea è che si fronteggino due ordini di potere: la classica vecchia lotta di potere.
Mascherata.

Non è nemmeno questo che mi fa inalberare.
Non sono Emilio Fede e gli altri servi a libro paga (ora sì, dopo queste parole, che mi faranno komunista), sebbene mi si stringa la pelle addosso a vedere come siano utilizzate le immagini dei disperati che, non possiamo sapere con quale livello di coscienza, hanno preferito concedersi il gusto orrendo del volo suicida al raccapriccio di sentirsi ardere.
Non sono le evidenti bugie, non le patetiche preoccupazioni a cercare di contare quanti connazionali possono essere morti, come se la morte e la pietà esigessero i passaporti.
Non è la spirale d’odio di religione che fino a qualche anno fa credevo, per noi cosiddetti occidentali, confinata ai libri che ho studiato e cui invece già si sta dando libero, seppur velato, sfogo.
No, non è questo.
È perché il sospetto secca le lacrime.
Il razionale ed emotivo sospetto, che monta verso la certezza induttiva, mi impedisce di piangere. Questo non potrò perdonarglielo mai.
Io vorrei versare lacrime di ogni temperatura. Vorrei commuovermi fisicamente con gli occhi del giovane pompiere o con il pencolare del disperato che poi si butta.
Vorrei, non riesco.

E ci sarà la guerra. L’ho chiamata vendetta: ormai so che è parte delle cose.
Forse prima o poi riuscirò a piangere. Per qualche uomo o donna o bambino. Forse per il cadavere di un cane fra le macerie di un villaggio musulmano da qualche parte di una terra d’antica civiltà. Dimenticata.

Obnubilata è ogni civiltà.
Quante torri cercheremo di piangere scomparse?


[1] Abacuc, I, 2

 

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