Ricordi di viaggi di un italiano nascosto

di Enrico Proietti



silenzi@live.it

Germania

20.12.2013 15:45

Ad Amburgo scorsi immagini di Amburgo incastonate nella Germania.
Avvertivo nel paese dei crucchi il bisogno di dire qualcosa su questa tragedia della guerra persa e della scrittura dei fatti da parte dei vincitori. Lo sapevamo tutti che gli anglo-americani avevano bombardato la Germania. Ma come? Due righe due perse tra la magnificata descrizione dell’irresistibile avanzata conseguente lo sbarco in Normandia.
L’aspetto della realtà è che Amburgo non c’è più; di Hannover è rimasto solo il calco della topografia; Berlino..., Berlino conserva i propri moncherini “a imperitura memoria”; Colonia finge di continuare come se il Reno non avesse visto; eccetera, eccetera, sino al triste paradigma di Dresda.
Lunghissimi inverni plasmanti animi e loro manifestazioni avvampati dal fuoco d’una estate senza primavera alle spalle.
Senza i teneri germogli di un marzo, la molle erba di un aprile, i discreti fiori di un maggio, le turgide messi di un giugno, cosa brucia l’estate? La terra modellata dal fango ma rattrappita dal gelo.
E che scrivevo io? Io volevo commuovermi di fronte alle tragedie che non conoscono parti, ma tutto era così secco! La ricchezza aveva ormai soffocato le rovine – forse anche umane – ma probabilmente non le memorie.
Non potevo però entrare nelle strazianti memorie tedesche. Solo rispettarle.
E picchiare di nuovo sugli strazi interiori. D’altronde talvolta non solo le nazioni sono costituite da pezzi strani, collocati dove non ce lo si aspetta.
In fondo, perché New York sì e Honolulu no? Si amano le cose per un quid sconosciuto eppure marcato.

Ecco, io ho veduto la Germania sempre solamente d’estate: la trovo piatta e bella. Ho guidato la moto sulle sue autostrade in cemento, mi sono stupito dell’incalzare degli atterraggi all’aeroporto di Francoforte, ho gustato la comoda precisione dei suoi treni, superveloci e regionali. Magari la prima volta che la vedrò in inverno cambierò opinione. In fondo, non amo più sfidare con la mia solitudine il vento freddo, far pungere dal gelo la malinconia. Ma per ora, mi piace la Germania.
Anche se non capisco la lingua, non vado oltre il classico “Wo ist die Banhof”; poi stento molto a capire la risposta, per giunta. Però ho imparato che ci tengono molto a sapere con chi parlano, così quando chiamo al telefono recito la liturgia: “Hallo [mai appurato se si dice veramente così], mein Namen ist Enrico. Ich bin ein Freund von ...[nome]. Sprachen sie Englisch, bitte?”, e se quello non parla inglese è la fine.
A Monaco, infatti, la conversazione e il mio desiderio di vivere nuova dolcezza da un ricordo morirono in un aborto di frasi maccheroniche.
La madre di Rupert, che chiamai a Colonia da Amburgo, per fortuna mi rispose, dopo una pausa colma solo della mia speranza: “A little”. Poté così fornirmi il telefono del mio amico a Brema, dove lo incontrai il giorno seguente. Anche Brema è una città rasa al suolo, ma forse le bombe erano meno cattive: allora, seppelliti migliaia (migliaia!) di morti inermi, civili – così, anche vecchi e bambini, donne e malati –, hanno potuto ricostruire duomo e municipio; qualche altro palazzetto in centro. Il monumento ai quattro Maestri Cantori è lì in mezzo alla graziosa piazza dove Rupert mi offrì la cena.
Era un bel tipo, quando l’avevo conosciuto a Montpellier parecchie ragazze ne erano innamorate. Aveva quel tanto di matto che alle donne (a tante) piace. Una domenica decise di andare a visitare non so che posto e prese il treno. Siccome era ai suoi primi giorni di Francia, qualcosa gli sfuggì e lo prese nella direzione opposta. Non esitò un attimo, appena capì che il convoglio si era messo in marcia dalla parte sbagliata: si levò su, aprì la porta e saltò fuori dal treno in corsa, finendo sulla massicciata. Il giorno dopo lo vedemmo al café con le mani fasciate che fingeva noncuranza. Mi chiamava “spaghetti” e io a lui “crucco”, con la differenza che io pasta non ne mangiavo, mentre tutti e due ci appassionavamo alla birra. Ricordo che conducemmo una specie di indagine sui modi di denominare il mezzo litro alla spina in Francia, se superbe o cosa: indagine sul campo, è ovvio.
Quando ci reincontrammo a Brema, ci eravamo entrambi laureati. Già da un po’ era stato assunto da una società che fabbricava grandi navi, era molto orgoglioso del suo lavoro manageriale. Era l’assistente di non so quale pezzo grosso: gli dava dentro, ma vedeva prospettive di carriera. Tuttavia non mi parlò della sua occupazione: invece (non più in quelle parole francesi che scavava nell’aria ma in un inglese che, studiato a Oxford d’estate, si era poi attestato nelle durezze del Mare del Nord) si sforzò di raccontarmi la favola dei Maestri Cantori e mi condusse, guarda un po’, a vedere la fabbrica della birra Beck’s. Però, aggiunse che la sua birra preferita era quella della sua città, il Kölsch, che è chiara e leggera: se ne fa largo uso perché è difficile ubriacarcisi, tiene di buon umore e con i sensi svegli. Viene servito nei locali tipici da camerieri con il grembiule blu e il portamonete in pelle.
“Mi piace Brema”, mi disse. “Però io mi sento un tipico tedesco del centro-sud occidentale.”
“Bè, insomma di Colonia!”
“Eh, sai, tutta la zona renana...”
E giù a spiegarmi che dalle quelle parti la gente è calda e leggera come la sua birra.
“Ma perché, qui?”
“Qui stanno un po’ sulle loro. Ci sto da un po’ di tempo ma ancora non ho veri amici... Poi lavorano e basta, io non li capisco...”
Orari di lavoro di Rupert, constatati: dalle 8 del mattino alle 7 o alle 8 di sera! Insomma, il suo era l’atteggiamento verbale di un romano a Torino, un torinese a Lille, ecc... Stupidaggini: o forse tempi differenti. Lentamente si raggiungono intensità più elevate, la velocità è nemica della profondità.
Con Rupert, a Brema, la sera facemmo comunque il giro dei bar: ne conosceva, di persone. Si rammaricò del poco tempo a mia disposizione, ma ad ogni modo mi fece visitare le bellezze locali.
Ma si parlava anche di temi importanti, e venne fuori che lui era contrario alla riunificazione. Mi sorpresi, lo consideravo un idealista, malgrado gli studi di economia.
“E perché?” gli chiesi “Ci sono forse troppi problemi?”
“Problemi?” Fu un attimo, ma si scandalizzò profondamente. Mi guardò come se non mi riconoscesse più. Ebbi l’impressione di suscitargli pietà. “No, non problemi. Problemi, sì, ci sono, però: quattro, cinque anni, li risolviamo.”
Ecco, ora sembrava veramente crucco. Però pensai in un lampo che da noi, problemi come quelli che attendevano la riunione di una terra opulenta ma privata di storia con la sua storia povera nelle tasche e nei cuori, non avremmo pensato neppure di poterli mai risolvere. Dopo 140 anni, la questione meridionale esiste ancora...
“No, non problemi: quello che penso io è che rischiamo di dare all’esterno di nuovo l’immagine dei tedeschi che hanno sempre in testa l’idea del grande Reich... Non va bene. Siamo diversi.”
“Ah!”

^        ^        ^        ^        ^        ^        ^        ^        ^        ^        ^        ^        ^        ^        ^

E poi l’ho vista d’inverno. E da terra gradita divenne amata.
Il primo vero impatto fu al Castello di Genshagen, quando la neve che già cadeva sin dall’aeroporto cominciò ad attaccare nel primo pomeriggio. La fiaba uscì. Il parco alle spalle anziché immalinconirsi si esaltò nel candore. I tetti della segheria di fronte dettero senso alla propria funzione. Il viale alberato lungo il quale si affaccia il paesino lasciò il bianco vincere il nero. Fumi sottili lasciarono intuire calori interni. Era un atmosfera troppo forte per me. Mi vinse. All’istante.
Ma il colpo di grazia fu quello del minuscolo spazzaneve che aveva già compiuto il suo ordinato dovere prima che le luci si accendessero negli aloni del presepio. Lì mi sentii parte del tutto.
Dall’autostrada lontana riuscivano a giungere i rumori del traffico, che continuava per ricondurre questo tutto alla realtà del quotidiano.
Prima di cena uscii. C’era un bel freddo, secco anche in mezzo a tutti quegli alberi. In giacca e cappotto, la testa scoperta, senza guanti, raggiunsi tuttavia agevolmente l’insegna di birra che avevo intravisto arrivando. Mi accolsero con curiosità celata bene, scelsi una lager che non conoscevo, pagai una cifra ragionevolissima. A pochi chilometri dalla rinata capitale, gli occasionali compagni da 33 cl apparivano dei bei campagnoli, vestiti da campagnoli. Tra di loro si salutavano con affetto, a me abbozzavano sorrisi. Mostravano tranquillità, possibilmente anche interiore. Rientrai camminando nel silenzio. Aperte le porte della rossa struttura ottocentesca dello Schloss la vampa del riscaldamento rese rosse anche le mie gote. Non sapevo ancora cosa potesse significare una simile accoglienza.
Tutti erano già nella sala del camino con un bicchiere di vino in mano, ma per fortuna il mio ritardo latino non disturbò. Un signore simpatico veniva introdotto alla nostra conoscenza. Il giovane presidente della pro loco del posto, il quale, sempre col rosso in mano, narrò le vicende storiche del castello e del borgo. Non un esplicito accenno agli anni delle dittature, come se nazismo e sovietismo non avessero conosciuto la quiete di quel bosco pianeggiante. E poi finalmente, dopo un tempo da crampi al flessore radiale del carpo, il rosso poté entrare nelle nostre gole. Fuori la neve, con calma, continuava a depositarsi.
Fu una notte piacevole. Il sonno durò ininterrotto.
Non uscii sino a dopo pranzo. Poi, troppe parole viziate m’indussero a cercare di bruciarmi i polmoni d’ossigeno fresco. Uscii nonchalamment in giacca.
La mano gelida del Generale Inverno penetrò dentro il mio petto e prese in mano il cuore, stringendolo e facendolo freddare in pochi istanti. Gli occhi lacrimarono immediatamente. Il primo caduto allo scoppio della guerra.
La temperatura era mutata.
Lo zero superato da una decina di gradi. Verso il sotto.
Era solo il preludio. Nei giorni seguenti si raggiunsero, di notte, i meno 18. Avevano freddo anche i tedeschi. Dice che veniva dalla Siberia.
Fu così che, rientrando immediatamente come da un atroce frigidarium a un accogliente calidarium e sentendo la pelle sottoporsi a stress elastici notevoli, seppi apprezzare il sovra-riscaldamento di quegli ambienti.
Dal castello condussero chi, come me, sarebbe rimasto a Berlino alla stazione del treno di Ludwigsfelde.
Gli olandesi parevano resistere bene, la lettone assiderava. Perché la stazione è completamente aperta al cielo del Brandeburgo e quel gran gelo siberiano l’aveva già ghiacciata. Io non ero sicuro di salvare i piedi, temevo già l’amputazione. Pensai al “Sergente nella neve”, agli stivali autarchicamente inadeguati. Pensai che i soldati schierati sulla Piazza Rossa erano autorizzati a muoversi durante l’Attenti! solo quando la temperatura raggiungeva i 23 sotto zero. Poi gelarono anche i pensieri. Riparammo tutti nelle scale del sottopassaggio, ma era debole conforto. Il treno non arrivava, d’altronde l’orario lo prevedeva più tardi. Non parlavamo più. Poi infine arrivò, dentro era caldo.
La linea ferroviaria taglia in due la città, ma io scesi alla Südkreuz; in realtà avevo un rendez-vous a Schönefeld, quindi dovevo prendere una metro, forse due. Ovviamente a Berlino treni e metropolitane condividono un’infinità di stazioni, tra cui questa della Croce del Sud: che nome evocativo! Era semplice ma ricca, aveva salvato il passato profumandolo di verità: e di quanto fuoriusciva dai chioschi, dai caffè e da ogni posto che offriva grassi e calorie.
Mi rifocillai e scelsi di prendere la prima cosa che mi portasse a Neukölln, da dove mi era sembrato avessi due chances, se non tre, no, addirittura quattro, per raggiungere l’aeroporto dove ero diretto: ovvero continuare sulla stessa direttrice con la S45, oppure anche con la S46 fino a una delle fermate che questa condivide con la U9 e tutto sommato sempre con la S45, ovvero cambiare lì a Neukölln scendendo alla U7, con la quale arrivare a Rudow e proseguire con l’autobus; infine, eventualmente, ancora rimanendo sulla prima direttrice, tentare di arrivare a Treptower Park e tornare indietro fino a Schönefeld di nuovo con la S9.
Semplice.
Ma pesante di dubbi e gravido di scelte… L’idea era di controllare i display e vedere entro quanto sarebbero arrivati i rispettivi convogli. Sì.
A Neukölln rischiai la morte, nel buio ormai calato che rendeva più intenso il gelo, se mai possibile. Ero rimasto vestito formale. Solo le scarpe erano più rudi, di solito con quelle avevo caldo. Invece adesso i piedi avevano ripreso, e alla grande, a indurire e a far male, sempre di più. Al petto sentivo un morso di ghiaccio che bloccava i polmoni e affaticava il cuore. Trovai un pertugio dove aprire il trolley e infilarmi un secondo paio di calzini di lana. Come se non avessi messo nulla! Allora, per salvarmi, mi misi a fare le scale che portavano dalla strada alle pensiline sopraelevate. Dopo un paio di volte, riuscii a salire la rampa di corsa, alzando alte le ginocchia e battendo i piedi su ogni gradino. Qualche risultato lo ottenni. Lo dico perché ho ancora tutte le dita dei piedi…
Con il cervello attanagliato era anche difficile scegliere la linea giusta. Non so cosa presi, so che arrivai a Schönefeld, forse con un cambio. Dall’uscita della metro all’entrata dell’aeroporto, circa 150 metri coperti. Coperti, ma aperti. Una sorta di portico in lamiera attraverso un piazzale fuori dell’abitato in una sera di dicembre nel mezzo di una circolazione siberiana.
Quando non so come riuscii a entrare nel terminal, credo che fossi in condizioni pietose. Ma fui puntuale all’appuntamento.
Da allora, Berlino fu magia.
E sebbene il freddo si intensificasse, lo sentii meno. Perché da soli si sente più freddo. Sempre.

La magia è una città molto grande ben organizzata che sotto una scorza severa rivela calori e dolori. Il Natale era prossimo. La neve in Alexanderplatz, come da canzone (“Alexanderplatz, auf wiedersehen, c’era la neve…”[1]), candida tra i tigli e le betulle del Tiergarten, ma soprattutto alla stazione della S-Bahn di Ostkreuz: tra pensiline lignee e ponticelli pedonali dal sapore antico ricevetti una sensazione di piacevolezza, nonostante il freddo che configgeva spilli nelle gote. Pensai alla segheria de “I ragazzi della via Pàl”, che non c’entrava assolutamente niente ma che ci posso fare? Quello avevo letto da ragazzo. Ma alla magia non puoi dare confini e lingue. Una signora anziana non ebbe bisogno d’aiuto a scendere la scala innevata nonostante l’affrontasse con le gambe appena coperte da un velo di calze e con delle scarpette più o meno primaverili. Era domenica. Il cielo grigio, eppure protettivo. Friedrichshain appariva bello. Amo questo quartiere, i suoi locali, i suoi negozi, il mercatino domenicale in Boxhagener Platz; i suoi cortili semplici e affettuosi, l’acciottolato di alcune sue strade; i suoi locali con belle vetrate agli angoli delle vie, il pub col maialino rosa nell’insegna; la sua gente giovane e non più memore.
Friedrichshain era Est. Lo capisci perché ci passa il tram, fa una fermata proprio davanti alla Lidl. Aria di casa! A Berlino, mi sento più a casa mia all’est. Ci sono i palazzi tutti uguali, un briciolo di relativa trasandatezza in più si percepisce ancora: ma c’è tanta, tanta più vitalità!
Non che l’ovest non mi piaccia, ma vive come se i traumi non ci fossero stati. Oggi, potendo, Damiel sceglierebbe di cadere all’est. Per esempio, davanti alla zoo, senza ragazzi, sentii freddo sebbene fosse estate. Ma quella volta ero solo. Da soli si sente sempre più freddo. Anche a Ferragosto.
Già. Non mi riesce di vedere Berlino se non in tempi di festa.
Quella volta d’agosto, mi cibavo quasi esclusivamente di wurst, soprattutto bratwurst ma anche alcune ricercate varianti, cotti in enormi pentoloni da dove me li pescavano come pesci rossi al luna-park, nascosti ancora vivi in un pane al quale da solo aggiungevo senape, spremendola dai grossi dispenser senza abusare. Li mangiavo poi ronzando tra la gente intorno ad allegre bancarelle lungo i viali. Questo baraccone dal vago sapore di campagna aveva luogo nel centro dell’Ovest, lungo Kurtfüstendamm e adiacenze. Lì presso c’è il Teatro dell’Occidente, c’è soprattutto, non tanto lontano, il Grande Magazzino dell’Occidente, Kaufhaus des Westens, ovvero il mitico KaDeWe con il suo Wintergärten delle delizie. Pasticciere. All’ultimo piano del palazzo, protetto da vetrate. Ipercalorico momento di obnubilescenza del superego. Appena sotto, direttamente collegato con scale fisse e mobili, l’eden gastronomico generale. Agli altri piani, il meglio del consumismo. Che non mi sembrò il peggio. Una festa.
Ora che possono condividerla anche quelli che prima la circondavano, la festa è ancora più bella.
I problemi li hanno risolti. Forse la Grande Germania fa in effetti un po’ paura, ma la fa soprattutto a chi non sa vederne le debolezze.
A chi non distingue più la terra modellata dal fango ma rattrappita dal gelo. Oggi è un gelo odoroso di magia, e di vin brulé e di kartoffelpuffer e di cani husky e renne a Charlottenburg. Era un gelo e basta per me fintanto che ero fuori di Schönefeld.

Da soli si sente sempre più freddo. In due ci si scalda un po’.



[1]Alexander Platz, di  Franco Battiato, cantata da Milva, Milva e dintorni, 1982.