Ricordi di viaggi di un italiano nascosto

di Enrico Proietti



silenzi@live.it

Belgio II

13.12.2013 17:50

Bruxelles

 

Cos’è Bruxelles? Una gran bella piazza e niente intorno.
Quante volte queste parole avevano offeso il sogno personale della capitale dell’utopia europea. Ma c’ero passato, non potevo non convenirne. L’emozione della Grand-Place è enorme, i suoi ori e i suoi ricami restano nelle pieghe del cervello e ne fanno colare lacrime dorate e merlettate quando ricordano la sciatteria intorno. Il Mannekin-Pis è piccolo e fa ridere, nessuno capisce perché sia riportato su tutte le guide. Mi ha deluso di più soltanto la sirenetta a Copenaghen, ma solo per la maggior consistenza di quella all’interno del patrimonio universale dell’immaginario. Ricordavo tralicci di tram, edifici sporchetti e lisci, pavimentazioni stradali irregolari e non per apologia di pavé; ricordavo scorrere via di traffico, né da metropoli né da ordinata cittadina “europea”; ricordavo sì l’Atomium, ma era più basso di quanto immaginassi dalle foto. E poi non c’entrava nulla con la città, isolato lassù verso l’Heysel.
Poi tornai a Bruxelles, avendo già imparato che poteva essere anche Brussel.
Ci tornai già incazzato con i corrispondenti dei TG italiani che la chiamavano Bruxèl, quando invece in francese è eccezione e si pronuncia Brüssèll(e), non discostandosi dunque troppo dall’etimo fiammingo. Dico: ci stai, sentirai o no come la chiamano?
Per meta avevo gli uffici della Commissione dell’Unione Europea: scoprii che erano un intero enorme quartiere. Non però separato ed esclusivo, ma integrato e frammisto di abitazioni, negozi, garage, parchi, chiese: una normale parte della città. Però, certo, tutta l’area che gravita intorno a rue de la Loi, a place Schumann e ad avenue d’Audemberg è il Quartiere Europeo. Lo chiamano così, ormai. È una piccola città apparentemente senz’anima: per averne troppe, forse.
Nei corridoi di quei palazzi si recita una contenuta, infinita finzione: quella dell’integrazione efficiente tra gli europei, in realtà stoltamente divisi, invischiati in stupidi stereotipi nazionalisti, offesi dal crollo dei propri modelli di società, servi della proposta a morale variabile d’oltre oceano. Ed impediti dalla lingua. Fuori, un pastore greco e uno irlandese quando mai si capiranno? Invece lì dentro algide ragazzone finlandesi, bocconiani in completo grigio, tedeschi colorati, olandesine senza treccia ma con lentiggini e andaluse corvine si capiscono perfettamente in inglese. Qualche minimo problema di lingua l’hanno con gli scarsi inglesi, che parlano la loro lingua albionica, ben diversa dall’inglese. L’inglese U.S.A. degli altri europei!
Tanto (fuorviato) anglicismo è anche osteggiato dalla componente francofona e belga in generale, che occupa per lo più i livelli meno alti. Si godono quei buoni stipendi, ma ti fanno capire quale sia per loro l’importanza del Mannekin-Pis. Anch’essi, dentro al cuore, pisciano sopra tutti gli invasori: eserciti o funzionari algidi, bocconiani, colorati e grigi.
Ecco, le troppe anime negli austeri, ma non tristi, palazzi e palazzoni degli uffici europei non hanno nulla a che vedere con Brüssèll(e): caso mai con Bruxèl. Però, mentre Brüssèll(e) ha un’anima, Bruxèl non ce l’ha. Ovvero: ne ha una posticcia, finta. Ma basterebbe poca poca buona volontà per donarle la vita.
Ad ogni modo, la frequentazione di quei corridoi, non proprio ovattati ma quasi, dove gli impiegati se ne stanno chiusi nelle loro stanze dalle pareti metalliche a farsi scandire il tempo dal sistema Adonis sul PC, mi fece amare più della prima – fugace – volta Bruxelles. In fin dei conti, non è che sia una mega-città, punti memorabili non tantissimi, però vicoli carini, straboccanti ristoranti di pesce o “boutiques di antiquariato” (a seconda che si tratti della zona tra la Montagne e la Monnaie o del Sablon), ne vidi. Scoprii il fermento di Ixelles, che mi sembrò (chissà) imperniato sulla cinefilia. Intuii, più che altro, la ricchezza di Anderlecht divenuta pullulante di mercati etnici: ma è sbagliato chiamarli così, poiché nascono per servire le varie comunità che lì vivono e non per scopi “etnici”.
Girovagai Bruxelles extra europea per la maggior parte nel tempo tra la fine degli impegni in Commissione e l’ora di cena, da solo. Compagni il vento e la pioggia. Non forti, ma insistenti. Aspri.
Pranzo, cena e dopo cena si felicitarono della compagnia di Stefania, stagista contattata già prima di partire, tramite amicizie, per farmi consigliare un albergo. All’una si mangiava in qualche mensa dell’UE, dove entravo con fare indifferente senza averne diritto.
La prima volta che andammo a pranzo, lei si sorprese. Mi aveva conosciuto la sera prima, fuori della stazione centrale, e i reciproci vestiti non erano intonati. Stefania, uscita appena da lavoro, vestita da Bruxelles europea, io da Bruxelles e basta, con un tocco di scarpe da far invidia a un americano: nella foggia, non nel gusto cromatico che invece era intonatissimo.
Aveva vinto un po’ di ritrosia, proposto un ristorante arabo. Perfetto, anche se era per non arabi. Avevamo rotto il ghiaccio surriscaldandolo con i vapori
di un buon cous-cous vegetale,
di un tè alla menta ferale.
Dopo discorsi standard come scadenti ottonari baciati, la serata si era chiusa presto perché eravamo in metropolitana, e poi il giorno dopo si lavorava.
Così, quando l’indomani l’attesi all’ingresso della Direction Générale Enterprises, non si aspettava di trovarmi più eurobruxelles di lei. Era contenta; io, in fondo, non troppo.
La conversazione urtava gli spigoli del formalismo, ma mi fu utile per cominciare a capire qualcosa di che ci fosse dentro quell’atmosfera un po’ ovattata un po’ zittita, però con un indiscutibile – ormai lo avvertivo – sottofondo: un retrogusto gaudente.
Questo era dovuto ai soldi, che piovono sui dipendenti UE come il cielo, si gris qu’un canal s’est perdu, si bas qu’un canal s’est pendu, sul plat pays. Jacques Brel (con modifiche).
Nel suo ambiente (lei era midollarmente eurobruxelles), nonostante il formale di fondo – ma io lo fui più ancora di lei! –, Stefania si sciolse a poco a poco.
In genere, le persone muovono i primi passi verso l’intesa tra loro parlando male di altre. Così fu. Vittima: la capo segreteria (“…babbiona!”) del suo Direttore Generale, un’italiana che avrei dovuto conoscere nel pomeriggio. Di lì, iniziò un’esplorazione del ventre della balena eurobruxelles, condotta di pasto in pasto, da pranzo a cena, da mensa a ristorante. Condimento delle pietanze erano osservazioni e pettegolezzi, critiche e descrizioni di personaggi.
Questo ambiente mi affascinava, tanto più quanto continuava a sfuggirmi. In fin dei conti, era un usuale insieme iperburocratico; e avevo conoscenza del settore. Però qualcosa sfocato rimaneva e non erano soltanto le conseguenze della retribuzione, che pure creavano quello stato di complice soddisfazione, evidente in ogni approccio. No, era altro in più.
Dunque, continuavo a porre domande a Stefania, che mi rispondeva, e da una visuale abbastanza distante dalla mia. Dunque, ciò avrebbe dovuto pormi in condizione di far luce, eppure niente. Capivo le ombre, ma non quale tenda aprire per illuminare il quadro. Se accendevo fari, era come in troppe mostre: la superficie della tela si irradiava di luce impedendo definitivamente la vista. Hai voglia a scansarti, a inchinarti, ad alzarti sulle punte: addio, immagine!
Così, quindi, era per me, seduto dietro ai tavoli riflettenti delle mense o a quelli assorbenti dei ristoranti. Mancava la sorgente, giusta per calore, intensità, direzione.
Conoscere e scoprire Bruxelles [Brüssèll(e)], intanto, tra occaso e vespero fu una bella azione dell’animo. Ritornai certo sulla mia ex Grand-Place, ormai anche Grote Markt, e tutto il resto, ma colsi un vago profumo di vita particolare in un incrocio d’un quartiere in Etterbeek, l’unità amministrativa a est di Bruxelles centro entro la quale ricade tutto il Quartiere Europeo, ai margini del quale è appunto la zona che dico, a meridione del Parco del Cinquantenario. Tranquillità un pizzico eccessiva, casette in mattoni: un incrocio a sei strade immenso, fuori dimensione con gli edifici, bassi, tutt’intorno. Pulizia, ordine, una macchina ogni quarto d’ora. Una calma sgomenta, emblema ossimorico di un belgio bifronte, ancor più di quell’isola per molti versi alloglotta che è Bruxelles. Una sensazione da arte metafisica, o magrittianamente surrealista: da definire dunque metarealista. René, suggeriscimi un titolo!
Non lo trovai io, lo cerco tuttora. Capita che occorra una definizione, alla nostra mente classificatoria, per sapere di aver compreso: capitò a me, in quell’ampio incrocio, aperto a ogni luce, quando ci fosse, a Bruxelles [Brüssèll(e)].
Smarrito nei miei crepuscoli, avevo perso di vista anche il problema di catalogare gli eurobruxelles. Probabilmente avevo troppo in mente le amministrazioni pubbliche italiane, con i loro mali. Lassismo, arroganza, demotivazione, sopravvivenza mediante sotterfugi. Da un lato. Dall’altro, sottoretribuzione, premio agli incapaci, ingerenza partitica e sindacale, impossibilità di far carriera reale. E ancora: lacci, forche caudine, controlli. Varchi elettronici, badges (chiamati anche budgets…), firme a ripetizione, moduli e contromoduli.
Continuavo a frequentare Stefania e, di conseguenza, a controllare i suoi orari, che erano giustamente adeguati al suo stipendio. Domandavo sempre, ma senza mai focalizzare, oppure non sapendo calcolare la profondità di campo.
Passavo ogni giorno parecchi minuti nella hall all’ingresso della sua DG Enterprises, essendo lei costretta al rispetto dell’orario o comunque a terminare il lavoro che stava facendo. Vedevo uscire e rientrare impiegati con il loro cartellino sobriamente appeso. Tanti non avevano la giacca, dunque alla fin fine non c’era poi un formalismo eccessivamente rigido. D’altronde ne avevo incontrati parecchi, vestiti un po’ casual.
Mentre attendevo quei pochi minuti, ogni volta ricordavo gli avvenimenti della mia giornata negli uffici UE. Come quel dirigente con il quale un suo collega mi aveva fissato un appuntamento alle 10:15. Io, lui, non l’avevo mai incontrato, né ci avevo parlato per telefono. Semplicemente, il mio primo interlocutore aveva chiamato la segretaria dell’altro, dopodiché aveva digitato sul sistema informativo interno l’appuntamento. Ora, stavo là nella segreteria di questo dirigente a fraternizzare con la segretaria (credo fosse austriaca). Si avvicinavano le fatidiche 10:15 e la porta del capo rimaneva ovviamente chiusa. Ero molto scettico che il tipo mi ricevesse. Di tanto in tanto guardavo l’interfono aspettando, o sperando, che suonasse. L’ora era scoccata, e niente. Non mi preoccupavo: se m’avesse ricevuto per le 11:00, già mi sarei ritenuto fortunato.
Alle 10:17, un uomo costernato apparve da quella porta.
Cercò le parole più formalmente pesanti per scusarsi di avermi fatto attendere. Mi venne incontro, mentre ancora non m’ero alzato completamente, e mi strinse la mano. Mi aiutò a togliere il cappotto e lo ripose su un appendiabiti. Quindi, invitò ad accomodarmi e, vedendo che mi dirigevo verso le poltroncine davanti alla sua scrivania, mi richiamò per indicarmi di sedere nel salottino, dove sedette anch’egli, di fianco a me. Poi mi ascoltò senza mostrare di pensare ad altro. Sul monitor gli era apparso il mio appuntamento, a me doveva dedicarsi.
Questo ricordavo. Poi giunse Stefania. Via verso un’altra mensa.
Tra un insalata e un dolce ipercalorico, parlammo della giornata e dei piani del mio rientro, ormai prossimo. Una goccia dell’eccellente cacao belga fece per caderle addosso. Stefania si scostò bruscamente e riuscì a evitare di sporcarsi il tailleurino avana ratto. Le cadde il cartellino che vi teneva appeso. Lo raccolsi.
In quell’azione, mi resi conto che era appunto un cartellino e non un badge magnetico, come quelli che costringevano i burocrati italiani. Si affacciò una domanda, molto più oziosa di altre poste nei giorni precedenti.
“Ma per entrare e uscire non timbrate?”
“Timbrare cosa?”
“Il cartellino. Non avete qualcosa per registrare le presenze?”
“No, non c’è niente.”
“Ma non so, una scheda…”
“Quale scheda?”
“E come fate per controllare gli orari? Allora, magari, uno può arrivare tranquillamente in ritardo e uscire prima…”
“Ma qui c’è un’alta professionalità!”, tagliò corto Stefania, stupita che volessi capire Magritte senza conoscere Piero della Francesca e Mantegna.
Già! Era questo il dato di partenza che non consideravo e che mi escludeva dalla comprensione: qui c’era un’alta professionalità. Era questa l’essenza intima alla quale non ero avvezzo, uso piuttosto alla farragine italica, dimentica dei maestri. Perché Eurobruxelles sarà pure un mastodonte, sì: ma ad alta professionalità!