Ricordi di viaggi di un italiano nascosto

di Enrico Proietti



silenzi@live.it

Budapest

30.10.2013 14:38

A Budapest successe quello che si vede accadere soltanto nei films. Rincontrai, il giorno dopo, una ragazza bella e dolcissima: era dentro un autobus su a Buda, mi sembra di ricordare che andasse alla Nemzeti Galéria, stava con un’amica intonata a lei. L’indomani, giù a Pest, me la vidi spuntare fuori dalle scale della metro. Era l’ultimo giorno dell’anno.
Non potevo andar via nel freddo. La dolcezza della persona (non solo del viso) e quegli occhi intelligenti mi attiravano molto. Purtroppo il magiaro è una lingua troppo difficile. Puntai su un largo (per quanto mi riesce) sorriso. Il cuore cominciò a tumultuare: “Niente da fare, quando uno è timido...”
Ricambiò il sorriso. Miracolo. Già sull’autobus, in verità, il giorno precedente, aveva furtivamente corrisposto qualche mio sguardo, senza farsi notare dall’amica. Parlava con lei e, mentre quella magari scrutava fuori dal finestrino o si guardava qualcosa che teneva in grembo, mi posava addosso per attimi eterni i suoi occhi stordenti. L’ultimo, intensissimo scambio c’era stato mentre io scendevo, e mi ero attardato apposta sul predellino. L’avevo poi notata scendere appena alla fermata successiva.
Le altre ragazze della città, tranne le belle e tristi prostitute senza età degli alberghi per occidentali, rimanevano piuttosto sulle loro. Non ostili, no, ma quasi impaurite: o forse pervase di una strisciante vergogna per la loro condizione economica, palese nei vestiti e nelle acconciature, tanto diversa da noi forestieri. Come se fosse colpa loro! Ma forse tanti italiani e tanti tedeschi dimostravano, con i loro sguardi e il loro comportamento, di credere che davvero fosse loro, la colpa.
Per tornare al film, ed essendo appunto un film, naturalmente lei parlava inglese. La conoscenza di quella lingua, a Budapest, era un decimo di quanto sia da noi: cioè prossima allo zero. Ma nei films, si sa, tutti parlano la lingua di tutti (ossia l’inglese, questi sono i films americani...), così potemmo dialogare.
Si chiamava Leila.
Spero che si scriva così, comunque così lo scriveremmo noi. Parlicchiammo un po’, lei arrossiva, le ridevano gli occhi: io mi imbranavo sempre di più, mi veniva di usare il francese, dicevo cose meno che banali, probabilmente arrossii anch’io.
Poi, d’improvviso, ma lentamente, le chiesi dove avrebbe passato quella notte, la notte del nuovo anno. Per un attimo ebbi una speranza molto vile: che non avesse un programma preciso e si lasciasse affascinare dalla proposta che ero pronto a farle. Venire con me alla festa dell’Hôtel Forum, in mezzo ai ricchi occidentali. Avevo visto le prove, si annunciava interessante.
Per la fortuna della mia coscienza, una seconda speranza scacciò la prima: che fosse lei a invitarmi a qualche loro festa.
Tonight?” mi chiese, sorpresa che attribuissi tanta importanza al fatto. “Beh, starò con i miei amici.”
La risposta peggiore.
Ero lì, dentro un bussolotto vetrato davanti la fermata di Vörösmarty Ter, a guardare il dolcissimo viso magiaro di Leila, e non riuscivo a profferire parola. Guardavo i suoi occhi, e m’illudevo (o forse era vero?) di riconoscervi un po’ di pentimento, anche in lei, per avermi dato la risposta peggiore.
Oh yes, sure...”
Cercavo ora di riprendermi, far finta di niente. Adesso, ancora un nuovo stadio, cominciavo a illudermi che dietro quel brilluccicare d’occhi ci fosse la speranza che io insistessi. Ma non volevo passare per l’usuale italiano rimorchione, allora la presi alla lontana: “C’è un modo tipico di passare il Capodanno qui?” Domanda idiota, ovvio.
For me?
No, I mean in Hungary.” Scemo: e dì di sì, per lei!
Oh...”
Era arrivata l’amica che aspettava, che piombò sulla scena con le mani in tasca e si piantò, seccata, a guardare il film.
Leila divenne molto, molto imbarazzata, spense gli occhi e mi trattò da turista italiano, o tedesco, od occidentale in genere. Finché arrivò presto il momento di congedarci.
Io mi riavviai nel freddo, freddo dentro, lei scomparve nel vapore che avevamo prodotto dentro al bussolotto davanti la fermata di Vörösmarty Ter.
Ma un passo prima di dissolversi, si voltò velocemente, per un ultimo incrocio di sguardi. Gli occhi brillavano.

Andai alla festa al Forum. Cinquantenni austriache ancora magre ma col culo pesante si scatenavano in trenini al ritmo di “Qué viva España”, sul palco cantanti del posto interpretavano con aria da femme fatale canzoni di Jesus Christ Superstar riarrangiate, il portiere col colbacco intascava per lui lautissime mance e lasciava entrare gruppi di italiani in jeans o in assurdi smoking, giovanotti scandinavi allampanati anche nel cervello destinati a fare da wallflowers, tappezzeria diciamo noi, tedeschi già ubriachi che soffiavano dentro le “lingue di Menelik” (certo loro le avranno chiamate diversamente) comprate in strada. Le vendevano ovunque: l’occupazione principale dei giovanissimi abitanti di Budapest, infatti, era quella di passare la notte fischiando dentro questi strumenti o altre trombette emettenti lo stesso suono acido e scolarsi, credo, per lo meno una bottiglia intera di vodka o altro alcool a testa. A quattordici anni. Un modo tipico di passare il Capodanno in Ungheria...
Scappai al ballatoio del primo piano, 6-7 metri più alto dell’atrio. Le cinquantenni austriache mi inseguirono parlandomi in spagnolo. Feci un gioco di nascondino dietro alcuni pilastri, riuscii a seminarle. Côté cours, lo spettacolo era pessimo, così mi rivolsi côté jardin.
Quel jardin!
Il Ponte delle Catene, davanti a me, scavalcava tutto illuminato da tubi giallo-oro il Danubio. Il Mátyás templon, la chiesa di San Mattia e Nostra Signora, in piena luce, lanciava le sue arditezze gotiche a riflettersi nel fiume. Halászbástya, il Bastione dei Pescatori e tutta la Várhegy, la fortezza di Buda, con Várpalota, il palazzo reale, nelle sue maestose architetture affacciate sullo strapiombo, sotto la luce dei proiettori, dominavano soavemente la scena.
Mi lasciai sedurre completamente dalla visione, dimenticando il frastuono forzato della corte, e rividi, così, fluttuanti in quella bellezza, gli occhi dolcissimi di Leila. L’incontro era stato breve, troppo: ma intenso. Lei, almeno lei, aveva trasmesso una storia di informazioni solo con le sfumature dei suoi occhi. E nel viverli di nuovo, vi scorsi dentro l’accendersi delle pupille, vogliose di vita, e il loro smorzarsi, timorose della disillusione.
Attirato nella crepa di quel contrasto di forze, sprofondai. Mediante i suoi occhi, Leila mi guidò fuori di quella sordida immanenza. E allora pensai a quante Leila, pochi anni prima che io nascessi, avevano offerto la loro dolcezza in pasto a un sogno: nessuno gli aveva fatto capire che era una chimera. E ora vivevamo i giorni della transizione, il regime era ancora del vecchio tipo ma non mordeva più, il flusso dei marchi e dei dollari che traboccavano dal casinò all’ultimo piano dell’Hotel Hilton, sù a Buda, e cadevano su Pest, su Obuda e su tutta l’Ungheria e prima o poi su tutto l’Est aveva addolcito anche quello.
Poi rividi le scene ai bar degli alberghi, le prostitute seminude sedute sugli sgabelli e i giovani italiani che le sfottevano, le sfottevano con una pesantezza inusitata, e quelle resistevano dolci anche di fronte all’Homo Riminensis, e quelli le sfottevano e le offendevano, poi si pigliavano tra di loro con parole pesantissime nel suono e nel significato, indirizzate a loro stessi, alle loro madri, sorelle, donne, e continuavano. Avevano continuato sempre più volgari come fosse un gioco finché uno non aveva detto semplicemente “stronzo”.
“Eh no, stronzo no, non me lo dici mica”, e allora quasi erano venuti alle mani. E il tedescone accasciato per la sbornia sul bancone che continuava a chiedere bicchieri e aveva rotto un boccale, poi una bottiglia e dei piatti, e rideva e ripeteva: “Kein Problem, ich zahle alles”, ‘Nessun problema, pago tutto’, e tirava fuori rotoli di marchi, ordinava ancora e ancora rompeva.
Guardavo il Danubio, che aveva visto tante cose, guardavo il Ponte delle Catene illuminato – chissà? – per la prima volta, forse. Pensavo a tutte quelle Leila di un tempo. Era valsa la pena costruire quelle premesse, per dare alla Leila di oggi questa Budapest?
Aspettai che la metro riaprisse alle cinque del mattino e me ne tornai a casa, alla periferia est. Quando uscii di nuovo in strada, il solito buio assoluto di una città senza lampioni era appena rischiarato, in fondo, dai preparativi dell’alba. Una nuova alba, un nuovo anno cominciavano.
Ma forse da queste parti le albe non portano niente di buono, forse da queste parti conviene sognare, vivere le notti, forse per questo io, qui a Budapest, ho avuto come musa Leila, “colei che vede con gli occhi della notte”.