Ricordi di viaggi di un italiano nascosto

di Enrico Proietti



silenzi@live.it

Stonehenge

25.11.2013 15:52

C’è una strada che taglia le colline gessose del Wiltshire pettinate di verde. È una strada abbastanza diritta, per cui soggetta a saliscendi piuttosto continui. Ogni tanto un boschetto sparuto finge di interessarsi alle automobili che fischiano nell’aria umida, animali al pascolo rimuginano con distacco sul proprio far parte di un paesaggio flemmatico.
Percorrevo questa strada in direzione ovest un giorno di settembre. Pioggia, ovviamente. Mentre guidavo dovevo fare attenzione a centrarmi nella corsia di marcia. Avendo un’auto con la guida a destra, il difficile di condurre a sinistra non è tanto quello di accostarsi da quella parte e restarci, quanto quello di porre la macchina alla giusta distanza tra ciglio e riga di mezzeria. Guidando, si è portati ad astrarre la corsia, tanto che stia a destra che a sinistra, e a considerarla una sorta di budello da percorrere. Poco importa, allora, se le altre automobili scorrono a sinistra o a destra: basta un po’ d’attenzione agli incroci e alle rotatorie. Il punto è che siamo abituati a regolare la nostra posizione, all’interno di tale budello, in base alla posizione della nostra persona. Cioè, con la guida sulla sinistra dell’abitacolo siamo abituati a che proprio alla nostra sinistra rimanga un metro-un metro e mezzo tra gli occhi e il centro della carreggiata, mentre a destra di noi lasciamo quei due metri e mezzo di distanza col bordo della strada. Nel Regno Unito fai la stessa cosa, istintivamente: peccato che stavolta, dentro quel metro che lasci alla tua sinistra, non ci sia soltanto la portiera, ma anche tutto il resto della vettura, che in tal modo va a mettere le ruote fuori strada. Ce l’hai tutta dall’altra parte! A Bognor Regis avevo rotto lo specchietto d’una macchina parcheggiata, la sera prima.
Steccati bianchi mi salutavano mentre sguisciavo nell’asfalto bagnato. Il landscape mi appariva addolorato. Non ero di buon umore, le cose, in quei giorni, non filavano nel modo che avevo previsto. Anziché rifugiarmi in altre pinte di stout, avevo affittato l’auto ed ero andato a lasciar amplificare i miei pensieri nel vuoto della campagna. Mi ero posto qualche meta, simbolica: la prima, Bognor Regis (“A well-known Bognor restaurant owner disappeared early this morning...”). Poi Oxford, la Cattedrale di Canterbury, il porto di Dover, Hastings e Battle, l’Uomo Lungo di Wilmington, Stonehenge.

Stonehenge mi apparve all’improvviso, schiacciata dall’effetto prospettico proprio di fronte alla strada. Mi si interruppe il respiro. Provai un’emozione intensissima. Le pietre sospese! Le avevo viste in fotografia, ci avevo imbastito i racconti dei miei giochi, poi le avevo studiate... Ora erano lì, semplicemente immanenti, dopo una vita di trascendenza dentro me. La gola si stringeva. Piansi lacrime di commozione e pensai “Ce l’ho fatta!”, come se avessi fatto chissà che.
Non mi accorgevo che ero arrivato a un incrocio con traffico canalizzato e mi trovavo sul canale sbagliato e correvo troppo. M’attaccai ai freni, l’auto sbandò leggermente, la ruota anteriore destra beccò un aqua plain, ma riuscii a fermarmi ugualmente. Le altre due uniche automobili presenti erano piene di occhi che mi guardavano sorprese e indignate. Feci un italianissimo gesto di “sorry” che, ritenni, non venne però capito.
Addrizzai, proseguii e parcheggiai sull’erba, o per meglio dire sul fango. Hanno questo di bello, i britannici. Lasciano inondare il centro di Londra da una colata di cemento, vetro e ferro (e il Principe di Galles chiede all’Italia il Palazzo Farnese di Caprarola per installarci una scuola d’architettura per gli architetti suoi sudditi: che imparino), ora c’è anche la Ruota del Millennio, però poi vogliono restare naïves fino all’estremo: per cui sguazzano eleganti nell’erba anche ai ricevimenti mondani e non ti pavimentano una piazzola per la sosta neanche se fosse l’erba stessa a chiedere di essere soffocata.
Scesi, e mi ritrovai davanti la sorvegliante dell’English Heritage, con la sua mantellona verde, lo stemma rosso sul braccio e le calosce. Aveva seguito la scena del mio arrivo chiassoso, e già mi teneva d’occhio. No, era anche dolce, sebbene rivelasse, nelle movenze e nella struttura, l’attitudine alle mischie del rugby: semplicemente, faceva – un po’ stolidamente – il suo dovere.
Pioveva una pioggia che più inglese non poteva. Per me. Per lei, no. Sembrava non accorgersene. Su quell’isola hanno un rapporto fraterno con l’acqua che scende giù dal cielo. Sul Gatwick Express, il trenino costosissimo che ti fanno prendere dal lontano aeroporto londinese da cui trae il nome (ce n’è anche un altro che ci mette 40 minuti anziché 30 e costa molto meno, ma non lo pubblicizzano), mi trovai ad ascoltare la conversazione tra una ragazza londinese che era in aereo con me e due marito-moglie ciccioni canadesi. La ragazza raccontava, con minuzie di particolari, della follia collettiva che colpisce gli italiani alle prime goccioline, tutti a correre goffamente cercando di ripararsi con il collo della giacca tirato su o ad aprire impaccianti ombrelli prima ancora di aver capito se è acqua o il bisogno d’un uccello, ed era sinceramente stupefatta. Lungo Southampton Row, a Bloomsbury, pioveva che Dio la mandava, incrociai un tipo che trasportava una piccola lastra di plexiglass. Ora, chiunque di noi italiani avrebbe tenuto la lastra sospesa sopra la testa, per ripararsi quanto possibile. Il londinese no: lui la teneva abbastanza aderente al petto, marciando piegato in avanti come a proteggerla! Così la sorvegliante dell’English Heritage: imperialmente, ma anche leggermente comicamente, imperterrita a capo scoperto sotto l’insistente azione meteorologica.

Ma, nonostante tutto ciò, Stonehenge era là davanti. Le pietre sospese respiravano l’umidità a 70 metri da me, banalmente visibili da una rete di recinzione che fiancheggia la strada. Tutto quanto frullava nella mia scatola cranica circa la Gran Bretagna e gli Inglesi era clamorosamente fuori posto. Qui non si stava nella piana di Salisbury nell’Inghilterra meridionale, qui eravamo a una porta dell’Infinito. Il pianoro era, è wide open verso l’Est, completamente ricettivo di ogni trascendenza. Il mistero aleggia fisicamente nonostante i giapponesi ridenti e scattanti (foto). Non c’è turismo di massa, che pure si intuisce esistere, che possa guastare del tutto questa atmosfera magica.
O forse ero solo un inguaribile romantico. Ancora.
Entrai, sotto lo sguardo controllore della sorvegliante. Sebbene fosse un’ora che guardava piuttosto al tramonto, l’apertura alla spiritualità verso l’Est si irraggiava di una luce pancosmica, ammesso che questa parola significhi qualcosa: ma tale, senza dubbio, era quel chiaro grigiore vivo di immaterica forza. Eccola, una parola che significa qualcosa, a Stonehenge: forza. I cerchi delle pietre sospese sono forza, apparentemente non manifesta eppure pronta a scatenarsi non appena si conceda loro una differenza di potenziale. È infatti un’energia immota, che possiedono: ma come ravvisano un salto, una possibilità di liberarsi, la emanano con una forza micidiale. La potenza delle pietre sospese te la fa entrare nelle budella. Non te ne liberi più, permane nella tua vita come un afflato recondito che soffia discreto dentro i pensieri meno prevedibili. Quella roccia trasportata misteriosamente da lontano ti graffia l’animo.
Cominciai a sguazzare nell’erba anch’io. La sorvegliante aveva raggiunto un suo collega. Ebbi la sensazione che mi stesse segnalando, chissà. Non capivo se fosse bellina o no. Bionda, il viso era aggraziato, ma l’immagine da giocatrice di rugby mi rimaneva. Peraltro, la mantellona verde le copriva il corpo senza lasciar capire se fosse poi realmente massiccio: in fondo, poteva avere il seno grande che faceva stare larga la cerata. Sicuramente, vestita da donna avrebbe acquistato punteggio in modo esponenziale. Le gambe, però, anche se nascoste nella gomma, non sembravano affatto snelle, almeno a livello dei polpacci. Insomma, la classica inglese, un po’ panna (talvolta acida) un po’ quercia (talvolta in fiore, nascosto).
La pioggia rinforzò e il vento, freddo, la ficcò in ogni dove. Il mio giubbotto, elegantino e italiano, si rivelò ovviamente incapace di fronteggiare gli elementi e si inzuppò all’istante. La sorvegliante dell’English Heritage, perfettamente asciutta sotto mantellona e calosce, offriva impertinente la sua testa bionda alla furia del tempo. I capelli s’erano appiccicati alle guance, ma lei non mostrava d’accorgersene o, pur avvertendolo, non lo riteneva rimarcabile.
Non eravamo in molti. C’erano i classici visitatori che fingono di riconoscere ogni pietra (salvo confondere i cerchi di arenaria con quelli di turchese): c’erano un paio di ragazze-giapponesi-con-le-gambe-storte-che-ridono, isolani in shorts e cappello Barbour, una famigliola tra l’allegria e la tensione da gita, me; e i miei pensieri pesanti. Questi ultimi addirittura più fastidiosi dei turisti saccenti e persino dei pargoli della famigliola.
Poi, già all’interno del perimetro delle Aubrey Holes, come attirato dal solito invisibile magnete di queste circostanze, o forse spinto dalle stesse pietre, guardai a est: e vidi l’Est. Creai la differenza di potenziale, la forza dei cerchi delle pietre sospese esplose alle mie spalle e mi penetrò. Fu un vero atto di violenza, ma piacevole. A onor del vero, anche cercato. Cos’ero venuto a fare a Stonehenge se non per esserne violentato? Chiodo scaccia chiodo, si dice. E infatti, finalmente quei pensieri indesiderati migrarono.
Nell’aria si sentiva vagamente l’odore monotono ma evocativo dell’Atlantico; andava a salutare le pietre che non vedeva da tempo. Affidai dunque a imprecisati scogli della Cornovaglia le mie tristezze e mi lasciai pervadere dalla magia. Che si diffuse con metodo. Che mi fece, alla fine, persino non sentire più il freddo. Che mi portò a girarmi e incrociare, con la faccia beota, di nuovo lo sguardo della sorvegliante, portatasi, anche lei come me, dalla parte diametralmente opposta all’entrata.
Nel mentre, il suo collega annunciò l’ora di chiusura e invitò i visitatori più lontani ad avvicinarsi all’uscita. Anche la mia aveva preso una posizione tale da impedire di proseguire oltre sul sentierino. I capelli biondi sempre più aderenti alla pelle. Le stavo lasciando addosso uno sguardo grave come quello di un bassett-hound al ritorno da una faticosa battuta. Forse le era familiare. Forse aveva capito tutto sin dall’inizio.
Easy, sir, same old story with the stones...”
Oh no, yes... No, me...”
Sputtanato. Un altro sognatore, quanti ne abbiamo fatti oggi?
Mi incamminai lestamente a capo basso verso il cancello d’uscita. Rialzai un po’ il mento, guardai in direzione dell’est. Solo nuvole gravide ancora. Un palo della luce o del telefono a mezza collina. Il freddo era tornato. Shit! Ma insomma, cosa mai era ‘sta Stonehenge?
Girai, prima verso sud poi verso ovest, raggiunsi il cancello. Mi voltai alla mia destra, ma oltre i cerchi delle pietre sospese la sorvegliante non c’era.
“Dov’è?”
La pioggia cessò di colpo, come se fosse finito il carico del secchio. Mossi repentinamente il viso dall’altra parte, verso est.
Una figura ieratica si stagliava luminosa sul ciglio dell’Est aperto all’infinito, i capelli biondi ululavano sciolti e secchi nel vento, colpiti da un raggio del sole tramontante, dopo aver attraversato magicamente le pietre. Era piena di forza. Il mio sguardo incontrò i suoi occhi.
Dardeggiavano.