Ricordi di viaggi di un italiano nascosto

di Enrico Proietti



silenzi@live.it

Belgio I

09.12.2013 15:31

Anversa

 

Se solo mi ricordassi!
Sono anni e anni che tento di far riaffiorare alla memoria quell’informazione immagazzinata velocemente da qualche parte del cervello mentre giravo una curva non lontano dal porto. Anni che tento di trovarla di nuovo da qualche parte, senza esito.
Potrei descrivere la fotografia incompleta che accompagna il ricordo di quella visione fuggevole. L’incrocio, le persone sui marciapiedi e sotto le tende dei caffè, quegli scuri palazzi commerciali, la luce del sole proveniente da sinistra, le automobili ferme o che attraversano, le vetrine dei negozi sulla via dalla quale provengo e poi: biciclette, pedoni in strada, un camion che scarica. Un flash. Manca solamente quel particolare.
Sono ritornato in Belgio, ma non più ad Anversa. Comunque, ora so che non dovrei cercare Anvers ma Antwerpen. Quella volta lì, non lo sapevo. Quando lo scoprii, mi spaventò anche un po’. La durezza della pronuncia di quel nome sembrava austero paradigma dell’abbandono del mondo latino. E il germanico, di cui Anversa è stata baluardo di frontiera (al di là dello Schelda è Fiandra, terra fuori dell’Impero) appariva un universo arcigno, freddo, di uomini-macchina sopravviventi nel buio dell’acciaio e del carbone, triste ai limiti dello sconforto.
Non fu così. Era estate. Il sole, alquanto caldo, colorava il fiume e le navi attraccate, tra le linee delle quali si insinuavano barche a remi e a vela. Non mancavano certo i gabbiani a volteggiare sopra: apparivano allegri, le loro grida quasi meno angoscianti del solito. Il castello dello Steen impavesato. Altri colori sui palazzi antistanti. Inoltrandosi nelle vie del centro, la città rideva ancora. Erano insegne, fiori, bandiere: l’ossessione, bella, per le bandiere dei popoli verso il nord dell’Europa! Erano facciate di palazzi cinquecenteschi, erano statue dorate, erano i visi delle persone aperti dalla stagione della luce.
Ero io che, convinto fulmineamente dell’idiozia degli stereotipi, avanzavo nello sconosciuto senza timori, piuttosto invece con l’ansia della scoperta. Non guardavo, nemmeno. Mi lasciavo permeare. Non cercavo nessuna meta, incedevo attratto dalle continue, piccole rivelazioni. Capivo pian piano che davvero non era Anvers: ma era proprio Antwerpen, proprio germanica, eppure bella, aperta, giocosa. Appariva falso quello che da qualche parte avevo letto: che gli abitanti sarebbero stati piuttosto agitati, focosi, quasi a volersi sentire discendenti diretti del mitico Brabo, nipote di Giulio Cesare che mozzò la mano al gigante Druon Antigon, liberando la città da quel terribile, a sua volta, mozzatore di mani e che diede poi nome a tutta la provincia del Brabante.
Ma allora la germanica Antwerpen si crogiolava delle proprie, storiche, ascendenze romane! Sulla Grote-Markt, un bronzeo Brabo trionfeggiava, anche un po’ macabramente, sul gigante sconfitto e mutilato: credo a morte.
Non fu per questo, però, che ad un certo punto, incrociato un gentile signore biondo con leggeri occhiali metallici, fermatolo con un sorriso e un discreto gesto del braccio, avuto da lui ricambiato il sorriso e il saluto, sia pur incomprensibile, gli chiesi in qualche modo se quella fosse la piazza principale di Anvers. Chiuse il sorriso, strinse gli occhi che scomparirono dietro la montatura, sibilò poche parole dure e filò. Rimasi basito e infastidito: più verso me stesso che verso di lui. Avevo sbagliato qualcosa nell’imbroglio di lingue non ancora dominate con il quale mi ero rivolto a lui, magari ero stato addirittura villano oppure aveva creduto che lo stessi portando in giro.
Mah!
Giunsi nella zona de het steentje, la pietruzza. Non seppi vederne molte in giro, di pietruzze. Non mi interessavano, ero troppo impegnato a guardare, a incamerare immagini e sensazioni, a respirare un clima diverso. Ogni tanto, dentro qualche portone, strani tipi vestiti di nero con il cappello pure nero dalla tesa rigida e circolare, la barba lunga, spesso occhialini. Molti meno colori qui. Mi allontanavo dal centro, tornai indietro. La pietruzza è il diamante.
Si fece sera. A pranzo, avevo gustato una mezza baguette riempita di ogni ben di Dio, ma la gioventù e il lungo vagare mi avevano presto fatto tornare la fame. Il sole s’era già nascosto quando mi decisi a entrare in un negozietto all’angolo di una via pedonale. Vendeva sacchetti di patatine fritte a bastoncino. Ne acquistai uno. Il venditore, che mi era apparso ridicolo con il suo grembiulino a righe rosse e il cappellino da fornaio, pure a righe, calato sulla fronte, mi chiese qualcosa tenendo entrambe le mani appoggiate sul coperchio di un bidoncino che troneggiava sopra il bancone. Gli feci ripetere.
Mayonnaise?”, capii stavolta.
Fui molto sorpreso. La maionese sulle patatine? Durante la mia esitazione, quello insistette.
Mayonnaise, ja?
Altri avventori aspettavano in fila dietro di me.
“Sì, ja. Ja, sì, sì”.
Spremette un chilo di maionese dentro il sacchetto. Aggrottai il naso. Uscii, rimproverandomi per come mi lasciassi sempre vincere dall’agitazione e pensando di aver sprecato i soldi. Ma avevo fame davvero. Mi feci coraggio, pescai nella melma e portai alla bocca un bastoncino giallo croccante completamente insozzato di crema biancastra. Chiusi gli occhi e lo masticai.
Era divino! Fu questa la prima scoperta culinaria – non raffinata, certo, però eccellente – che mi concesse Anversa. Nacque un amore. Purtroppo, la maggioranza degli italiani si ostina a versare sulle patate solo senape o ketch-up. Quando, ai pochi che ne posseggono, chiedo le bustine di maionese, vengo guardato come un ufo. Comunque, Anversa mi riservava, di lì a poco, altre sorprese.
Il buio era ormai calato e mi trovavo di nuovo al centro della città. Vedevo l’alta guglia della Cattedrale vicinissima. Improvvisamente, l’attenzione mi fu richiamata da una confusione e un vociare più latini che germanici. Parecchie lucette gialle disegnavano sgraziati arabeschi sulla quinta della strada, appunto giù verso la Cattedrale. Persi qualche attimo e alcuni passi prima di decifrare di cosa si trattasse. Bancarelle! Tante, affollate su due file contrapposte ai lati della strada; la quale curvava e, dunque, a causa dello schiacciamento prospettico, le corone di luci buttate sui tralicci e sulle tende di ciascun banco sembravano riempire tutto il fondo dello scorcio che si apriva da dove ero io. Mi avvicinai a grandi passi.
In quella sera del 15 agosto, come un qualsiasi paesotto, Anversa, la dura Antwerpen dei diamanti, la città che era stata il centro motore della cartografia con Mercator e altri, che ereditava i frutti stampati dalla grandiosa Officina Plantiniana, che aveva ospitato Rubens e tanti maestri, questa città che non voleva essere Anvers, festeggiava l’estate con una sagra. Semplice, gioiosa, colorata, chiassosa. Venditori e venditrici, dietro i tavoli coperti di mercanzie, vestivano antichi costumi tradizionali: gli uomini ostentavano ardite fusciacche, le donne le cuffie per i capelli. Si vendeva di tutto, ma prodotti usuali, nulla di esotico o di insolito. Molti offrivano roba da mangiare. E fra queste ‘usuali’ cose da mangiare era compresa l’altra grande, stupida e banale rivelazione che mi aspettava ad Anversa, prima città entro i confini dell’Impero da me incontrata.
C’era una bancarella che non so più che vendesse, con una affabile signora vestita di azzurro, dal grembiule marrone e la cuffia bianca dove indugiai, chissà perché, un momento in più. Appena mi sganciai da lì, rigirandomi verso il canale dove gli anversesi (anversani?) fiumavano semplicemente contenti di stare in strada, senza pretendere nulla di più sofisticato di quella allegra festa, mi ritrovai una cosa davanti alla bocca. Era qualcosa di scuro, porta da un tipo con in testa un cappellaccio nero, il quale s’era messo dalla stessa parte della gente appunto per invitare così brutalmente a consumare il suo prodotto.
Tirai un po’ indietro la testa per poter mettere a fuoco. Che cos’era? Sì, ora avevo riconosciuto, però ugualmente non capivo. Ebbene, la forma era senza dubbio quella di una valva di cozza recante il mollusco, ma le dimensioni, no, non erano di una cozza. Che fosse di plastica? Temendo magari lo scherzo ai danni del forestiero, feci per ritrarmi, ma il venditore, quasi offeso, continuò nel gesto, il braccio ormai completamente aperto. Sbirciai davanti a me: un suo collega non faceva in tempo a prendere i mitili dal bancone e aprirli che gli avventori quasi glieli toglievano dalle mani; poi raccoglievano spicchi di limone da una bacinella posta a metà tra i due uomini in costume, ne spremevano il succo sopra il rudimentale vassoietto nero della valva stessa e succhiavano compiaciuti l’animaletto, chiudendo gli occhi come in un’estasi gastronomica.
Non conoscevo ancora bene Parigi e i suoi bars à huîtres, per esempio, quindi mi perplessi un tantino. Tanto più che le gigantesche cozze erano conservate dentro catini pieni d’acqua dai quali un terzo uomo, all’interno, le levava man mano, passandole sulle cassettine dell’esposizione, dove sgocciolavano: e quindi dovevano essere vive! Da buon figlio cittadino del boom economico, già cresciuto nell’era degli omogeneizzati e dei prodotti confezionati, tanto gusto selvaggio mi spaventava; e poi era enorme, e poi era una cozza, che portava il colera, e figurarsi: viva! Però era qualche ora che stavo scoprendo novità, prima fra tutte che stavo ad Antwerpen e non ad Anvers; e poi tutte quelle persone davanti a me non dovevano mica essere idiote, e poi...
Trangugiai il mollusco che, per pietà, il venditore stesso aveva irrorato di limone. Fu questo, debordante, il primo sapore che sentii, infatti. Quindi il pepe, che non sapevo essere stato aggiunto. Ma infine, il sapore del povero animale che, pace all’anima sua, davvero era squisito. Chiusi anch’io gli occhi, istintivamente, per meglio godere di quel doppio piacere: della cozza e della scoperta. Avevo scoperto le cozze dell’Atlantico. Anche di quelle, sarei diventato uno dei maggiori potenziali apprezzatori.
Le accompagnai a una dolce birra, calda nella sua freschezza, pastosa, dalla schiuma corposa e profumata, con il sottile sapore amarognolo del luppolo che si insinuava sotto il manto del gusto dell’orzo come il calore che consegue a un abbraccio. Era tuttavia una birra commerciale, che in quella sagra paesana di città gonfiava stomaci su stomaci senza posa, inesauribile come gli oceani lontani e vicini che ora, con il movimento di marea, facevano fremere lievemente l’acqua dello Schelda. Ugualmente fremevo io, mentre sorseggiandola mi riconduceva al palato i sapori opposti, ma uniti nella gioia personale, della patate fritte con la maionese e delle superbe cozze dell’Atlantico.
Perché quella birra, il cui marchio riconobbi all’istante, avendolo già incontrato praticamente in ogni caffé e ristorante, rappresentava l’emblema mio personale di quella città, la più settentrionale delle Province del Sud, rimasta con loro cattolicamente spagnola ma pur sempre animata da mille Brabo, dunque spavaldamente neerlandese.
Perché il nome di quella birra rimandava alla Francia, a una provincia settentrionale della madre franca. Stella Artois. Ma in quella città che non voleva essere Anvers io, a un incrocio non lontano dal porto popolato da gente sui marciapiedi colorati di tende e in strada, mentre passavano automobili e biciclette specchiandosi nelle vetrine e un camion scaricava; in quell’incrocio di Antwerpen avevo scorto, in cima a uno scuro palazzo, baciata dal sole proveniente da sinistra, un insegna luminosa con il marchio della Stella e poi il nome: ma con la traduzione in neerlandese del nome della provincia di Artois. Quel tanto ricercato nome sta ad Artois come Antwerpen sta ad Anvers: nell’inusitata traduzione risiedeva il mirato destino di una città. Mai più, in nessun altro posto, avrei ritrovato tanto osare come quello di tradurre un logo commerciale stranoto.
Purtroppo è proprio quel nome l’unico particolare a sfuggirmi, nella fotografia che è la mia folgorante memoria-chiave di Anversa – Antwerpen.
Se solo lo ricordassi!