Ricordi di viaggi di un italiano nascosto

di Enrico Proietti



silenzi@live.it

Florida

04.03.2015 19:38

Ancora una e sono a sette. Come i gatti! Per fortuna non sono un gatto. Almeno spero.
Parlo delle volte che ho rischiato di morire. Almeno potenzialmente.
Vaghe ma vere, per fortuna ne ho ancora. Almeno una.

La prima fu alla nascita. Tre giorni incastrato. Mia madre non poté avere altri figli e a me è rimasta una discreta fobia dei cunicoli troppo stretti, che mi impedisce la speleologia.
La seconda, non so quanti anni avessi ma pochi, molto pochi. Andavamo al mare e con un amichetto eravamo in un canotto: a quattro, a tre metri dalla riva; quando il fratello più grande di questo amichetto annunciò, tronfio delle capacità appena acquisite, che sarebbe passato in immersione sotto il canotto, ebbi un presentimento. Infatti, riemerse esattamente sotto al canotto, ribaltandolo con i suoi occupanti. Affogai. Ricordo i baluginii dell’acqua mentre scendevo giù e toccavo il fondo. Bevvi. Poi… l’acqua sarà stata alta sessanta centimetri, e il primo adulto che era nei dintorni mi afferrò e mi tirò fuori. Sarò stato sotto due secondi? Magari anche tre. Però, insomma, lo spavento lo presi.
Quindi, passati gli anni dell’immortalità, quelli intorno agli otto in cui si pensa di essere diversi dal resto dell’umanità, ne avrò avuti dodici, presi il motorino di nascosto. Ero a Roma, in via Baldo degli Ubaldi, in discesa. Non sapevo dove andare, mi accostai sulla destra: a un certo punto decisi di tornare indietro, facendo inversione a u. E la feci. Ovviamente sopraggiungeva un pullman. Non mi prese, non successe assolutamente nulla. Ma non mi prese per cinque-dieci centimetri. Se mi avesse preso, non so come sarebbe finita, però non mi prese.
E siamo a tre.
Ancora mare: 1985, Calabria, costa tirrenica, onde grosse. Per mettermi in mostra davanti alla bella, bagno. Non conoscevo quei mari e quelle correnti. Una risacca fortissima, non riuscivo a tornare a riva. Me la vidi brutta. Poi ci riuscii. Dopo, uno del posto mi spiegò che lì bisogna aspettare la terza onda, far passare le prime due, e la terza porta a riva. Averlo saputo prima!
Analoga fu in Mozambico, a Macaneta. Lì, rischiai quasi l’eroismo, perché mi buttai per salvare un adolescente. Stesso problema della risacca. Non c’era mare grosso, ma la risacca era oceanica, quindi forte, favorita da una qualche conformazione della costa e dei fondali. Questo ragazzetto, quattordicenne, si era un po’ allontanato, una quindicina di metri dalla riva e non sapeva nuotare. Un ragazzo sudafricano ed io ci buttammo, e meno male che eravamo in due. Ci volle uno sforzo enorme per portarlo dove si toccava. Il giovane boer arrivò prima di me, afferrò correttamente il ragazzetto e iniziò a trascinarlo verso riva. Dopo parecchie bracciate, avanzato solo qualche decina di centimetri, letteralmente me lo tirò, esausto. Mi arrivò addosso, fortunatamente guadagnando una metrata grazie all’impulso del lancio. Ma io lo presi male, anzi fu lui che prese me e per la paura, fatalmente, mi si aggrappò trascinandomi sotto. Alla fine ce la facemmo, ma uscendo avvertii un dolore in mezzo al petto molto forte. Chissà, rischiai?
La sesta, fu in Florida.

Tampa era stato un dedalo di incroci. Eravamo finiti in un quartiere povero. A prima vista sembrava quasi carino, con quelle casette di legno e il verde di prammatica davanti. Ma a guardare meglio, si capiva che non erano villette, piuttosto baracche ben fatte a imitazione delle villette. Il verde era ingrigito, nel ricordo lo vedo come unto di idrocarburi oppure malato di tumori che lo consumavano. Qualche anziano nero con evidenti segni di malattie non curate o anche di alcolismo sedeva nelle verande e scrutava con sospetto. Qualcun altro meno anziano osava farsi verso la strada con fare di domanda e pronto alla sfida. Intorno, il nulla: nel senso di un nulla di sentimento umano. I neri non facevano nulla e questo nulla incuteva timore. Un’incalzante sera invernale, e a Tampa col sole sembrava più inverno che a Key West con la pioggia, impediva tramonti romantici. Via, mostrando decisione, non importa la direzione. Finalmente riapparvero i segnali della Interstate 75, e ancora con la luce ci incamminammo in direzione sud. Di nuovo in cerca della Florida dei telefilm. Che però non c’era.
Il nuovo millennio ha regalato un’ennesima stagione di fama a Miami. Coatte arricchite di casa nostra ci “fanno un salto” appena possono. Ex calciatori e ignorantoni fuor di stereotipo vi hanno investito nell’immobiliare. In base al mio ricordo, mi sono fatto l’idea, tutta da verificare beninteso, che tanta fortuna derivi da una larga circolazione di cocaina a buon mercato. Oppure ho visto senza prenderne le distanze Miami Vice. Sì, però quando l’ho vista io, Miami Vice già c’era e lo stesso la città era tanto decantata quanto mi si rivelò deludente.
Già sull’aereo, in luogo di avvenenti bellezze, c’era un pienone di vecchi. Imparai all’istante che gli anziani americani si trasferiscono a passare la loro vecchiaia negli Stati più caldi e tra questi forse proprio la Florida vanta il primato. Ci mancava la presentazione delle pentole, poi sembrava davvero una di quelle gite in pullman al santuario, partenza alle 6:45 dal piazzale della stazione, visita alle reliquie e al convento, pranzo in ristorante tipico e al ritorno dimostrazione delle padelle antiaderenti. Simpatico omaggio a tutti i partecipanti.
Quando in auto si va da Miami alla Beach, c’è un ponte di tipo autostradale a una grande arcata. Imboccandolo, la vista è nascosta dalla salita, poi arrivati al culmine si apre lo sguardo sulla laguna e sulla corona di alberghi di Miami Beach che a quel punto si stendono ai piedi. Uno spettacolo che colpisce. Tanto da tornare indietro e ripeterlo.
Poi, però, arrivati sul lungomare dal quale il mare non si vede perché coperto da quella quinta di alberghi, superato lo stupore iniziale per qualche murale trompe-l’-œil e qualche macchina sportiva, la percezione cambia.
Forse mi istradò male il nome dell’albergo, Marc O’Polo, ma ben presto tutto mi parve posticcio, come la mozzarella sulla pizza.

Questa è una breve storia che merita un inciso. A Fort Lauderdale, Guido, un romano che aveva sposato un americana, aveva aperto la pizzeria “Solo Pizza”. Perché “Solo” e non “Only” o “Just”? Perché le ultime quattro cifre del numero di telefono, successive a quelle, ricordabili facilmente, di una specie di numero verde che infatti si aggirava sull’800, erano 7656. Ma, pare, gli Americani sono abituati a ricordare i telefoni con le lettere già da prima dell’invenzione degli sms, com’era al tempo del mio soggiorno in Florida. E dunque, ecco la scusa per un ulteriore omaggio all’italianità. O forse l’omaggio era al corelliano Han Solo?
Comunque sia, aveva questa pizzeria dove ci lavorava con un marocchino, altra cosa tipicamente italiana. Quando andammo a trovarlo, Roberto ed io, ci decantò l’Ammerica e ci illustrò il suo lavoro. Ma non era uno di quegli oscuri immigrati che abbiamo visto nei filmati Luce, era un bel giovanotto che aveva messo su il suo business dopo una ricerca di mercato. Era andato lì perché dopo aver sposato l’ammericana aveva deciso di seguirla e si stava dando da fare. Se la prendi bene, l’America può essere ancora il Paese dei sogni. Il suo lavorante marocchino si era appena comprato una spider decappottabile rossa che faceva un gran figurone: l’aveva pagata, usata, una cifra molto ragionevole. Un gallone di benzina costava come una bottiglia d’acqua minerale, dunque con una macchina simile potevi davvero fare il ganzo sul lungomare. Aveva gli occhi fiammeggianti. Il marocchino.
Guido era un bravo ragazzo, però un po’ troppo rapidamente fattosi americano. Col suo entusiasmo da neofita dell’etica del guadagno vedeva tutto positivo, ogni cosa bella. Già da italiano, doveva essere di quei fortunati perennemente ottimisti e incuranti dell’impressione di anime semplici che potevano ingenerare. Tra le varie cose che raccontava decantandole, ci fu la cosa della mozzarella.
Ci mostrò tutto contento un secchio di roba bianchiccia. Poteva essere colla vinilica rappresa o sudore di foca del Maine emulsionato. Per come si rapprendeva in piccoli grumi mollicosi ispirava un senso di sintetico.
E infatti: “Questa è mozzarella; cioè, la fanno a Chicago, è industriale.” E la parola ‘industriale’ riempiva la bocca di Guido del sapore della piana del Sele; ossia, del suo preteso ricordo.
“È buona!” magnificò staccandone un pezzo che non si sfilacciò neanche un po’. “Assaggiala”, e mi mise tra i denti quel mega-grumo.
Sorpreso, non potei ritrarmi e dunque mangiai. Non è il caso di descrivere. E Guido, infervorato: “Allora, com’è?”
Che dirgli? Mi sentii Sergio nel negozio del padre di Rossella[1] e come Sergio me la cavai.
“È industriale…”, risposi cercando di copiare il ricordo dei bufali dalle parti di Pæstum.

Il regno del posticcio era a Orlando. Posticcio dichiarato, e per questo forse accettabile. Orlando è Disney World ed Epcot Center ed è anche moltissimi altri parchi tematici, da quelli marini agli Studios Universal. Finte pagode, finte venezie, finti decolli con un astronave, finti terremoti a San Francisco; cibo finto, vergini finte, peccati finti. Ma la cosa più finta di tutte era stata la Root Beer. Nella mia ignoranza e nella ingenuità che i nomi delle cose e dei posti hanno nell’inglese, soprattutto del Nuovo Mondo, per me che una marca o una tipologia di birra si chiamasse “Radice” ci stava tutta. Peccato che stessi dentro il Regno di Disney.
Le cameriere e in generale tutte le inservienti portavano pesanti gonne marroni lunghe fino alle caviglie, nel senso di sotto le caviglie. Non gira alcool nel Regno. Disney è quello che Paperino ha tre paperottoli per casa ma non sono figli, bensì nipoti; e lo stesso è per Paperina. Insomma, qualcuno copula, ma in altre storie. Nel Regno di Disney tutto è, oltre che finto, platonico. Anche l’alcool. Finto e platonico. Perché chiamare beer una delle più cattive bevande gassate che esistano sulla faccia della terra? Perché farla di un colore che vagamente potrebbe essere di una birra? Chi ha copulato al posto di Paperino? Chi si è ubriacato al posto mio? Ma almeno fosse buona: solo la Cherry Coke la trovai peggio, che non riuscii a berla e la sputai.
Il parcheggio di Disney World è talmente sconfinato (tutto a raso, lo spazio non manca nella piattissima Florida) che per arrivare all’ingresso c’era uno di quei trenini su gomma col locomotore tipo trattore e i vagoncini aperti. Su ognuno di questi, un altoparlante diffondeva musica stucchevole e annunciava le fermate nei vari settori del parking. Dopo alcuni minuti, arrivò inequivocabilmente di fronte alle biglietterie e si arrestò. Probabilmente esasperati dalla musichetta, Roberto ed io ci demmo uno sguardo d’intesa mentre ancora frenava e, non appena fermo, balzammo giù. Ci bloccammo, forse rimanendo sospesi nelle rispettive pose assunte dopo il salto, nell’accorgerci che nessuno degli Americani si era mosso. Proprio mentre cominciavamo a pensare di dover risalire, dagli altoparlanti giunse l’annuncio: “Siamo arrivati, potete scendere”. Fummo sommersi da una marea di ciccioni mangianti, di nonni e nonne con le brache corte e i caps in testa, di ipertrofici fisici dall’insano ottimismo, di inevitabili asiatici meravigliati come per un dovere di educazione. Da primi che eravamo diventammo gli ultimi.

E così, eravamo sulla Interstate 75 e il crepuscolo iniziava. La strada era divisa praticamente in tre carreggiate. Le due esterne, a doppia corsia, per i rispettivi sensi di marcia e quella centrale, di eguale ampiezza, era invece in erba, con una leggera concavità al centro. Pochissime autovetture in entrambi i sensi di marcia. Pochissime, nel senso che si potevano percorrere anche cinque miglia senza affiancare nessun’altra macchina.
C’è forse un ancestrale impulso a rientrare nella caverna prima del buio che spinge ad accelerare per arrivare a destinazione ancora con almeno un po’ di chiarore sopra la testa. O magari è quel cocktail tra prime tenebre (illusione di non esser visto) e visibilità ancora discreta (pretesa di sicurezza) a far aumentare la velocità. Oppure si corre per non pensare alla metafora della morte del giorno. Fatto sta che in quell’ora che volgeva il desio si navigava ben oltre l’iniquo limite delle 55 mph.
Acquattata come un animale da preda sul fondo della corsia erbosa, non vedemmo la pattuglia della polizia armata di radar. Dopo un po’, ce la ritrovammo dietro il culo con la sirena ululante e i lampeggianti blu e rossi eclatanti e tuttavia sornioni. Tramite un altoparlante incorporato nelle dotazioni esterne dell’auto, ci intimarono qualcosa difficile da capire in quella voce gracchiante; ma altro non poteva essere che di accostare. Fermammo con due ruote sull’erba a destra dell’asfalto.
Fu lì che mi giocai la sesta.
Dei due, ero quello che parlava meno peggio l’inglese e già avevo capito solo lo spirito dell’intimazione, ma non la lettera. Temendo che i due agenti avrebbero continuato i gargarismi nell’altoparlante e quindi di irritarli da subito per non capire cosa avrebbero detto, ebbi l’idea meravigliosa. Aprii la portiera, iniziai a scendere e urlai: “I don’t speak English!”. Avevo appena messo il primo piede a terra quando i due poliziotti in divisa grigia estrassero le loro pistole, si ripararono concitati e molto tesi dietro le portiere spalancate della loro auto e me le puntarono contro nervosissime. In un flash mi scorsero tutti i film che ci avevano sempre fatto vedere, rilessi mille articoli di giornale, non rividi gli infiniti video di YouTube semplicemente perché YouTube non l’avevano ancora inventato, sentii le pallottole fischiarmi incontro cercando di prevedere quale esito avrebbe avuto il piombo all’entrare nelle mie carni. Bè, per fortuna quest’ultima cosa fu solo parto della mia paura: i due cops si fermarono un attimo prima di premere i grilletti. Rientrai in macchina.
Stavo ormai dentro l’abitacolo e ancora mi aspettavo di sentire un colpo arrivare, spaccare il cristallo del lunotto, attraversare il poggiatesta e conficcarmisi nella nuca. Reso animale dalla paura, sentii la loro tensione scendere solo quando uscirono da dietro le portiere e vennero avvicinandosi alla nostra macchina.
Credo che mi salvò l’essere uscito con le mani ben in vista, in un istintivo segno di resa. La resa era di fronte al loro inglese, per fortuna essi dovettero valutarla come un messaggio di non belligeranza e ciò li fece riflettere quel tantino che bastò a non spararmi.
Ero a sei.

Ripresi dallo spavento, fatto il mea culpa, tornammo quel che eravamo e fummo abili a virare la storia da possibile tragedia a farsa. I due in divisa grigia con una banda gialla lungo i pantaloni erano il Sergente Lee e l’Agente Ramirez. Immediatamente, puntammo sul latino. Non sulla lingua, ovviamente, ma sull’agente dal cognome chicano. Non ci costò nessuna fatica attaccare discorso. Più o meno aveva la nostra età. Neanche Lee era molto più grande, però il taglio nazista dei biondi capelli, il cappello di foggia coloniale, ma grigio come la divisa, incorporato sulla calotta cranica a nascondergli le corna e lo sguardo duro di chi si spaventa a ragionare lo facevano apparire più maturo, anzi quasi marcito. Ramirez per prima cosa si tolse il cappello, che non c’era più un solo raggio di sole dal quale difendersi. Aveva fatto il militare in Marina ed era stato a Gaeta!
Fu la sua fine.
“Gaeta? Ma allora conosci Davide!”.
Ci seguì: “Davide chi?”
Non ci parve vero. “Davide, quello che ha la sorella bbona…” Probabilmente nel simil-inglese mischiato di simil-spagnolo e di italiano da film di mafia ci scappò proprio la parola in romanesco. I gesti furono più efficaci di ogni tentativo linguistico.
Ramirez si allargò in un bel sorriso e rifece i gesti descrittivi, annuendo. Intanto il Sergente Lee scriveva, sempre col cappello a ottundergli il cervello.
“Ah, sì, dici di sì: ma allora sei andato con la sorella di Davide”. La nostra voce si era fatta risentita. “Davide è nostro amico.”
L’Agente Ramirez, anzi, il Marinaio Ramirez qualche uscita con una donna, a Gaeta, doveva averla fatta. Stette al gioco e avrebbe potuto essere l’inizio di un’amicizia. Negò, noi insistemmo che forse non s’era comportato da galantuomo, ridemmo tutti insieme.
E poi arrivò Lee. Ramirez ci parlò un attimo, la faccia del sergente era schifata di tutta quella amicizia latina. Tirò fuori la multa, un fisso più un tanto per ogni miglio sopra al limite.
Pay your fine at Seven Eleven!”, abbaiò Lee. Dovevamo pagare l’ammenda al 7-11.
Seven Eleven of what?”, chiesi per capire al 711 di quale strada, edificio, uscita autostradale o altra diavoleria americana dovessimo andare per estinguere la sanzione.
Ramirez ci spiegò che il Seven Eleven era una catena di supermercati. La multa si pagava alla cassa del supermarket. All’epoca, a queste latitudini, non c’erano tabaccai o ricevitorie dove pagare le multe. Cassa comunale o bollettino postale, e stop. Probabilmente tale constatazione ci fece sorridere un po’. Lee dovette interpretarlo come il sorriso beffardo di due latini già nella culla del pensiero che mai e poi mai pagheranno una multa allo Stato della Florida, dovendo rientrare in Italia dopo poche settimane. Quindi s’inventò la minaccia. Ci ammonì che se non avessimo pagato, al momento di presentare il passaporto in dogana ci sarebbe stato sequestrato.
Volevo fargli “buu” quando Ramirez ci disse, col fare da vecchio amico saggio, che se invece che in Florida fossimo stati in Alabama, saremmo stati arrestati. Gli occhi del Sergente Lee rimpiansero di non trovarsi nello Stato confinante.

Prima che trovasse una scusa, ripartimmo incazzati, chiusi in un mutismo che il buio sopraggiunto non aiutò a sciogliere. Nemmeno le basse e monotone cortine di verde che ininterrottamente chiudevano la vista ai lati dell’autostrada predisponevano al buonumore. Tanto meno la solitudine e l’obbligo delle 55 mph. Provammo ad accendere la radio, ma la lingua del Sergente Lee la odiavamo. Spegnemmo. Altre decine di miglia. Ci avvicinavamo alle Everglades sempre neri. Poi Roberto portò la mano all’autoradio, accompagnando il gesto con una parolaccia. Ne uscirono degli accordi rotondi.
Háblame de ti bella señora,
háblame de ti y de lo que sientes
háblame de ti de tus silencios,
háblame de ti de tus amantes,
si de tus amantes.

háblame de ti bella señora,
de tu más secreto, de tu noche oscura...[2]
Quella canzone suggellava il patto latino tra la lingua di Ramirez e l’Italia. Ridemmo, e nella notte oscura intuimmo sereno il cielo sopra la Florida.



[1] Riferimento a una famosa scena del film “Borotalco”, di Carlo Verdone (1982): https://www.youtube.com/watch?v=JiF44RVoekA.

[2] Si tratta di “Bella señora”, dall’album “Vida” (1980), canta da Emmanuel (www.youtube.com/watch?v=FWrXDxNFykU); versione in lingua castigliana di “Bella signora”, cantata da Gianni Morandi (“Varietà”, 1989), scritta da Lucio Dalla e Mauro Malavasi (www.youtube.com/watch?v=Bfn5nzBdJwQ). La canzone in Italia è popolarmente ricordata nella discografia di Dalla, che l’ha spesso cantata insieme all’amico Morandi (https://vimeo.com/103508406)