Ricordi di viaggi di un italiano nascosto

di Enrico Proietti



silenzi@live.it

Catalogna

10.04.2014 06:56

Arrivai con il treno alla stazione di Girona che stava già avanzando la sera. Avevo fornito vaghi riferimenti circa il mio giungere in quella città: con quale treno, a che ora, di quale giorno. Ero pronto ad affrontare i disagi di un viaggiatore che deve raggiungere qualcuno ma non sa dove stia.
In effetti, andavo lì per incontrare un copain che si era stabilito in un paese dell’alta Catalogna per seguire la sua donna. L’aveva conosciuta quasi per merito mio, a Roma. Era una turista solitaria e lui cameratescamente mi disse: “Vai, questa fa per te.”
A me non andava, così replicai: “No, Fulvio, guarda che è per te: è spagnola.” Sapevo della sua propensione per tutto quanto solo puzzasse un po’ di spagnolo e di quanto bene parlasse quella lingua. Seguì un breve “Ma non è spagnola!”, “Ti dico di sì.”, “No.”, “Sì.”, dopo di che si convinse, quasi per scommessa. Era spagnola, parlava benissimo italiano (per cui aveva compreso la nostra conversazione idiota) e dopo poche settimane divenne la sua donna. Tornò a casa sua, ma poi lui la raggiunse e si trovò un lavoro. Ora, dalla Francia dove mi trovavo, li andavo a trovare, raccogliendo il caldo invito che mi avevano rivolto. Però, la mia indeterminatezza...
Fulvio sbucò fuori appena ebbi messi entrambi i piedi sulla pensilina, tutto accaldato, mezzo afono, con i capelli spettinati e le lenti degli occhiali sudate, girandosi a urlare qualcosa a un’addetta della stazione. Era lì da ore, ed essendo però giunto appena in ritardo rispetto all’arrivo del treno che supponeva avrei preso, aveva mobilitato le reali ferrovie spagnole: aveva fatto lanciare un annuncio dagli altoparlanti, poi, convinto che io non lo avrei capito nell’idioma castigliano, aveva ottenuto di poterlo ripetere lui stesso in italiano. Niente. Certo: io avevo optato per un altro orario! Però lui, attese.
Questa premura mi commosse. Ci mettemmo subito in marcia per La Bisbal d’Empordà, la cittadina dove risiedevano, che porta nel suo il nome che diede a tutta la regione la romana Empuries. Le rovine di questa sono una trentina di chilometri a nord, affacciate sul meraviglioso golfo di Roses. Mentre il cielo s’abbuiava, attraversammo piccole conurbazioni, terreni da dove sbucavano fuori villette e ristoranti con parcheggio, frazioni affollate lungo la strada, una campagna deserta e giungemmo a La Bisbal, trovandola tutta illuminata per le feste di mezzo agosto. Per la via, centinaia e centinaia di persone vocianti. Fermi a un semaforo, con i finestrini abbassati, fui sommerso da una discussione fra due famiglie con passeggino che si erano incontrate. Il mio spagnolo, allora più scarso di oggi, non mi avrebbe permesso comunque di capire cosa dicevano: però, almeno un’idea... Invece, per me avrebbero potuto parlare in aramaico, bantu o barese; avrebbe fatto lo stesso. Ma barese, no, in effetti. Il barese ha più schiocchi.
Un diavolo di dialetto. Serbava qualche fonia dello spagnolo ma, ascoltando con un po’ di attenzione, vi coglievo diverse vocali “o” pronunciate “u”. Pensai, con una punta di malessere, d’essere finito veramente in una zona, come dire?, campagnola, provinciale: “burina”, si chiama da noi. “Lo si vvistu?”: con questa affettuosa domanda denominiamo, a Roma, qualche giovanotto dei paesi limitrofi che parla un dialetto di radici diverse (essendo Roma notoriamente un’isola alloglotta, a causa dei molti forestieri, soprattutto toscani, insediativisi al seguito dei vari Papi o conquistatori). Bene, mi pareva d’essere circondato da simpatici “Lo si vvistu?”.
Arrivammo a casa, Assumpció mi fece delle feste parche, stava già preparando la cena: annunciò un gazpacho. Rabbrividii (non riesco a mangiare i pomodori crudi, mi dà la nausea il solo odore). Per fortuna, si trattava di una variante della specialità andalusa e, anziché un cocktail a base di pomodoro, era una sorta di passato di verdure. Buono.
Sebbene fosse già tardi, dopo cena si uscì. Un giretto tra questi paesanotti allegri. Era strano. Quando Fulvio e Assumpció parlavano tra loro, capivo abbastanza, sebbene anche lui fosse molto disinvolto nell’uso della lingua. Le persone che incontravo e che chiacchieravano tra loro mi davano di nuovo l’impressione di parlare swahili. Boh! Ogni tanto incontravamo qualcuno che loro conoscevano e io ero unito ai cenni di saluto che ci venivano indirizzati. Ricambiavo con forzati sorrisi e qualche cenno di capo.
Nei giorni a seguire fui portato, ora da Fulvio o da Assumpció, nei ritagli di tempo di ciascuno, ora da entrambi insieme, a visitare quest’angolo nord-orientale di Spagna.
Mi fecero conoscere uno dei massimi incanti, la Costa Brava, con grande discrezione, fuori delle rotte turistiche. Ora non ricordo i nomi, guardando la carta posso azzardare un Llafranch o una Calella de Palafrugell: mi condussero in una piccola insenatura tra due speroni di roccia popolata di vegetazione aspra ma pasciuta, uniti da una spiaggetta di sabbia grigia dove bagnanti ordinati contendevano l’acqua a qualche barca e windsurf. Resistemmo un po’, ma gli occhi di Assumpció soffocavano e anelavano solitudine. La raggiungemmo poco dopo.
Andammo in una spiaggia più ampia qualche chilometro a sud. Protetta da una scoscesa falesia, che solo quelli del posto sanno dove discendere, di sabbia gialla a grana grossa, inframezzata a distanze regolari da scogli che precipitano in mare dalla scarpata, leggermente girata verso ovest, quanto bastava a noi quella sera per vedere il sole rosso e immaginarlo inabissarsi nell’Atlantico. Eravamo infatti al finire del giorno, soli tra la terra, alta sù in cima, e il mare, aperto a mille colori davanti a noi; come dimenticati tra quotidiano ed eterno. Il sole spalmava languide pennellate, qualche gabbiano volava, l’estate, che già sentiva avvicinarsi la fine, si apprestava a riposarsi qualche ora. Una breve, meditata pausa del tempo.
Rischiò di romperla Fulvio. Mentre assaporavamo questo dolce imbrunire, d’improvviso cominciò a dimenarsi come un ossesso. Aveva visto un polpo tra le rocce più basse, semisommerse, dello scoglio presso il quale io e lui stavamo. Forse quella corta solitudine gli aveva già risvegliato gli istinti primordiali: fatto sta che si armò di una busta bianca che non so dove tenesse, di alcuni ciottoli e iniziò la caccia. Per fortuna, non lo prese. L’acqua si era tinta di tante macchie nere quando, sopraffatto dall’imperizia e dal buio, accettò la sconfitta.
Siccome chiacchierone lo era, passò la serata a dimostrare che non aveva sbagliato tattica. La busta bianca serviva per attirare l’attenzione dell’animale, i ciottoli sia per stanarlo che per accopparlo. Sopportai con felice rassegnazione, datami dalla vittoria del polpo.

La giornata dopo ci impegnò a finire un trasloco. La Bisbal d’Empordà era solo da pochi giorni residenza dei due: prima stavano a Caçà de la Selva, un altro centro distante una ventina di chilometri, più a sud. Però Fulvio, inguaribile romanticone, per condurmici percorse una strada più lunga ma maggiormente panoramica, così che i chilometri divennero quaranta. Passammo attraverso pascoli bruciati dal sole ma anche protetti da numerose querce da sughero. Fulvio mi spiegò come la produzione di sughero fosse una delle principali risorse, come il sughero locale venisse esportato in tutto il mondo, Italia compresa, grazie alle capacità imprenditoriali di quella gente.
Il paesaggio offriva scorci piacevoli, di bellezza aspra e antica. Soprattutto, ampi tratti di strada venivano percorsi senza che l’occhio si posasse su costruzione umana. Questo in Italia è ormai quasi impossibile. Avvertivo uno scollamento tra questa constatazione di scarsa presenza di manufatti e l’organizzazione produttiva che Fulvio ancora decantava.
Rientrati a La Bisbal con un carico di suppellettili, la sera, tutti in macchina: a mangiare fuori. Macinammo ancora chilometri, svolte a destra e poi a sinistra, strade e viottoli, finché arrivammo. In aperta campagna, sotto le stelle pesanti di mezz’agosto, una casa era adibita a ristorante. Entrammo. Rimasi sorpreso: i tavoli erano pochi, molto distanziati tra loro. Che bello! La sala era piuttosto spoglia, eppure non avrei potuto dire che mancasse qualcosa. Era anzi perfettamente bilanciata. L’arredamento era in uno stile rurale di tempi passati, ricco ma sobrio. I tavoli in legno si abbinavano a degli stupendi mobili antichi, anch’essi di un legno magnifico, lucidato, curato: vivo. Un legno che trasudava amore: di chi l’aveva costruito con sapienza e di chi l’aveva usato con rispetto e capacità. Qualche misurata ceramica spezzava efficacemente il colore del legno. Questi arredi sembravano dei monumenti attivi, che le pareti, tinte di un azzurro semplice e raffinato al tempo stesso, collocavano in una dimensione atemporale senza però privarli del proprio contesto. Bei lampadari fornivano una luce umana, né troppo chiassosa né da abat-jour.
Il padrone si fece premura di intrattenerci. Parlava anche lui quel dialetto incomprensibile. Accortosi che non capivo un acca, si sforzò di venirmi incontro. La Francia, evidentemente, mi aveva già permeato: pensò che fossi francese e disse qualche parola in quella lingua. Felice, attaccai subito a parlare, ma Assumpció mi interruppe: “Guarda che ti capisce di più se parli in italiano.”
“Ah! Però, magari basterebbe che lui parlasse spagnolo, io capirei.”
Il padrone, al quale dovevo essere simpatico, volle sapere cos’avevo detto (segno peraltro che l’italiano tanto bene non doveva capirlo) e lo chiese con un guizzo del mento. Assumpció tradusse.
¿Español, señor? ¿Quiere que yo hable "español", señor?
No, bueno, porque intiendo un poco español, yo...”, impapocchiai.
¿Español...? ¿Castellano?
Eh, porque...”
“Io, segnore, hablo mia lingua: català.”
Rivelazione.
Català!
Non ero “in Spagna”: ero in Catalogna. Che non si scrive Cataluña, ma Catalunya, anche se si pronuncia alla stessa maniera. Così, quando l’indomani, dopo la scorpacciata di cinghiale di quella sera, andammo al lago, dove Fulvio doveva fare un lavoro, la cittadina non era Bañolas, bensì Banyoles. E Miró non si chiamava Juan (che si pronuncia qualcosa di simile a un ‘Cuan aspirato): il suo nome era Joan e si diceva qualcosa di simile a Gioan. Catalogna, Comunità Autonoma: ‘capitale’ Barcellona; quattro province, Girona, Lleida, Tarragona e Barcelona. Se tifi Barça odi il Real (Madrid). Credo che i non catalani di Barcellona tifino Español, scritto proprio così, alla castigliana: quasi apposta per indicare che si tratta di una squadra spagnola in terra straniera.
Insomma, nella breve conversazione per ordinare un piatto appresi finalmente quello che una vaga pudicizia dei libri di scuola edulcorava (e che, prima, decenni di franchismo obbligavano - in patria - o cercavano - fuori - di nascondere): cioè che la Spagna avrebbe più problemi dell’Italia, dove pure la questione meridionale è un dramma che, alimentato anche dalla malavita, rallenta fortemente la crescita del Paese. La Spagna ha i Catalani (cui si uniscono quando gli fa comodo quelli della Comunità Valenciana), in misura minora i Galiziani (che si sentono un tantino portoghesi) e, soprattutto, i Baschi: e della violenta dissennatezza di alcuni di questi è superfluo parlare.
Però, i Catalani producono: producono come matti. Hanno fatto dell’efficenza e della produttività i nuovi colori della loro bandiera, sovrapposti alle strisce gialle e rosse del loro vessillo ‘nazionale’. Ecco, questo forse li infastidisce un po’: che i loro colori, anche se disposti diversamente, siano gli stessi dei Castigliani, a testimoniare una parentela malgrado tutto abbastanza stretta.
Ma non sono nemmeno dei positivisti imbevuti di retorica del Progresso. Rispettano la natura, ad esempio. L’industria del sughero è effettivamente, con buona pace dei Sardi, predominante: eppure la zona delle sugheraie, che Fulvio mi aveva guidato a conoscere, sembra un parco nazionale. Al centro di Girona scorre il Ter, poco più di un torrente che cade giù dai Pirenei: dai ponti che lo scavalcano vidi nuotare indisturbate delle carpe gigantesche. La Costa Brava ha suonato gli albergatori italiani per anni, ma ha saputo rispettare le magie di tutte le sue cale (e mi dicono che anche Lloret de Mar, più a sud, sebbene asfissiata dalle torme, non abbia mai raggiunto livelli riminesi o semplicemente ostiensi).
Questa gente vive nell’equilibrio: è simpatica ma non troppo, cioè non fa della simpatia un alibi; sfrutta ma rispetta; vuole proiettarsi nel futuro ma sa di doverci andare con il proprio passato; ha una ‘capitale’ tra le città più dinamiche di questi anni ma si bea di una campagna contenta di se stessa.
E in mezzo a questa campagna, baciata dalle stelle in una notte d’agosto, tutto quanto non capivo prima si era rivelato per incanto, come grazie a un colpo di bacchetta magica, in un ristorante che mi appagava esteticamente e, risalendo, anche eticamente.
È ovvio che la Catalunya non è il Paese dei Sogni: però quanti ristoranti assurdi ho visto nelle campagne italiane.

Se solo la smettessero di agitare la minaccia indipendentista e di riscrivere i libri di storia; se solo volessero ammettere che la loro fortuna è stata data anche dagli immigrati; se solo la finissero di commettere gli stessi errori di cui hanno sofferto!