Ricordi di viaggi di un italiano nascosto

di Enrico Proietti



silenzi@live.it

Mar Morto

23.03.2014 20:23

Questo è il ricordo del non visto. Non fatto, non visitato, non vissuto.

Come se il sale, punto focale e insieme riflessione diffusa del paesaggio, fosse l’insieme della vita tolta e solidificata dallo specchio immenso e perfetto di quell’acqua immota. Lot si era stabilito qui sotto. Quali grani saranno sua moglie?
E se ora ci ripenso, è questo come un voltarsi indietro? Forse sì, perciò i ricordi sono statue inespressive.
Non parla En Gedi, chiusa, preclusa, nascosta nelle sue gole floride, neppure si mostra Masada, alta lassù, chissà dove, chissà quando. Qumran inganna rifrangendo miraggi di un sé che sé non è.
Potente com’è, questo specchio uccide perfino se stesso. Perché non è possibile che siano gli uomini a seccarlo, a prelevare sangue vitale dall’arteria che scorre a nutrirlo. Non gli angeli che salvarono Lot. Semmai dei demoni.

Sono queste orde di russi schiere infernali? Da come involgariscono il misticismo dello specchio, verrebbe da dire di sì. Rubano il sale: lo staccano e lo mettono dentro buste di plastica della spesa. Non ustionano le loro pelli pallide, perché nella depressione si forma uno strato di gas che fa da barriera ai raggi del sole. Non parlano alcuna altra favella che la loro, i cartellini nei negozi recano caratteri cirillici e il personale è composto da russi, ebrei russi credo.
Il caldo è alto e secchissimo. Una cittadina di nulla è stata eretta sulle rive del Mar Morto, composta di soli alberghi e squallidi centri commerciali: ché almeno fossero animati! Tutto è morto sulle sponde del Mar Morto. Morto lui, morti i russi, uccisi dal denaro improvviso, morta l’intelligenza, anche quella della speculazione da reddito. Morta l’allegria, salvo rare eccezioni, fortunatamente inguaribili. Non c’è allegria tra malati di psoriasi, matrone in cerca di giovinezza, lavoratori palestinesi fingenti integrazione. È un turismo sanitario che al massimo sorride, ma a ridere non riesce. Non l’imbrattarsi il corpo di fango nero fa ridere, non leggere il giornale seduti sull’acqua, non l’assurda presenza di un surf ormeggiato a lato di una superficie sulla quale l’alta presenza di sale non lascerà mai nascere un’onda. Nemmeno se di nuovo il Signore facesse piovere lo zolfo e il fuoco della Genesi[1] o le pietre d'argilla indurita della Sura di Hud[2]. Nemmeno se Bibbia e Corano ammettessero la parentela; nemmeno se gli uni e gli altri sulle rive del Giordano si riconoscessero tutti figli di Avraham o Ibrahim, come si vuole. Qui, di fronte a tanto specchio, non si ride.
Talvolta nemmeno si sorride. Come davanti a un buffet di prima colazione all’inglese senza maiale. Perché nonostante sia una situazione comica, la si vive triste. Il prosciutto di tonno, o che pesce mai sia, è triste. È il segno di un popolo che sembra condannato alla tristezza, malgrado le discoteche e le spiagge di Tel Aviv. Gli manca una famiglia, è tornato in una casa che nonostante le convinzioni non era più sua; gli mancano i fratelli. O fratellastri, andrebbero bene ugualmente. Forse addirittura meglio, quando i fratelli hanno denti da squalo e rostri da rapace.

Non ricordo di aver fatto, non di aver visto, non di aver vissuto. Ho eseguito, ho guardato, ho lasciato che il tempo trascorresse, stretto nella valle che in un tempo mitico era fertile pianura. Prima della punizione divina.
Mi sono lasciato vivere. Come se mi avessero costretto davanti a uno schermo a vedere l’imitazione di un luogo turistico. Figure biancheggianti attraversavano in varie direzioni il campo, ma la ripresa era simile a quelle fisse e di bassa qualità delle telecamere di sorveglianza, nessuna minima empatia con quei personaggi mi era possibile. La scenografia mai mutante, cambiavano solo le tonalità di saturazione e talvolta luminosità e contrasto. Ombre e mezzetinte davano periodicamente sull’azzurro e sul blu. Solo, per allegra fortuna, un virus produceva flussi che cercavano e attiravano la mia attenzione.

Non era stato così arrivando, prima di prendere conoscenza di cosa fosse quella recita. Sempre il problema della conoscenza, questione originale di queste terre! Non conosci, e ti illudi di Qumran, ti immagini Masada, ti racconti En Gedi. Poi rimani attonito in un’ora precedente l’imbrunire quando le catene dei monti divengono varianti dal rosa al magenta, dal ciano al turchese e si raddoppiano perfettamente nella simmetria riflessa dallo specchio. Che lascia intendere baluginii felici. Mente. Ma intanto quell’immagine quasi artificiale ti ammalia. Ma già un po’ ti atterrisce, dimostrando l’umana piccolezza di fronte all’onnipotenza. Eppure ti seduce, e ti fa credere, sperare, illudere, che l’immota distesa morta non sia, e che forse sarà il tuo ego sconfinato a riaccenderle verde vita.
Tu credi, tu speri, t’illudi.
Non è così.

Morto, morto è ‘sto cazzo di mare. Come m’era mai venuto in mente che potesse rivivere? Una volta sommersa, la verde pianura non vive più. Morta, morta come ‘sto cazzo di lago. ‘Sto Mar Morto è morto, e da morto uccide l’amore. Questo è. Forse sta troppo in basso. Come l’Inferno. È un luogo senza amore, ‘sto cazzo d’amore di merda.

Perché lo sentivo solo io? Il fetore bituminoso che riempiva l’aria lo avvertivo ovunque, mi colmava le nari e il cervello. Non era forte, in realtà, altrimenti tutti sarebbero scappati. Invece restavano in riva all’Asfaltide. Io mi sentivo vacillare, in quell’atmosfera di depressione filtrata dalle esalazioni.
Tutto era fasullo. Pare esistessero un tempo delle isolette su questo Lago di Sodoma dove vegetavano degli alberi simili a peri selvatici che producevano frutti. O, secondo Paracelso, erano terebinti sui quali la puntura d’un insetto produceva questi pomi che esalavano un odore insopportabile: pomi dall’esterno giallo e dall’interno bianco che in autunno diveniva uguale a cenere. Frutta che assunse a simbolo della gioia che si sfarina non appena la si tocchi. E c’è chi ha pensato che siano le mefitiche esalazioni a renderli come cenere.
    Dell'Asfaltide in seno
    nasce frutto gentile,

    che sotto manto d'or chiude il veleno,
    e mentre in verdi fronde
    fa pompa d'un tesor, la polve asconde:
    tal è il piacer
    del nudo arcier
    di Venere,
    sembra vago al veder, m'al tocco è cenere.[3]
Ebbene, tutto era così fasullo, come i pomi d’Asfaltide. In questo posto non mi sentivo a casa. Non mi succede quasi mai. Mi sono sentito a casa bianco nell’Africa nera o su un treno in Australia. Traversando ponti ad assi di legno come binari per le ruote nel Pantanal o per le strade cosmopolite ma scandinave di Malmö. Qui no.
Volevo fuggirne. Come Lot. Ma per evitare nuove muliebri statue di sale restai. D’altronde, angeli non ebbi. E chi potevano esserli? Non fra quei russi volgari, non tra quegli ebrei olim, non tra quei palestinesi assetati avrei trovato ali. Tanto meno tra le matrone in incognito che ambivano a rientrare in Europa con la pelle rinata, salvo poi praticare una nuova, provvisoria, abusiva, imitazione di aliyah ai prossimi segni sul volto. Ma col cervello immobilizzato e il cuore inaridito. Pomi d’Asfaltide anch’esse.
Restai, dunque. Respirando la cenere mortale di tutti i pomi che si sfaldavano al primo tocco della verità. La verità: che strano che essa resistesse in quella landa fasulla! O era la mia presunzione raddoppiata dall’immagine narcisistica restituita dallo specchio d’acqua?
Bruciato da questo dilemma,
non vidi,
non feci,
non visitai,
vissi appena.



[1] Genesi, 19, 24.

[2] Sura di Hud, 82.

[3]Il Tito”, atto II, scena IX. Melodramma: testi di Nicolò Berengan, musiche di Antonio Cesti. Prima esecuzione: 13 febbraio 1666, Venezia.