Ricordi di viaggi di un italiano nascosto

di Enrico Proietti



silenzi@live.it

Lisbona

16.03.2014 17:58

Conservo immagini di emozioni particolarmente intense:
- la luce tra la pioggia sopra le pietre di Stonehenge;
- Manhattan dalla sponda sinistra dell’Hudson in un imbrunire estivo, con le luci già accese sul cielo ancora non scuro decorato di luna;
- la riflessione perfetta delle montagne nello specchio residuo del Mar Morto;
- un tramonto da Santa Monica verso Malibu;
- il jet d’eau a Ginevra, inaspettato, che lenisce i rimpianti di un’ultima sera;
- una abitazione rupestre, o tomba, sulle pareti della gola del Tesoro, a Petra, con la roccia dalle mille stratificazioni di tonalità;
- il mantello verde brillante sulle montagne schizzate di Moorea che va a bagnarsi nell’assoluto azzurro della laguna;
- tutte le gradazioni del violaceo su Kata Tjuta sorgente quasi morganiana all’alba dietro Uluru;
- la prima volta che ho visto le Alpi d’inverno dall’aereo;
- la luna piena sulla baia di Morrumbene da sotto le palme da cocco di Môngué.
(E una virata col Colosseo in fondo all’ala, e San Pietro illuminato dentro l’oblò, e Jolie a mollo nel Loir sotto la fiaba di Chenonceau, e quella chiesa che razionalmente dovrebbe essere Saint-Pierre de Montrouge ma che nel ricordo è molto più gotica, e il panorama a giro dal Mont Saint-Clair, e piazza Unità a Trieste, e il duomo di Monreale…)
…e En-Vau riflessa negli occhi di una donna. La mia.

E poi.

Riatterrando a Lisbona, rivedendo i suoi ponti, i suoi tetti, le sue palazzine tenuamente colorate, provai un sentimento di dolcezza. Come di ritorno a casa. Un sapore nella bocca di cose domestiche. Un po’ come quando durante un viaggio sperimenti gusti diversi. Da quelli standard dei pasti a catena alle particolarità degli angoli del mondo. Poi rientri nel tuo quartiere. L’aria ti fa riassaporare le caramelle del droghiere. Il cornetto della domenica mattina. Fino alla tua molto personale miscela del caffellatte di casa. Con i biscotti, sempre quelli.
Erano forse i pastéis de Belém? Era loro la colpa; no, piuttosto il merito?
E perché nella terra di Saramago i miei pensieri conoscevano frasi corte? Quanto avrei voluto potere e sapere litigare con lui. Senza paure di confronto. E non sulla lunghezza delle frasi.
Ma quale Lisbona amo, qual è mia? Non quella della Baixa, troppo compiaciuta delle sue croste, l’Alfama mi sa troppo di trappola finto non-turistica, il Barrio Alto solo in piccoli scorci, Belém è troppo stretta. La prima periferia non sa di nulla, la più recente è inutilmente pastello, la zona di Expositioes sembra un gioco deserto. Quale Lisbona dunque?
La Avenida da Liberdade è troppo larga, bei negozi ce ne sono ma chissenefrega, sa di morte. Il Centro Comercial das Amoreiras è niente male opprimente e non un gelso dà ombra alla zona che ne reca il nome. Il Parque Eduardo VII è invero stucchevole. Il monumento ai navigatori, lasciar perdere; e se è questo un po’ il simbolo della città…
Ma è proprio questo il segno dell’amore. Non si ama una persona perché ha un bel sedere. Ci può invogliare, ma non ci suscita un senso di eternità. Non la si ama per gli occhi che ha, ma per quello che ci comunicano. Non per le parole che dice, ma perché le dice a noi e dice quelle.
E Lisbona mi ha detto tante parole. Le porto ora incise nell’animo, più aperto dopo di lei.
E poi ci sono la Torre de Belém e altre cose.
Ma soprattutto, c’è il Mosteiro dos Jerónimos.
Uno stato dell’animo. E forse anche dell’anima.
L’esterno è armonioso nel suo stile manuelino, sebbene la parte della chiesa dia un po’ di confusione, di esuberanza. Sembra anche un po’ scostato dal tessuto urbano. Appurerò se perché nato fuori città o per un successivo isolazionismo dei monumenti tipico delle dittature. Ma fa niente. Dentro, la chiesa di Santa Maria Belém è di un gotico innamorato dei suoi estetismi ma forse non dimentico dei suoi valori. L’estetica ancora non strappa il suo cordone dall’etica. Però è pesante nonostante gli interventi rinascimentali, con troppe tombe. Opprimente, non del tutto, ma opprimente, come una donna che ti parla troppo di troppi particolari.
Brava la mia che a Lisbona visse e non troppo parlò.

Dunque, niente di rimarchevole nella chiesa, l’atmosfera mi veniva di definirla “napoletana”. Forse ha ragione, e sì, ha proprio ragione Philippe Daverio a dire che il gotico è un barocco. Qui, di sicuro. Le cose gravanti sul capo, le tombe tragiche, i mille estri. La pietra mi ricordava più Palermo che Napoli, in verità. D’altronde tutta Lisbona mi rimbalzava tra i paragoni con le due capitali del Sud Italia. Attitudine scema, quella del riportare tutto al già visto, ma alla quale è difficile sottrarsi. Che poi, soprattutto, Lisbona è latina, va bene, ma di fronte ha l’Oceano. La differenza non è da poco. Basta guardarlo, l’Oceano! E così i portoghesi sono dei latini non mediterranei, ma oceanici. Noi siamo del Sud. Loro del Sud-Ovest. Chi meglio di loro, già del mare rimanente, poteva mettersi in gusci di legno e sfidare nel folle volo la nostalgia di una terra battuta da venti possenti? E proprio il monastero sorse dove Vasco da Gama e il suo equipaggio, prima di salpare, pregarono: pregarono l’Iddio cattolico, certo, ma forse segretamente anche il dio Oceano, che nella sua immane possanza li tollerasse. Della conoscenza avuta, i lusitani hanno ricavato quello sguardo che agogna il confine dell’orizzonte.
Ristagnava invece il mio dentro quel tempio carico. La sottile perfidia della delusione iniziava a fiottare nella bocca dello stomaco. Chiesi di sottrarmi alla chiusura, l’ottenni e quasi ormai non avrei voluto varcare l’uscio del chiostro. La soglia di Stendhal.
Entrai, non ricordo come. Tutto ciò che è prima non appartiene al dopo. Lapalissiana verità, vera però solo se il dopo ha forza abbastanza per separarsi dal prima. Il chiostro del monastero dei gerolamini ne ha: tanta. Ogni impressione di prima fu annullata dall’ingresso nel chiostro; e il dopo fu amore. Quell’immagine mozzafiato fu un bacio come quello che si dà ad una donna desiderata e da lei si riceve.
Perfetta la mia che seppe baciarmi di quel bacio a Lisbona.

E perfezione stordente fu dunque il chiostro del monastero. Inaspettata. Sobria e ricca. Completa. Pensieri corti più delle frasi.
Mi sentii avvolto dalla bellezza. La sensazione, o meglio il sentimento che provai fu di volerne far parte. Mi sarei compenetrato con quella pietra, avrei lasciato intagliare la mia pelle di quei motivi decorativi, già mi sarebbe bastato far parte di quell’erba verde a spicchi nel centro.
Ero rimasto fermo, immobile, a bocca aperta ma senza parole. Lo sguardo fisso: e però riusciva a comprendere in una visione unica tutta l’emozione. Incapace di un pensiero minimo, ne percepivo uno massimo sebbene non riuscissi a focalizzarlo: d’altronde, la mente era intasata. Invasa da quell’amore architettonico, impallata dalla quantità di informazioni che voleva immagazzinare, quasi resettata dalla sorpresa, dalla piacevolezza suprema della scoperta.
Tutto il mio corpo era bloccato, vittima di una apoplessia della ragione. Non si può analizzare tutto, molto sfugge quotidianamente, è poca cosa, poi messa insieme fa una frana che travolge l’uomo cartesiano. E poi c’è la grandiosa realtà del sentimento, che sempre è irrazionale. Succede, talvolta, che si concretizzi in un edificio o in un corpo, oppure nella vista di quell’edificio o di quel corpo, oppure nell’immagine che di quell’edificio o di quel corpo si proietta in noi, oppure nella storia che quell’edificio o quel corpo ci racconta mentre lo ammiriamo, rivelazione improvvisa. A bocca aperta e pupilla spalancata.
Così quel primo pomeriggio a Belém io.
Era una cosa che avevo già provato ma non per un insieme di pietre e cultura e passione e arte e armonia e unità continuata nel tempo. Era come quella volta…
Come quando vedi per la prima volta una donna e tutto te stesso sente di amarla da sempre.
Puntuale la mia che si perse nel mio smarrimento a Lisbona.

Finalmente, entrai: subito nell’hortus clausus a baciare il sole che dava luce alla pietra, permettendo l’agnizione. Riconoscevo infatti in quella sublime estetica Lisbona, svelata in me accanto a me. E via sotto il portico, a cercare la tomba di Fernando Pessoa. Tre eteronimi completi, tre incisioni sulla stele.
“Non basta aprire la finestra
Per vedere la campagna e il fiume.
Non basta non essere ciechi
Per vedere gli alberi e i fiori.”

20.4.1919                Alberto Caeiro
Ma hanno omesso il verso seguente. Avremmo potuto accapigliarci (quanto avrei voluto accapigliarmi con Pessoa!):
“Bisogna non aver nessuna filosofia.”
E tutti gli altri:
“Con la filosofia non vi sono alberi: vi sono solo idee.
Vi è soltanto ognuno di noi, simile ad una spelonca.
C'è solo una finestra chiusa e tutto il mondo fuori;
E un sogno di ciò che potrebbe esser visto se la finestra si aprisse,
Che mai è quello che si vede quando la finestra si apre.”
[1]
Pronto ad accapigliarmi con Alberto Caeiro prima ancora di aver capito qualcosa su quella finestra che avevo aperto - o mi era stata aperta? - nel Mosteiro dos Jéronimos, a Lisbona. Ma anche ad imparare. Dov’è la realtà? Lottare contro un amore per avere l’amore è realtà? Ma io non “sono” e basta, penso: dunque sbaglio. E vago per città vere e finché una finestra mi si apre - o qualcuno sa aprirmela - in un giorno trionfale, il mio giorno trionfale per la cultura portoghese a me rivelata.
Novanta gradi di giro:
“Per essere grande, sii intero: non esagerare
     E non escludere niente di te.
Sii tutto in ogni cosa. Metti quanto sei
     Nel minimo che fai,
Come la luna in ogni lago tutta
     Risplende, perché in alto vive.”
[2]

14.2.1933                Ricardo Reis
Ecco, avrei voluto un Saramago anch’io per discutere col fantasma dell’ortonimo: e che tale nuovo Saramago mi avesse fatto disquisire anche col fantasma di Saramago. Avrei anche potuto essere un tavolino all’aperto de A Brasileira. Per ascoltare parlare di poesia e non di poeti. Di Vita e non di vite.
Ancora un quarto di giro:
“No: non voglio nulla.
Ho già detto che non voglio nulla.
Non mi si venga con conclusioni!
L'unica conclusione è morire.”
[3]

1923                Álvaro de Campos
E ancora lunga omissione. Qui entrò in me la ribellione. Álvaro non era nichilista! Bè, non qui, per il resto ancora non sapevo. Nella sua certezza che l’unica conclusione è la morte egli non nega senso alla vita né alla realtà di Alberto. Nell’allontanare da sé concetti filosofici proclama la filosofia di Fernando, la filosofia intorno a Fernando. Perché quelli là erano concetti di altri. Álvaro, e con lui Fernando, chiede solo di essere lasciato in pace, di poter vivere in un modo suo poco accettato dal conformismo del tempo, anzi, poco affine alla conformazione del Tempo che è solo lungo. Lui, loro volevano solo lo spazio, il cielo che come la luna di Ricardo si specchiasse nell’acqua, Solo il cielo è “eterna verità vuota e perfetta!”. No, non ritengo che un’eterna verità (vuota di voci terrene e perciò perfetta) si imparenti con alcun nichilismo.
Io pensai che l’acqua del Tago azzurra di cielo l’avevo amata con una donna che mi ripeteva “Não: não quero nada”.
La mia, un genio che voleva allargare il Tempo.

Wim Wenders ha capito tutto ciò. La vita ripresa da Friedrich Munro è aliena da questi. Appartiene non a lui, ma alla realtà ripresa da dietro le spalle e a chi si accorga di essere filmato. E lui, il regista, fa di un documentario un film: Lisbon Story. Titolo in inglese come “Lisbon revisited”.
La realtà non reale, non onirica, non filosofica, non teista, eppure dannatamente vera di Lisbona cominciai ad amarla insieme a Philip Winter, seguendolo a bocca aperta e pupilla spalancata nei vicoli che non vogliono nessuno a dirgli come essere, tra gli azulejos che non chiedono a nessuno di spiegare il loro racconto, con una musica che chiede solo di essere ascoltata col cuore e non con le orecchie.
Un film intenso e attonito come Lisbona; invadente come un’immagine di emozione che resta.
E per non amare troppo Teresa la fortuna è di vederlo con una donna che sia donna.
E fortunato io che la mia non ha visto il film ma ha visto Lisbona.
Con me.



[1] “Não basta abrir a janela”, in (Fernando Pessoa), “Poemas Completos de Alberto Caeiro”, 1946.

[2] “Para ser grande, sê inteiro”, in (Fernando Pessoa), “Odes de Ricardo Reis”, 1945.

[3] Da “Lisbon revisited”, in (Fernando Pessoa), “Poesias de Álvaro de Campos”, 1944.