Ricordi di viaggi di un italiano nascosto

di Enrico Proietti



silenzi@live.it

Tahiti

05.03.2014 11:30

Sull’aereo da Honolulu era capitata una cosa strana. Non ne avevo ancora compreso alcuni aspetti.

Sto andando a occupare il mio posto sul DC-8 dell’Aloha Airlines: il solito amblare sul corridoio centrale con il borsone tra le zampe, sperando che la tizia davanti a me sia un po’ più decisa e vada avanti (anzi, indietro, visto che si entra da vicino la cabina e poi si discende la carlinga). Invece la tizia si attarda a parlottare con la sua amica, emette gridolini simili a risate imbarazzate, cede sempre la precedenza a quelli che, già seduti, si rialzano per aprire il portello dei bagagli a mano e riporre la giacca o prendere le parole crociate. Dietro di me, il mio amico mi alita sul collo.
Individuati i nostri posti, il mio di corridoio come sempre, sulla sinistra della fusoliera rispetto al verso della penetrazione, aspetto che la tizia prosegua solo di altri 50 centimetri per poter scivolare finalmente dentro e prendere possesso della poltrona, quando la tizia medesima compie, lei, quell’operazione e si prende il mio posto.
Excuse me, I think this seat is mine.”
Anziché rispondere, si mette sulla difensiva ed, emettendo gentili grugniti, cerca con lo sguardo aiuto; dell’amica, ritengo.
Vous, vous parlez français?
Oui”, sempre impaurita.
Ah bon, voyez: cette place, je crois que c’est à moi...” le dico mostrando la carta d’imbarco.
Senza parole, mi mostra la sua. Lo stesso posto! Cavolo!
Mi giro verso il mio amico, che è ancora in mezzo al corridoio con la borsa in mano e sta per tirarcela in testa.
“Chiama un po’ la hostess, abbiamo lo stesso posto!”
Non si vedono assistenti di volo, va a cercarle. In quel mentre, da un’altra parte dell’aereo, si alza un ometto dal viso cosparso di elementi aguzzi – gli zigomi, il mento, il naso, le arcate sopracciliari, qualche altra cosa impensabile –, scansa le ginocchia di chi gli siede accanto e, col piglio di chi sa che metterà a posto le cose, si precipita nel centro dell’azione.
What’s happening?”, esordisce con accento francese.
Nothing”, gelido.
What is your place? And your?
Perché non si fa gli affari suoi? Cosa c’entra con il nostro banale problema? Sicuro, per via dell’accento e delle improprietà di linguaggio, che non sia americano, gli dico: “Y’a pas de problème, soyez tranquille. L’hôtesse va venir.
Resta là, e continua, rivolgendosi alla tizia: “C’est rien, on va se débrouiller... Quelle est votre place? Et la vôtre?”, termina verso di me.
L’hôtesse va venir.
Arrivano infatti Roberto con la hostess, ma è lui ad accalappiarla. Faccio a Roberto: “Guarda se questo se la pianta, che gli frega a lui? Se non si leva...”
Mi fulmina con un’occhiata.
“Italiani?” chiede con accento francese.
Ouais, italiens”, con aria di sfida.
Ne segue un pot-pourri, ma veramente pourri, cioè veramente putrido, di parole e frasi in tre lingue, condito di gesti, ammiccamenti, occhiate, forse anche qualche parola in polinesiano (se esiste una lingua polinesiana). E già, perché la tizia e la sua amica erano polinesiane, chiatte come tutte le polinesiane (tranne una che divenne Miss France e poche altre che mettono nei dépliants).
“Ma insomma, lei di che nazionalità è?”
“Sonò italià-no”
“Oh, ecco: allora parliamo in italiano, una volta per tutte!”
Nel frattempo, la hostess ha capito tutto: non del pot-pourri, ma della questione intrinseca. Una lettera su una delle due carte d’imbarco è scritta in un modo talmente distorto da sembrare la stessa dell’altra. L’affare è risolto. Eppure, quella figura strana ci inquieta un tantino: bah, se ne incontrano tanti!
Il volo va malissimo. Mi verso il succo d’arancia sui pantaloni e sono costretto ad andare in toilette ad asciugarli. Eccezionale il tramonto sulla linea dell’equatore. Rossi, violetti, gialli di intensa ma non cupa drammaticità salutano il sole che va “a violentare altre notti”, sospesi e riflessi nella grande tavolozza blu. Però poi, quando siamo non lontani dallo spazio aereo della Polinesia Francese, incontriamo una gran bella turbolenza, anche il personale di bordo si stringe tutto nei suoi sedili, si vedono i primi sguardi sbarrati, come sempre. Non è ancora niente. Ad un certo punto, buttando la testa sulle ginocchia di Roberto, vedo sotto di me le luci di una pista, ma stiamo troppo alti: però non mi sembra l’altitudine di navigazione, dobbiamo essere più bassi. Cominciamo ad avere ritardo. Ancora turbolenza. Parecchia. L’aereo inizia una virata sulla destra: nel bel mezzo, una corrente discensionale causa l’effetto “vuoto d’aria”. L’apparecchio scivola su un fianco e perde in un due-tre secondi non so quante centinaia di piedi, ma non succede niente. Le grida, però, suonano altissime; da questo momento in avanti, si intuisce che qualcuno prega.
Scendiamo, viene annunciato l’atterraggio in venti minuti. Che passano. Altre lunghe virate. Rumori, come quando vengono tirati fuori i carrelli. Nel buio della notte, vedo ancora la pista, mi sembra proprio quella che ho già visto. Scendiamo, altri rumori, poi riprendiamo quota. Fuori degli oblò, pare ci sia la nebbia: invece, è umidità che si condensa nell’intercapedine tra i due vetri. Insomma, il problema non sono i vuoti d’aria, che continuano e di cui tutti i passeggeri sono, chi più, chi meno, spaventati. Qui, non esce il carrello: e un atteraggio sulla schiuma non deve essere affatto piacevole. Mi giro, incrocio lo sguardo dell’ometto con gli elementi aguzzi sul viso. Riconosciamo a vicenda la stessa preoccupazione, c’è una spontanea smorfia d’intesa, a mimare impercettibilmente la causa tecnica.
Come Dio vuole, atterriamo senza problemi, con un ritardo enorme. Sulla pista, militari col mitra spianato. E che diamine!
E allora adesso, stavamo al ritiro bagagli e l’inconveniente del posto conteso era stato scacciato da quelli del ritardato atterraggio.

Improvvisamente, riapparve l’ometto, ma se ne stette sulle sue, però lo vedevo allungare l’occhio. Fu quando spingevamo i carrelli verso il controllo passaporti che si fece sotto.
“Che sci fanno due italià-ni quagiù?”, chiese.
Io non ero mica convinto che ‘sto furbacchione (perché la faccia era del furbacchione, senza dubbio) fosse italiano come aveva dichiarato nel mezzo del pot-pourri linguistico. Rispondemmo un po’ a mezza bocca: e lui incalzava con le domande. Pian piano, cominciò a dire anche qualcosa di se, che era di Aulla, era un ingegnere, da giovane aveva scelto la via della Francia; da lì aveva avuto la chance di costruire le basi atomiche a Muroroa e si era arricchito, stabilendosi a Tahiti. Che avesse nominato un paese non tanto conosciuto come sua origine era un elemento a favore della veridicità delle sue affermazioni. Ma ancora non bastava. E come mai viaggiava?
“Dovevo fare un po’ di acquisti.”
“A Honolulu?!”
“Sì, quagiù tutti vanno fare li acquisti a Honolulu, sc’è il volo due volte a settimana.”
“E che sono matti?”
“No, perché matti? Là si trovano cose migliori e costano meno.”
Lì per lì, che questi affrontassero 11 ore di volo tra andata e ritorno, ci lasciò sorpresi e dubbiosi. In seguito, tuttavia, potemmo verificare che, in effetti, per quanto carissime, le Hawaii non raggiungevano le assurdità tariffarie della Polynésie Française.

Bienvenue au Royaume de la Folie! Questo cartello, gigantesco, dovrebbero porre all’aeroporto. Folie pure, folie appliquée.
Io non so più ora che Tahiti fa parte dell’Europa (e già...), ma all’epoca questo Territoire d’Outre-Mer godeva di strane attenzioni da parte del governo francese. Per cercare di farsi perdonare gli esperimenti atomici aveva esentato i residenti dal pagamento delle imposte dirette. Cioè, i Polinesiani non pagavano tasse. Per contro, erano altissime le imposte indirette, ossia quelle che aumentano il prezzo degli articoli in vendita. In tal modo, succedeva davvero che a Honolulu le perle nere di Tahiti costassero meno che a Tahiti stessa. Se dovevano comprare una telecamera o un videoregistratore, i Tahitiani prendevano l’aereo per l’arcipelago statunitense, coglievano l’occasione per comprarsi un vestito e qualche camicia, una scorta di pellicole fotografiche e nastri, ecc...: così, si ripagavano il viaggio e ci guadagnavano o, per meglio dire, contenevano le perdite. Quando facemmo la spesa in un supermercato di Papeete, per comprare l’occorrente a una cena di tre persone (a base di pastasciutta, affettato e insalata, mica caviale) spendemmo l’equivalente di quasi sessantamila lire.
In compenso, anche qui la gente si impegna strenuamente a lasciar passare la giornata. Certe volte è così dura, che la sera per non pensarci si lasciano andare a baciare ripetutamente la bocca di una bottiglia.
Nel mentre, una natura splendida e ben disposta osserva la follia umana. Pensare che l’interno delle isole (non degli atolli, certo) presenta montagne alte fin sopra i 2000 metri interamente ricoperte da vegetazione che definire rigogliosa pare poco. Una vera giungla: eppure non ci sono belve né, tantomeno, serpenti velenosi. Specie vegetali che da noi hanno l’aspetto di arbusti sono lì veri alberi, a volte persino giganteschi. La frutta è ottima, ricca, abbondante: è un trionfo di papaya, mango, banana, avocado, ananas, per dire dei più conosciuti da noi. Anche se, in realtà, noi non conosciamo che dei surrogati. La bontà di quelle polpe sazie di sole rimane per sempre impressa nel cuore e basta, da sola, a provocare una nostalgia che può divenire struggente. Insostenibile, in una fredda giornata di pioggia, nella monotonia grigia di una giovinezza già passata che sfiorisce tra un figlio da riprendere a scuola e l’ennesimo rinvio di un desiderio da appagare, quando mentendo a noi stessi ci lasciamo vincere dalla vita.
In un resort di Tahiti, dove andammo per un’aperitivo, incontrai coppie di italiani vinti dalla vita. Non so se mi facessero più rabbia o tenerezza: ma forse più rabbia quando fingevano di sentirsi realizzati e più tenerezza quando ogni cosa in loro mostrava la consapevolezza della sconfitta. Erano lì, ad ammirare le squallide spiagge nere dell’isola, deserte, fingendo di essere contenti: eppure gli occhi erano ripiegati verso il basso. Tahiti, in se, è una fregatura, se si pensa all’isola tropicale da dépliant turistico. Essendo vulcanica, le sue spiagge sono costituite da basalti triturati di colore nero: cosa che è anche bella, ma non apprezzata da chi sognava l’arenile bianco. La laguna tra barriera corallina e costa è ridotta e troppo sfruttata: davanti Papeete, poi, è talmente aperta a causa del porto che l’oceano la sciacqua facilmente.
E pensare che la felicità (effimera, però...) sta semplicemente là davanti, a 5 minuti di piper o mezz’ora di traghetto: la fantastica isola di Moorea, con cui solo la mitica Bora Bora può ingaggiare la sfida su quale abbia il mare più bello. E ci sono le sabbie bianche e le palme reclinate e la vegetazione che arriva fin dentro l’acqua e tutto quanto ci si aspetta da un’isola tropicale. Certi scorci della costa; la Baie de Cook e la Baie d’Opanohu, insenature turchesi e smeraldo tra due lingue di montagna verde brillante sormontate da diademi di rocce magmatiche, sono impresse perennemente nelle mie retine. Spesso si sovrappongono alle insulse immagini del quotidiano.

A farmele scoprire fu Ercole Angioli. Sì, l’ometto dal viso pieno di elementi aguzzi, come le rocce delle montagne polinesiane: lui.
Lui che, ripresi i bagagli, ci si appioppò addosso, anche con un po’ d’invadenza, e si presentò. “Ercolé Angiolì”, ovviamente. Chiese se avevamo un hôtel; non conosceva quello che gli dissi. Ci propose su due piedi di andare a casa sua. Io e Roberto ci guardammo: ancora non ci convinceva. Lui insistette; noi resistemmo. Riattaccò con la storia di dividere il costo del taxi, e stavamo verificando che le tariffe erano veramente proibitive. Questo si poteva fare. Litigò con il taxista perché non voleva caricare la macchina con le valigie di tre passeggeri, ma che in realtà tentava di far lavorare un collega. Una volta dentro, ci chiese perché mai non accettavamo di andare a casa sua: “Ho una bella villettà in colina, sci ho tanto spassio, mi fate un po’ di compagnia!”
In fin dei conti eravamo due contro uno (il tassista non poteva manifestamente essere suo complice): accettammo.
La villetta non era a Papeete, ma a Pirae, una cittadina praticamente attaccata al capoluogo. La vecchia Peugeot bleu si arrampicò su una salita impossibile e si arrestò di fronte a un cancello. Scendemmo i bagagli.
“Bè, se io vi ospito potete anche pagar il taxì!”
Oddio, era vero, ma questo cambiamento, che sembrava un espediente da furbacchione, non ci piacque per niente. Mentre comunque Roberto provvedeva, l’ Ercolé Angiolì si arrampicò nel buio della notte sul pilastro del cancello scorrevole e scavalcò. Ma come, non era casa sua? Non s’è mai visto uno che scavalca per entrare in casa sua. In che casino ci eravamo messi?
Ad un certo punto, non si sa come, il cancello si aprì ed entrammo. Ercole Angioli pareva orientarsi bene in quella villa. Insomma, ci diede una stanza a testa con l’aria condizionata. Dormii con i soldi e i documenti tra rete e materasso.
Povero Ercole, se sapesse quanto ho dubitato di lui! Era, invece, davvero un brav’uomo, anche se con le sue idee che, sbrigativamente, definii colonialiste. Veramente era un ingegnere che aveva costruito a lungo per l’amministrazione francese: nelle basi di Muroroa e poi ponti, strade, porti. Aveva sposato una polinesiana con la quale aveva messo al mondo due figlie, ormai grandi, che vivevano con la madre in Costa Azzurra in una meravigliosa villa (ci fece vedere le foto). Era ricco. Gli chiedemmo cosa facesse ora, quale fosse la sua occupazione.
“Adeso, non facciò niente...”
“Come niente?”
“Oh ragassì: ho lavorato tanto per far i soldi, adesso i soldi lavoràno per me.”
E infatti, sebbene condividesse tutti gli angoli di casa, ogni tanto ci buttava fuori, s’attaccava al telefono (ascoltavamo lo stesso), chiamava Parigi e dava disposizioni di vendita o acquisto titoli. Ci diede un biglietto da visita: “Ercole Angioli, Administrateur de Sociétés”. Fece il suo effetto.
C’era anche un’altra circostanza nella quale ci faceva uscire; anzi, ci invitava caldamente a non rompere le palle: quando veniva a trovarlo una certa persona. La prima volta, fu forse già la seconda sera - o meglio, la prima, dato l’orario d’arrivo della precedente - che stavamo da lui. Ci disse che una volta arrivata, eravamo pregati di toglierci di torno. Non è che non avessimo capito che tipo d’appuntamento aveva. Ma la sorpresa fu quando, appunto, la persona arrivò: era la tipa dell’aereo, quella del posto conteso! Ecco perché lui era intervenuto. Spiegò che non viaggiavano affiancati, e anzi lei si era portata dietro un’amica, perché “senò la gente...”.
Ercole ci portò in tutti i locali di Papeete dove conoscemmo una fauna mista. C’erano anche degli italiani, perennemente abbarbicati a qualche bellezza locale sulla strada di appassirsi per troppi abbracci saprofiti. Ercole li conosceva tutti, italiani e non, ma in fondo si vedeva che lui era differente; aveva un pizzico di stile, forse più di un pizzico. Lui riceveva la sua amante con discrezione, non si faceva vedere nei divani dei night-clubs, viaggiava separato.
Fu lui a proporci di passare tre giorni al Club Med’ di Moorea. Ci andammo con la sua macchina, dove mi strapazzò le orecchie con Madonna e con il greatest hits di Frank Sinatra: la sua personale colonna sonora automobilistica. Credo di aver odiato Roberto perché gli dava spago! Rimirare la placida bellezza ancestrale dei mari del Sud, dove il tempo si è arrestato al paradiso terrestre, avendo come sottofondo “...I wanna wake up in a city that doesn’t sleep...”: svegliarsi in una città che non dorme, l’esatto contrario.
Il Club Med’ è un posto che avevo sempre accuratamente evitato. Quello di Moorea era però la chance migliore per godere di quel mare. L’alternativa erano gli ancora peggiori resorts con piscina (dove andammo comunque una sera e dove Ercole mi costrinse a ballare il tamuré come un qualsiasi turista idiota, insieme a ballerine che di giorno facevano le cassiere al supermercato). Era un villaggio di bungalows piazzati sotto un palmeto artificiale: dappertutto cartelli con la scritta “pericolo caduta noci di cocco”. Ci scherzai sopra, finché, mentre un’insulsa e paccuta ragazzina francese dell’organizzazione ci accompagnava al nostro capanno, non me ne cadde una a pochi metri, fracassandosi con violenza sul vialetto asfaltato. Ne rimasi terrorizzato e i miei successivi spostamenti nel villaggio sarebbero stati informati alla massima prudenza.
Una milanese (l’avevo riconosciuta per italiana dagli occhiali da sole) che era lì da settimane e contava di rimanerci a lavorare - si era innamorata di un fusto biondo - descrisse tutti i motu, cioè gli isolotti sabbiosi che si formano nelle lagune e si ricoprono ben presto di palmeti. Li nominò tutti.
“Ah! E ce n’è forse uno che si chiama Motu Proprio?”
“No, con quel nome non ne ricordo nessuno”, rispose nello stupore ignorante di ogni presente, castrando il mio sorriso alla ricerca di complicità.
A parte questo, il Club si presentò meno peggio di quanto pensassi. Fummo subito reclutati per una partita a calcio, dove trovai il modo di farmi male scontrandomi ripetutamente con un legionario belga che passava lì la sua convalescenza. Il mare era da sogno ma la gente, in verità, era piuttosto indaffarrata a sfruttare tutte le possibilità offerte: i corsi di sub e quelli di windsurf o canoa, la recita in costume e il torneo di ping-pong, fino alla famigerata, drammaticissima, fantozziana animazione serale. Perché non si godeva in contemplativa pace l’Eden?
Al terzo giorno, non se ne poteva più. Bravo Ercole che aveva consigliato quel periodo così breve.
Le giornate, con lui, passarono veloci. Lo accompagnavamo a misteriosi incontri d’affari, che non si capiva quali fossero, e lui portava noi a scoprire il maleodorante (pittoresco!) mercato coperto o a scovare fabbriche di paréos. Li ordinammo e li pagammo molto di più di quanto non costassero a Honolulu, ovviamente. Ercole si appassionò a descriverci il vero modo ‘primitivo’ di lavorazione dei tessuti per pareo, con le foglie degli alberi stese sul cotone a marcire sotto il sole, fino a impregnare indelebilmente la stoffa, lasciando impresso il proprio disegno. Dalla scelta delle foglie discendeva il motivo ornamentale. Evidente come i colori sgargianti che presentavano la maggior parte dei paréos in vendita fossero astuti frutti moderni della globalizzazione turistica.
Fu nella caccia ai paréos che mi disapprovò. Davanti un atelier, incontrai Vivianne. L’avevo già conosciuta all’Ufficio Turistico, lei dietro la scrivania, io davanti a verificare se davvero l’alberghetto prenotato esistesse (esisteva, ma non c’era la prenotazione!). Inizialmente, lei bianca francese Métropole, era stata vagamente parisiennement scostante, poi s’era resa disponibile finché, finalmente, misteriosamente improvvisa, era scattata la complicità, che sin dall’inizio si aggirava tra le bugie dei nostri sguardi conformisti. Ma via.
Ed eccola di nuovo. La complicità riesplose. Un laccio fluido impediva ai nostri occhi di scostarsi gli uni dagli altri. Ercole mi tirò via, c’era altro da fare.
Non ci fu null’altro tra me e Vivianne, ma credo, sento, davvero che sarebbe potuta essere la donna della mia vita. C’era un’attrazione magnetica.
Che Ercole bollò per idiota; non si può mica fare i romantici. Poi: con una che viene dalla pioggia!
Una mattina Ercole ci condusse in auto per una stradina bianca che penetrava all’interno dell’isola, finché non fu più possibile proseguire. Da lì, io e Roberto ci incamminammo lungo un sentiero che, inoltrandosi nel fitto della foresta, presto assunse connotati da blanda avventura. Ci fu da arrampicarsi su scivolosi scalini scavati nella roccia appesi a una corda, da guadare torrentelli, da camminare sull’orlo franoso di preoccupanti precipizi e altre piccole amenità che ci fecero sentire non più i turisti scemi del Club Med’. Non del Club Med’, cioè.
La nostra meta era una di quelle fiabesche cascate che, sapevamo, sono tipiche delle isole polinesiane. E quando infatti la raggiungemmo, lo spettacolo e l’emozione conseguente furono pieni. Eravamo all’interno di un catino che ci avvolgeva quasi per tre quarti di giro, con pareti verticali di roccia rossastra, viva e talmente diruta che neanche la vitalissima vegetazione di quelle latitudini era riuscita a colonizzare. Dal fondo dove stavamo, vedevamo alzarsi una nube leggera di particelle in sospensione, in mezzo alla quale, proveniente dal cielo aperto sopra il margine del catino, cadeva un’impetuosa colonna d’acqua. Una fonte d’energia dalle sembianze soprannaturali. Veniva giù scrosciando con grande forza e picchiava dentro un laghetto di poche decine di metri quadri; una coppa di acqua adamantina.
Avevamo dato appuntamento ad Ercole, credo qualcosa come alle sei del pomeriggio. Tornammo che erano forse le otto. Lui era lì ad aspettarci, un po’ scocciato, questo sì, ma più per via di una guardia dell’acquedotto che insisteva su quanto fosse grave essere entrati fin lì con la macchina. Comunque, Ercole non s’era mosso: c’era. Da lì non avrebbe potuto rientrare in città e poi ritornare. Aveva semplicemente atteso due ore, solo in mezzo alla foresta.
Credo che avrà ingannato l’attesa facendo sentire a tutti gli uccelli “...I wanna wake up in a city that doesn’t sleep...”.
Teneva sempre un atteggiamento molto disinvolto, ma quando ripeteva, qualche volta, che gli faceva piacere che restassimo perché così aveva compagnia, non si poteva non cogliere una piega triste fra gli elementi aguzzi del suo viso.
Rideva su tutto, il suo argomento preferito era il racconto di grandi scopate in giro per il mondo. Però un giorno gli comunicammo che saremmo partiti prima del previsto. Sembrò un bambino sul punto di piangere: “Ma io venerdì prosimo volevo portarvi con me a la riunione del Comitato di Sviluppo. Sapete, parliamo de li problemi che abbiamo quagiù, volevo che ci venivate... Vi facevo vedere che…”.
Si sentiva tradito.
Cercò di farci cambiare idea. Quando ci accompagnò all’aeroporto aveva ritrovato il sorriso, ma ci guardò avviarci ai banchi del check-in con languida tristezza.


Ciao Ercole, grazie.