Ricordi di viaggi di un italiano nascosto

di Enrico Proietti



silenzi@live.it

Manaus

19.10.2013 00:30

Ero a Manaus, sul battello che conduce a vedere il famoso “incontro tra le acque”. Lontano tante ore di volo da casa, abbandonati i doveri, gli appuntamenti, le scadenze, libero dagli obblighi delle relazioni con le persone, avevo fatto quello che fa un qualsiasi turista; e me n’ero andato laggiù con un volo-bus che da Natal aveva fatto scalo a Fortaleza, a Sâo Luis, a Belém e a Santarém prima di depositare il suo carico tronfio nell’antica capitale del caucciù. E adesso, come chiunque, ero su quel battello per vedere la meraviglia naturale.
Poco a valle della città, il Rio Negro confluisce nel Solimoes: da quel punto, i due fiumi danno vita al Rio delle Amazzoni vero e proprio. Da una parte c’è il Solimoes con le acque chiare di fango – tranquilli, il fango è fertilità – e accanto quelle scure e acide del Rio Negro – non rabbuiatevi, non ci saranno zanzare – e procedono affiancate per chilometri, senza mescolarsi a causa delle diverse composizioni e densità. È interessante, ma certo il modo peggiore per ammirare lo spettacolo sta proprio nell’andarlo a vedere con la barca. Troppo da vicino, non apprezzi lo stacco cromatico: e poi il moto ondoso indotto dai motori tende a farle mescolare un po’, vanificando leggermente l’essenza stessa della cosa.
Stavo dunque su questo battello, sopportando la minicrociera che, tra spostamenti, tempo per le foto, discesa a un precario imbarcadero dove sotto un pergolato di rami secchi ti offrono uno spaesato cocktail, ecc…, dura un paio d’ore. Oltre ai riconoscibili turisti di ogni dove del Primo Mondo e a qualcuno ricco abbastanza proveniente dal Secondo (se esiste il Terzo Mondo dovranno pur esistere i primi due), qualche altro personaggio, anomalo, popolava il ponte del barcone: al loro centro era un brasiliano trabordante ciccia sudata e oro.
Già una strana ansia mi strozzava lo stomaco.
Nonostante tutto, l’atmosfera era piacevole. Al centro del fiume, largo diversi chilometri, la luce si espandeva facilmente, affrancata in parte dalla cappa di umidità che la grande foresta emana. Lo sguardo finalmente si apriva, dopo la claustrofobia sotto gli alberi. Tirava un briciolo di vento e la temperatura, anche sotto il sole, era accettabile. I guizzi dell’acqua suscitavano la mia attenzione pensosa e, improvvisamente, commentati da gridolini e scatti di macchine fotografiche, apparvero le ombre e le pinne di una coppia di inie, i delfini di fiume. Ero soddisfatto: di una stolida soddisfazione turistica. Sapevo di scambiare un soffio per un vento, ma come un bambino fingevo che quello gonfiasse le vele della felicità, pur consapevole, nonostante la menzogna cercata, che si sarebbero presto afflosciate, piene com’erano solo di desideri.
Chi non mostrava alcun interesse per lo scenario era la cricca attorno al brasiliano lardoso. Ora egli fumava; un sigaro di buona qualità, a giudicare dall’odore che mi arrivava contro. I tipi intorno a lui non erano vestiti da turisti e, sebbene tutti ben abbronzati, non lo erano del tipo spiaggia. Piuttosto un’abbronzatura lenta, attecchita con calma progressiva, come quella dei contadini o dei muratori, e però senza i connotati ruvidi e volgari che la polvere conferisce a quella dei lavoratori. Avevo già osservato il loro modo di comportarsi. Ogni tanto si assembravano con un pizzico di concitazione, mi sembravano anche leggermente protesi in avanti, come giocatori che controllassero con l’emozione sospesa dove stesse andando a finire la maledetta pallina della roulette. Poi, dopo qualche giro, si ritiravano per disperdersi entro i limiti circoscritti e monotoni del barcone, a due a due o anche da soli, passeggiare un tantino, fumare, guardare il sedere di qualche americana. Finché, di nuovo, una inascoltabile campanella non li richiamava alla preoccupazione; e così via.
Mi incuriosii. Mi avvicinai a un terzetto di loro: parlavano italiano. Ebbi così il solito banale pretesto per attaccare bottone: “Italiani…?” Meritai il disprezzo dei tre sguardi. L’italiano lo parliamo solo noi, la domanda era sciocca nel suo pleonasmo. Superato il filo di vergogna, entrai nella conversazione. Così, peraltro, dopo un po’ appresi che uno italiano non era, essendo ticinese.
Senza grandi reticenze, mi spiegarono che venivano tutti da Parma, tranne appunto lo svizzero che era un intermediatore.
“Perché il mercato alimentare, ormai, è tutto in mano a Parma…” mi disse quello che sembrava il più giovane.
Quella in corso sul battello fluviale era una trattativa d’affari. O forse una specie d’asta. A vendere era il brasiliano, proprietario di enormi piantagioni di qualcosa. Era dunque lui il croupier: lui aveva deciso di proseguire la partita, già iniziata altrove, facendo una gita a Manaus e andando a vedere l’incontro dei fiumi, ma senza che per questo essa fosse interrotta in modo definitivo. Ogni tanto, secondo l’umore, lanciava qualche nuovo prezzo o condizione, i compratori si affollavano per rispondere, poi tutto veniva di nuovo sospeso. Una maniera poco “europea” di condurre un affare. Notai, infatti, come ciancicasse qualche foglio sul tavolinetto che teneva fra le gambe. Degli altri, c’era chi saltellava le dita sui tasti di una calcolatrice.
Questi parmensi narrarono che avevano girato quasi tutto il mondo. Diedi spago. Si misero allora a descrivere la bellezza dell’interno di alcuni Paesi africani sul Golfo di Guinea, mentre altri, pur confinanti, non erano all’altezza, anzi piuttosto monotoni. Poi attaccarono con l’Indocina, e dài racconti su racconti, per poi tornare indietro all’India, eccetera. La dovizia di particolari con la quale ricordavano le loro spedizioni era incredibile. E si interrogavano a vicenda, perché magari erano stati negli stessi luoghi ma in momenti differenti: “Ma tu hai visto quando da lì risali il fiume, che valli si aprono tutto giù a sinistra?” “Eh, sì, ma pure quando poi superi la catena montuosa, è una meraviglia…” “E perché, voi non siete andati in barca sul lago a nord?” “Sì, sì!”
Il combattimento dei miei sentimenti era assai crudo.
Da un lato avevo già acquisito una sufficiente cognizione sullo sfruttamento di quei Paesi che vogliamo ostinarci a definire “in via di sviluppo”, ben sapendo invece che siamo proprio noi ricchi, qui al nord del mondo, a bloccare le condizioni di sviluppo: e quella ribrezzevole trattativa in corso sul battello mi procurava conati morali.
Dall’altro ero fanciullescamente affascinato da questa gente che lavorava viaggiando in terre che per me si materializzavano esclusivamente in segni e colori su una carta geografica e dati sulle enciclopedie. Ma da lì a conoscerli! Conoscere un luogo significa respirarne l’aria, con gli odori e le puzze, guardare la gente negli occhi, comunicare con le persone, farsele stare simpatiche o antipatiche; vuol dire assaporarlo con tutti i sensi, donargli le proprie forze: scambiare con lui i sentimenti. Questo lo intuivo, all’epoca, ma già lo straniamento del vivere l’esperienza “turistica” mi procurava l’ansia. Avevo una grande voglia di far parte anch’io di quei fortunati. Era appunto il desiderio di un bambino che guarda un western e vorrebbe essere uno dei cow-boys: al limite, anche un indiano.
Mi si affacciò in mente una domanda, che non poteva che continuare sulla linea della sciocchezza. Quello che pareva più giovane si mostrava il più disposto a parlare, ad aprirsi un po’ anche sul privato; così mi rivolsi a lui.
“Ma quando uno di voi si va a fare un viaggio di piacere, dove va?”
Lo sguardo si fece attonito, cercava come qualcosa senza sapere che: sembrava forse non aver compreso la domanda. Invece l’aveva capita, è che gli appariva davvero astrusa. Finalmente, si mise alla ricerca delle parole adatte, ma faticava a trovarle, gli si inceppavano nella laringe. Poi uscirono.
“No, non credo di aver mai viaggiato per turismo.”
“Nemmeno io!” gridai nel silenzio del mio cuore.

Su quell’orribile barcone, tra gente resa orribile dall’ideologia consumistica del viaggio comprato, in uno splendido angolo di natura divenuto orribile per colpa dell’uomo, mi vergognai di fare il turista. Così, di botto, per una normale frase datami da uno che, tutto sommato, non era certo un grande esempio.
Molte volte, altra vergogna fu quella di essere turista italiano. Sarà che si guardano sempre i difetti di chi si conosce… però quelli degli italiani in vacanza mi sono spesso apparsi maggiori. La volgarità, la convinzione – al di là del volemose bene di facciata – di essere gli unici che hanno capito come gira il mondo, gli unici a mangiare bene; l’incapacità, tipica di una Nazione davvero piccola, di adattarsi ai modelli altrui. Il parlare a voce alta, il ritardare, l’indisciplina, il vestirsi da passerella, il pretendere che tutti capiscano i nostri gesti, con una conoscenza media delle lingue migliore solo di quella degli Americani. Il turismo sessuale, del quale siamo campioni del mondo.
Già una volta, poco più che adolescente, mi capitò di vergognarmi di essere romano. A Bassano del Grappa, in un negozietto di ceramiche, il cliente davanti a me lasciava il suo parlare da coatto rimbalzare tra le quattro mura, pretendendo con cafona insistenza lo sconto. Urlava, si dimenava, faceva il furbo. Quando finalmente toccò a me, indicai a gesti cosa volevo e salutai con un sorriso: temevo che l’accento mi accumunasse a quella bestia insozzante il nome della mia città.
E anche l’avversione per la “turisticità” era in effetti qualcosa che covava dentro me. Ricordo quando da bambino mi trascinavano fori porta: già allora mi infastidiva essere uno dei tanti gitanti domenicali imbrattaprati. Poi i primi viaggetti con gli amici, i campeggi: avvertivo un recondito malessere nel compiere gli stessi atti, le stesse visite consumistiche, nel percorrere i medesimi itinerari dove sciamavano le frotte vocianti. Avevo chiusa in me l’esigenza di essere diverso, di essere un viaggiatore e non un turista. Il turista cessa di essere uomo per trasformarsi in un essere divoratore, ma incapace di capire e di relazionarsi.
Da quel momento sul battello sopra le acque che si incontravano del Solimoes e del Rio Negro, là dove si forma a 1700 chilometri dalla foce il Rio delle Amazzoni, capii che, tutto sommato, non ero mai stato un semplice turista. Di qualunque natura fossero i miei viaggi, a cominciare proprio da quello in Brasile, sempre cercavo di guardare altro e oltre. Riuscendoci o meno, non so.
Ho così accumulato un po’ di ricordi: personali, talvolta intimi, molto spesso banali. Qualche viaggio non completamente stupido l’avevo anche già fatto. Ma ciò che conta non è la destinazione: è il modo come si percorre la strada. Così, ripercorrere la traccia della memoria è stato bello: viverne soltanto è deleterio, ma peggio è perdere i ricordi.
Ho avuto voglia di raccontare qualcuno dei miei.
Qualcuno dei miei silenzi.